Laboratorio e Curricolo Verticale nella Scuola di Base: la Matematica

Il laboratorio di matematica e i programmi della scuola di base

Un breve excursus sui più recenti processi di riforma della scuola di base consente di collocare il problema del laboratorio di matematica all’interno di una riflessione più generale.

Il punto di partenza del nostro percorso non può che essere la rilettura dei programmi della scuola media del 1979; in essi, infatti, fa la sua prima esplicita e organica apparizione il laboratorio di matematica. Siamo (stiamo parlando degli anni settanta!) in anni di grande fervore innovativo e vengono chiamati a contribuire alla stesura dei programmi molti insegnanti e ricercatori che hanno maturato sul campo una concezione avanzata della didattica; in particolare, per quanto riguarda le Scienze matematiche, chimiche, fisiche e naturali, i programmi mostrano in filigrana l’elaborazione ricca, feconda e ormai pluriennale di Emma Castelnuovo. La parte relativa alla matematica dei programmi del ’79 è organizzata – prima sostanziale novità – in temi, ognuno dei quali fa riferimento a specificicontenuti: dunque cade la prescrizione rigida di una sequenza temporale. Inoltre, acquisiscono per la prima volta un peso considerevole aspetti e argomenti tradizionalmente assenti o marginali: la geometria delle trasformazioni, la matematica del probabile, il metodo delle coordinate, ecc. Ancora: l’elencazione di temi e contenuti è accompagnata da precisi orientamenti per la “lettura” dei contenuti, che forniscono una chiave interpretativa fondamentale. Ma, per quello che qui maggiormente ci interessa, è indicativa la lettura dei Suggerimenti metodologici con cui si aprono i programmi di matematica e scienze. Al primo punto di tali suggerimenti leggiamo:

“Il processo di avviamento al metodo scientifico proposto agli alunni dovrà rispettare i tempi e le modalità di apprendimento caratteristici della loro età: dovrà quindi muovere da ciò che può stimolare la loro curiosità e la loro intuizione, da esperienze facilmente comprensibili, dalla operatività e indirizzare alla sistematicità, grazie alla progressiva maturazione dei processi astrattivi.

Pertanto gli allievi saranno impegnati, individualmente e in gruppo, in momenti operativi, indagini e riflessioni opportunamente guidati e integrati dall’insegnante, giungendo, secondo la natura del tema, a sviluppi matematici più approfonditi e generali e, rispettivamente, ad un quadro coerente di risultati sperimentali. In molti casi l’indagine sperimentale  e quella matematica potranno proseguire a lungo assieme, integrandosi senza confondersi.

Si sottolinea l’importanza di questa attività di laboratorio non solo, come è ovvio, per le scienze sperimentali, ma anche per la matematica (procedimenti di misura, rilevazioni statistiche e costruzioni di grafici,  costruzioni di geometria piana e spaziale, ecc.) …”

Dunque, nei programmi del ’79 troviamo – per la prima volta al di fuori dell’ambito della ricerca e della sperimentazione, in un documento “ufficiale” e impegnativo per l’intera comunità docente – la dizione “laboratorio di matematica”; e la troviamo all’interno di un contesto innovativo coerente e compatto, che dà a questa dizione un senso preciso e una valenza significativa. Il fatto che il progetto culturale “alto” e didatticamente avanzato sotteso ai programmi del ’79 non sia davvero e fino in fondo “passato” nella realtà della scuola resta motivo di amarezza (oltreché, ovviamente, di riflessione). Si è trattato certamente di un’occasione in gran parte perduta; e le cause di tale parziale insuccesso vanno forse ricercate in un duplice limite: da una parte un limite derivante dalle condizioni al contorno (non è pensabile un’operazione innovativa di tali dimensioni senza uno specifico lavoro – dire attività di aggiornamento è riduttivo – per e con gli insegnanti); dall’altra un limite intrinseco ai programmi stessi, forse non sufficientemente espliciti nell’indicare la “rottura” didattica necessaria alla loro effettiva “pratica” (a volte, sulla via dell’innovazione, è necessario anche sancire in modo inequivocabile ciò che non va fatto, ciò che va abbandonato della tradizione didattica).

Se è vero che i programmi del ’79 non sono arrivati mai a “vincere” la battaglia di una loro penetrazione massiccia nella scuola reale, è anche vero che essi hanno “rinforzato” gli insegnanti impegnati nella sperimentazione didattica e hanno mantenuto comunque aperta una prospettiva di innovazione. Sotto quest’ultimo aspetto i programmi del ’79 hanno dati frutti copiosi nel momento in cui è stata intrapresa la riscrittura dei programmi per la scuola primaria.

Siamo nel 1985, e i nuovi programmi di matematica per le elementari varati in quell’anno conservano e espandono l’approccio e la filosofia di fondo dei programmi della scuola media; e anche la loro organizzazione interna è in qualche modo “figlia” dei programmi del ’79. Dal punto di vista che qui più ci preme, lo spirito complessivo che li anima risulta “consonante” con un’impostazione laboratoriale della didattica. Ci limitiamo dunque a citare un passo delle Indicazioni didattiche che ci sembra significativo in questo senso:

“Nel conseguimento dei diversi obiettivi è importante procedere in modo costruttivo e significativo, fornendo agli alunni una adeguata base manipolatoria e rappresentativa. Ciascun alunno va messo in condizione di utilizzare, inizialmente, materiali diversi, comuni o strutturati, che forniscano adeguati modelli dei concetti matematici implicati nelle varie procedure operative. Tuttavia è importante che egli si distacchi, ad un certo punto, dalla manipolazione dei materiali stessi per arrivare a utilizzare soltanto le relative rappresentazioni mentali nella esecuzione e nella interpretazione dei compiti a lui assegnati.

Il passaggio dall’esperienza alla rappresentazione e quindi alla formalizzazione può avvenire muovendo dalle situazioni più varie: fra di esse un ruolo importante hanno le più naturali e spontanee: quelle di gioco. Ogni attività di gioco e di lavoro, ben impostata e condotta, favorisce una attività intellettuale controllata e educa al confronto di idee, comportamenti, soluzioni alternative, in un clima positivo di socializzazione.”

Dunque, anche se non viene esplicitamente menzionato il laboratorio di matematica, si propongono attività ludiche e di lavoro che favoriscano e sviluppino confronto, discussione, esame di alternative: si delinea per questa via la possibilità di ipotizzare una costruzione di sapere matematico segnata da un taglio fortemente laboratoriale.

Ma veniamo ai nostri giorni, o comunque a giorni a noi vicini: le Indicazioni curricolari del 2000-2001, definite nell’ambito del riordino dei cicli promosso dai ministri Berlinguer e De Mauro, avevano l’ambizione di costituire, all’interno finalmente di un progetto organico, il punto di arrivo, il momento conclusivo della fase di ricerca e sperimentazione di cui i programmi del ’79 e dell’85 erano state le tappe più significative anche se non uniche. Sappiamo che le vicende politiche (la vittoria del centro-destra nelle elezioni del 2001) hanno cancellato questa elaborazione; ciò non toglie che valga la pena di riconsiderare gli esiti del lavoro compiuto tra il 1997 e il 2001 dalle commissioni attivate da Berlinguer (gruppo dei saggi) e De Mauro (commissione per il riordino dei cicli), se non altro perché si trattava del primo tentativo di disegnare unitariamente un percorso riformatore della scuola italiana, dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore. Non è questa la sede per un’analisi complessiva delle Indicazioni curricolari e dei connessi Obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni in ambito matematico. Ci limitiamo a segnalare, in un contesto in cui le parole chiave diventano curricolo e competenze, e dunque l’accento viene spostato dalla prescrittività e sequenzialità dei contenuti al senso complessivo di un percorso, quanto attiene più direttamente al tema della laboratorialità. Troviamo così, già nella premessa dei materiali (per tutti gli ambiti disciplinari) il seguente passo:

“Sul versante della didattica, essa valorizza simultaneamente la classe e il laboratorio come luoghi in cui si promuovono i processi di alfabetizzazione e di socializzazione. Entrambi costituiscono, infatti, luoghi formativi della relazione e della conoscenza, da collocare in un quadro di scuola aperta sia verso l’esterno, attraverso le interazioni e l’ integrazione con l’ambiente, sia al proprio interno, attraverso la flessibile alternanza delle attività e dell’impiego degli spazi.”

E ancora, in termini generali:

“La classe, dunque, sia nella sua forma tradizionalmente collocata nell’aula, sia in forme laboratoriali, va considerata non come un insieme di individui, ma come una comunità di apprendimento, in cui allieve e allievi vengono a trovare le condizioni ottimali sia per l’apprendimento individuale, in relazione alle capacità e caratteristiche di ciascuno, sia per la partecipazione ad attività comuni.

La distinzione tra gli ambiti e le discipline le cui attività vengono svolte prevalentemente nell’aula classe, da un lato, e quelli che richiedono ambienti di apprendimento appositamente attrezzati, dall’altro, non va considerata come separazione, ma in un’ottica di continuità e integrazione. In ciascun ambito e disciplina vi sono molteplici occasioni di attività dentro e fuori l’aula-classe: basti pensare all’uso del laboratorio nell’educazione linguistica e in quella scientifica, ma anche, più in generale, alla dinamica di tutte le situazioni didattiche in cui momenti “fermi”, anche se non necessariamente statici, quali la spiegazione, l’ascolto, la riflessione, la rielaborazione, la discussione con i compagni e gli insegnanti, si alternano ad altri di decisa operatività. Questa alternanza di momenti diversi di insegnamento-apprendimento verrà a caratterizzare tutti gli ambiti e tutte le discipline, in un rapporto di continuità e di integrazione: lo sviluppo delle competenze implica la complementarità di situazioni diverse di apprendimento.

Le esperienze nelle aule appositamente attrezzate sono essenziali per la formazione degli allievi. Attraverso quelle esperienze, infatti, gli allievi vengono a contatto con vari linguaggi e dunque con nuovi strumenti di espressione personale e comprensione della realtà. Tali strumenti, se adeguatamente valorizzati in un’impostazione didattica mirata al raccordo degli apprendimenti, integrano e arricchiscono le conoscenze negli ambiti specifici. Attraverso l’esperienza di modi diversi di stare a scuola gli alunni diventano insomma consapevoli del diverso tipo di impegno che le situazioni dentro e fuori l’aula classe richiedono e sviluppano, in molteplici forme di interazione con gli insegnanti e i compagni, la propria identità. La consapevolezza che essere allievi significa impegnarsi con gli insegnanti e i compagni in progetti di apprendimento importanti e significativi è alla base della motivazione ad apprendere.

Compito della scuola, e particolarmente del gruppo docente, è non solo di predisporre, quando possibile, situazioni di apprendimento in grado di stimolare l’interesse e il coinvolgimento degli allievi, ma anche di garantire condizioni ottimali per l’apprendimento. Allievi e allieve vanno aiutati a dare un significato a ciò che imparano, proponendo loro attività di un appropriato livello di difficoltà in modo che essi possano sentirsi valorizzati e in grado di affrontare l’impegno scolastico, sollecitando la capacità di ragionare e di valutare insieme con insegnanti e compagni il lavoro fatto, le difficoltà incontrate e gli obiettivi ancora da raggiungere, in un clima cooperativo che faciliti e renda più significative le attività, in relazione agli obiettivi e ai progetti. Queste condizioni contribuiscono a formare nelle allieve e negli allievi la consapevolezza che apprendere è anche un’assunzione di responsabilità.”

Per quanto riguarda specificamente la matematica, vengono individuati quattro nuclei tematici, caratterizzanti i contenuti dell’educazione matematica nell’intera scuola di base: il numero, lo spazio e le figure, le relazioni, i dati e le previsioni. Vi sono poi tre nuclei trasversali, centrati sui processi degli allievi: misurare, argomentare e congetturare, risolvere e porsi problemi. Le finalità dell’insegnamento-apprendimento della matematica vengono ampiamente illustrate (al solito ci limitiamo a citare alcuni passi, i più attinenti alle tematiche al centro di questo libretto[1]; la maggiore lunghezza della citazione è giustificata proprio dal carattere di riepilogo di decenni di elaborazione e ricerca che ha il documento della commissione De Mauro):

“Il linguaggio e il ragionamento matematico devono essere considerati strumenti per l’interpretazione del reale e per la costruzione di concetti, di modelli, di proprie modalità di pensiero, e non un puro esercizio logico o un astratto bagaglio di nozioni. Nella scuola di base la costruzione di competenze matematiche va perseguita in opportuni campi di esperienza, ricchi e motivanti, che permettano agli studenti esperienze cognitive significative, consonanti con quelle esperite in contesti linguistici, storici, sperimentali, motori, figurativi e ludici. A partire da esperienze vissute nella scuola dell’infanzia, nei contesti di gioco della vita familiare e sociale, bambine e bambini maturano consuetudine con il calcolo, con il gioco dei se e dei ma, imparano a intuire, immaginare, porsi dei problemi, incontrano nei fatti il ragionamento matematico. Tali consuetudini matureranno soprattutto se gli insegnanti utilizzeranno più di una modalità di lavoro, ad integrazione della lezione tradizionale. In particolare, sarà fondamentale il laboratorio di matematica, che permetterà agli allievi non solo di eseguire ma anche di progettare, discutere, fare ipotesi, costruire e manipolare con materiali diversi, sperimentare e controllare la validità delle ipotesi fatte. Grande importanza come mediatori nei processi di acquisizione di conoscenza e nel supporto alla comprensione del nesso tra idee matematiche e cultura assumono gli strumenti, dai più semplici, come i materiali manipolabili, ai più complessi quali, tipicamente, il computer o le calcolatrici numeriche e simboliche.

È comunque essenziale nel processo di insegnamento-apprendimento di questa disciplina collegare strettamente esperienze di vita e riflessione su di esse con un progressivo processo di astrazione tipico delle procedure matematiche. Calibrando adeguatamente i ritmi dell’azione di insegnamento alle reali esigenze degli studenti, in una didattica che, per la matematica deve essere lunga e di graduale assimilazione, l’insegnante, avvalendosi di contesto e strumenti opportuni, utilizzerà problemi e situazioni al fine di mobilitare le risorse intellettuali degli studenti per contribuire alla loro formazione generale.

In tutte le attività sarà essenziale la mediazione del linguaggio naturale, sia parlato sia scritto: l’esperienza e la verbalizzazione col linguaggio naturale dovranno precedere la formalizzazione e la riflessione sui sistemi di notazione simbolica propri della matematica…

L’acquisizione del linguaggio rigoroso della matematica deve essere quindi un obiettivo da raggiungere nel lungo periodo e una conquista cui gli allievi giungono, col supporto dell’insegnante, a partire dalle loro concrete produzione verbali, quasi sempre imprecise ma ricche di significato per l’allievo: queste vanno messe a confronto e opportunamente discusse nella classe per giungere così a riconoscere, nell’uso di simboli e scritture formali, forme sintetiche di espressione del linguaggio naturale, con il loro alfabeto, regole di costruzione di scritture corrette e sintassi.”

Con le elezioni del 2001 si produce una cesura nel processo innovativo. Per le problematiche che qui ci interessano, la nuova gestione si incarna nelle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado. Si tratta, al momento, solo di enunciazioni di linee guida, giacché sono ancora in via di predisposizione e di approvazione i decreti attuativi che dovrebbero “implementare” il progetto morattiano (e non è difficile prevedere che questi passaggi risulteranno tormentati e dunque tutt’altro che rapidi).

Il documento in questione appare piuttosto diverso dai precedenti; non mancano, ovviamente,  notazioni didattiche e elenchi di contenuti; ma, laddove programmi e indicazioni sono in generale portatori di un disegno innovatore, si sforzano di aprire un orizzonte, propongono una linea di ricerca, nel caso delle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati – almeno per l’ambito matematico, e in particolare per il livello scuola media – sembrano limitarsi, nella sostanza, a “fotografare”, con qualche aggiustamento, la didattica tradizionale. Questa constatazione richiederebbe, evidentemente, un’analisi dettagliata che la sostenesse e la argomentasse; ma, di nuovo, non è questa la sede[2]. Ci soffermiamo quindi, anche in questo caso, solo sul nesso che si stabilisce – anzi, che nonsi stabilisce – tra didattica della matematica e ruolo del laboratorio. A titolo di esempio, segnaliamo l’impianto piuttosto tradizionale della geometria, impianto che non favorisce di certo – anche se non preclude – la possibilità di un significativo lavoro laboratoriale (anche in considerazione dello scarso rilievo attribuito alla “geometria delle trasformazioni”), o la scelta di una formalizzazione precoce in ambito aritmetico-algebrico, scelta che rischia di chiudere davvero troppo in fretta la necessaria fase di “attribuzione di senso” alle manipolazioni di simboli e formule.

Ma è lo spirito complessivo delle Indicazioni che sembra negare l’idea di una costruzione progressiva e ragionata del sapere matematico in cui giochino un ruolo centrale le attività di tipo laboratoriale, intendendo questo attributo in senso lato; certamente, quindi, un passo indietro rispetto all’elaborazione “alta” della commissione De Mauro. Ciò nonostante non vengono a mancare le condizioni perché chi sia interessato a sperimentare percorsi innovativi possa farlo: un uso intelligente dell’autonomia delle scuole, concentrato sulla ricerca e sperimentazione piuttosto che su elementi accessori e la stessa creatività del singolo insegnante, hanno ancora la possibilità di produrre proposte didattiche significative e alternative rispetto all’esistente. Dunque, non è certo il caso di rinunciare a ragionare sull’innovazione: la necessità dell’innovazione, per chiunque operi nella scuola, va la di là di materiali e programmi di volta in volta prodotti dagli uffici ministeriali, non è legata alle contingenze, fa riferimento a tempi più lunghi e si confronta con una realtà scolastica che, per il  suo essere viva, variegata, complessa, pone domande e problemi da cui non si può comunque prescindere.

Che cosa significa laboratorio di matematica?

Dopo aver rapidamente richiamato il contesto al cui interno si colloca la nostra riflessione, soffermiamoci sul significato da attribuire all’impostazione laboratoriale della didattica in ambito matematico. Ma allora si pone una questione preliminare: che cosa è un laboratorio (di matematica)? Infatti, la prima accezione che viene in mente (il laboratorio è un’aula particolare, debitamente attrezzata), che è poi quella più diffusa, rischia di essere riduttiva e addirittura fuorviante rispetto alla nostra proposta di didattica laboratoriale. Basti pensare ad alcuni laboratori di matematica nelle scuole medie, o al laboratorio di informatica, per come è inteso specie nella secondaria superiore. In entrambi i casi il laboratorio è semplicemente il luogo della manipolazione e della visualizzazione (attraverso modelli o software applicativi) o della verifica (attraverso la compilazione e esecuzione di programmi già predisposti); dunque, in sostanza, la riproposizione del vecchio “esperimento di dimostrazione”, largamente utilizzato nell’insegnamento tradizionale delle scienze.

Diciamo allora che, a nostro avviso, in primo luogo il laboratorio non deve essere inteso come un luogo fisico, ma piuttosto come un “luogo dello spirito”; il laboratorio non si definisce quindi attraverso il come è fatto o il come è attrezzato ma attraverso il che cosa vi avviene. Intendiamoci: la “geografia” dell’aula, la sua “architettura”, non sono irrilevanti. Non è privo di conseguenze, ad esempio, il fatto che gli alunni siano disposti in banchi da uno o due posti che “guardano” l’insegnante o raccolti intorno a tavoli di lavoro che possono, di volta in volta, ospitare un numero variabile di allievi, cosicché anche il baricentro dell’aula possa di momento in momento mutare. Come non è privo di conseguenze il fatto che nell’aula siano presenti “materiali” adatti alla manipolazione (cartoncini colorati, fermagli, plastilina, ecc.), strumenti di misurazione (recipienti graduati, metri lineari e non, bilance, ecc.) e per il calcolo (macchinette tascabili, computer), sussidi per la  rappresentazione dei risultati in forma efficace e funzionale al confronto (cartelloni, lucidi, lavagna luminosa, di nuovo il computer, ecc.). Ma il punto centrale (da cui deriva, semmai, l’opportunità di un’adeguata strutturazione e attrezzatura dell’aula) è, come già detto, ciò che avviene nel laboratorio.

Dunque, che cosa avviene, o dovrebbe avvenire, nel laboratorio? Avviene che il laboratorio sia il “luogo” dove si adotta una determinata metodologia di lavoro: si pongono problemi, si formulano ipotesi, si azzardano previsioni, si ricerca una regolarità nei dati raccolti, si elaborano quadri teorici di spiegazione, si procede a ulteriori verifiche che possono confermare, correggere, confutare; e ciò non attraverso un percorso lineare, bensì attraverso continue andate e ritorni (dalle ipotesi-previsioni alle verifiche e spiegazioni e viceversa), attraverso un percorso di tipo ciclico o, meglio, a spirale. E’ quindi il “luogo” di una costruzione progressiva, che prevede tempi dilatati, di conoscenze e competenze non labili; il “luogo”, in definitiva, dove gli alunni sono direttamente protagonisti nel momento dell’apprendimento (il che, tra l’altro, non richiede meno attenzione didattica ma più attenzione didattica, non meno ma più capacità di direzione da parte dell’insegnante). Ma, se questo è vero, allora il laboratorio non costituisce un di più, un’aula accessoria dove recarsi di tanto in tanto, bensì è l’aula, quella del lavoro costante e quotidiano, ripensata  e riorganizzata in vista di una didattica diversa. L’aula-laboratorio di matematica (ma forse questo è vero anche per il laboratorio di ogni altra disciplina), finisce per essere, semplicemente, una metafora della buona didattica.

La didattica del laboratorio

La scelta di una didattica laboratoriale è dunque la scelta di una modalità di lavoro alternativa. E una modalità di lavoro alternativa presuppone (e, al tempo stesso, implica) un ripensamento della gerarchia degli obiettivi. La gerarchia tradizionale, quella dettata dalla consuetudine, ha il limite di rimanere spesso implicita, cosicché risulta difficile persino metterla in discussione e sottoporla a un riesame critico; occorre dunque, per farla emergere alla luce del sole, guardare ai suoi risultati, alle consapevolezze e agli apprendimenti che essa sedimenta. Una recente indagine[3] che ha coinvolto studenti appena entrati nella scuola superiore (in particolare in un liceo scientifico del centro di Roma), pur condotta nei limiti di una ricerca artigianale, induce alcuni spunti di riflessione. Ci limitiamo, in questo contesto, a richiamare solo un paio di questioni: si evidenzia – e questo avviene uniformemente, a prescindere dalla più o meno gloriosa storia scolastica degli allievi – una mancanza totale di controllo rispetto agli ingredienti fondamentali del fare matematica (e non solo), quali le nozioni di definizione, di operazione, di argomentazione a favore o contro e così via; e d’altra parte (esempio marginale, ma pur significativo) si deve registrare (con qualche stupore) l’importanza spropositata che gli alunni attribuiscono alla distinzione tra frazioni proprie, improprie e apparenti, a fronte di tutto il lavoro condotto sulle frazioni nella scuola di base. Dunque, una gerarchia che privilegia da una parte un’operatività senza principi e senza consapevolezze, dall’altra un’attenzione esasperata ai nominalismi, anche ai meno significativi: l’alunno deve, prima di tutto e soprattutto, saper manipolare forme secondo regole e saper “nominare” oggetti. Il punto critico di tale gerarchia implicita di obiettivi è dato non solo dalla sua inadeguatezza e pochezza culturale, ma anche dal fatto che non riesce poi davvero a raggiungere gli obiettivi che si prefigge. Già, perché quello che poi avviene, almeno per la grande maggioranza degli alunni, è che non abbiano neanche le abilità privilegiate dalla prassi didattica più diffusa…

Occorre, proprio a partire da questo sostanziale fallimento, proporre una gerarchia diversa; le parole chiave potrebbero essere: attenzione al metodo, costruzione condivisa di conoscenze, senso del percorso intrapreso, promozione dell’autonomia dell’alunno. La didattica dell’aula-laboratorio, in cui l’allievo costruisce competenze nel fuoco di un’esperienza significativa e partecipata, si sposa con questi obiettivi; ad essi, in primo luogo, è funzionale.

A questa petizione di principio è necessario che si affianchi, ovviamente, una riflessione che entri maggiormente nel merito dell’esperienza quotidiana del fare matematica a scuola; a questo fine sono consacrate, sia pure con i limiti dell’esemplificazione e del frammento, le schede e i percorsi che si trovano nel seguito. Ci sembra però opportuno fornire già da ora qualche ulteriore, e più specifica, indicazione di metodo. Un rischio infatti è sempre in agguato: quello che la didattica laboratoriale finisca per tradursi, prima o poi, in una versione aggiornata, magari più accattivante, del modello tradizionale e trasmissivo dell’insegnamento. Vale a dire che sia l’insegnante, e solo lui, davanti alla platea costituita dalla sua classe, a porre problemi, ad esplorarli, a formulare ipotesi e a verificarle. E un altro rischio, di segno opposto, non è trascurabile: quello che il laboratorio di matematica – in nome della spontaneità – si traduca in attività poco organizzate, improvvisate e come tali destinate a restare episodiche, scollegate dal percorso complessivo; con la conseguenza di essere destinate, in breve tempo, a lasciare il campo a forme più consolidate e tradizionali di lavoro didattico. Un antidoto a entrambi questi rischi è fornito dall’uso sistematico della verbalizzazione scritta delle riflessioni individuali e dalla discussione collettiva. A sostegno dell’importanza di queste due attività si possono citare i due passi di Emma Castelnuovo proposti nella piccola antologia con cui concludiamo questo saggio introduttivo, oltre alle osservazioni e ai suggerimenti di Carlo Fiorentini, nell’introduzione alle problematiche del laboratorio di scienze.

La verbalizzazione delle proprie riflessioni da parte degli alunni ha una duplice valenza: sul versante dei discenti, in quanto abitua, fin da piccoli, a mettere a fuoco il proprio pensiero e a esprimere e argomentare le proprie opinioni; sul versante del docente, in quanto gli consente di capire meglio cosa pensano i propri allievi nelle varie fasi del processo di apprendimento. L’abitudine a fermare sulla carta può anche contribuire – e non è cosa di poco conto! – a mettere in discussione l’idea che, in ambito matematico, non ci sia proprio alcun bisogno di parlare o di scrivere (se non nel senso particolare di manipolare simboli)… Quanto alla discussione collettiva, essa è il solo contesto nel quale si possono mettere a confronto strategie risolutive e conclusioni diverse, si può costruire un linguaggio comune, si può portare a compimento un percorso di  costruzione condivisa delle conoscenze. 

Verbalizzazione (anche scritta) e discussione (collettiva e di piccolo gruppo), se utilizzate in modo costante, sistematico, organico fin dalla scuola elementare, sono i veicoli attraverso cui si sviluppa l’attitudine al ragionamento; preparano dunque il terreno anche alle future attività di tipo dimostrativo, che costituiranno il livello più alto, sofisticato, formalizzato di argomentazione. Si dovrà pur convenire, infatti, che l’attività dimostrativa  appare difficilmente proponibile a alunni che non abbiano già acquisito, nel loro patrimonio di esperienze, un’abitudine consolidata a giustificare e corroborare con argomenti le loro affermazioni e confutazioni…

Il ruolo dei problemi in una didattica del laboratorio

La didattica del laboratorio impone la necessità di considerare problemi di un certo tipo piuttosto che di un altro e, più in generale, di definire correttamente il ruolo dei problemi nel lavoro scolastico. Vale la pena di soffermarsi su questo punto, che è cruciale nella definizione di percorsi significativi di apprendimento in ambito matematico. Infatti, l’uso che dei problemi viene fatto nell’insegnamento della matematica e la stessa accezione del termine problema appaiono controversi e si prestano a molti equivoci e fraintendimenti.

Nella pratica didattica i problemi spesso non sono altro che esercizi applicativi di routine; addirittura, alcuni docenti – e persino alcuni manuali – ritengono di fare opera meritoria trattando l’argomento problemi come un argomento di contenuto, quasi che il porsi problemi e il tentare di risolverli non costituissero il pane quotidiano del fare matematica, a qualsiasi livello. E anche quando il lavoro viene dichiaratamente organizzato in un’ottica di problem-solving, accade poi spesso che i problemi significativi siano utilizzati come semplice pretesto per introdurre qualche capitolo di matematica dura; cosicché l’argomento sviluppato – purtroppo – finisce per prescindere quasi del tutto dal problema stesso (salvo alla fine vedere che con gli strumenti acquisiti si può risolvere anche il problema-pretesto). Con buona pace di coloro che temono, con qualche fondamento, che la pratica del problem-solving possa dar luogo all’esame confuso di alcuni problemi senza la costruzione di un quadro concettuale adeguato: la vulgata del problem-solving incappa, semmai, in un estremismo di segno opposto. Quindi, se in un’impostazione laboratoriale dell’attività didattica intendiamo utilizzare i problemi come motore dell’esplorazione, della scoperta, della costruzione delle conoscenze, occorre chiarire in modo esplicito e preliminare il significato e la funzione che si attribuiscono ai problemi.

E allora: che cosa si deve intendere per problema? Quali caratteristiche deve avere un problema perché rappresenti una sfida intellettuale stimolante? Prima di tutto ci sembra di poter dire che deve essere significativo; e per essere tale deve avere una relazione forte con le conoscenze e le esperienze di colui che deve tentare di risolverlo (e magari, prima ancora, di porselo). Troppo spesso l’insegnamento della matematica, anche quando ha un carattere prevalentemente legato alla manipolazione e al concreto, come nei primi anni della scuola elementare, è povero di significati; rapidamente e frequentemente ci si trova ad operare in situazioni costruite ad hoc, un po’ artificiose. Questa osservazione non va banalizzata in termini di sostegno dell’opzione – a nostro avviso inadeguata anche se presente in letteratura[4] e non priva di sostenitori autorevoli –  che pretende di rinchiudere la matematica nella dimensione dell’utile e del quotidiano. Il significato non scaturisce infatti necessariamente dalla possibilità di scorgere un’immediata applicazione di quanto si apprende (se così fosse rischieremmo di scivolare di nuovo sul terreno dell’artificioso, giacché la “simulazione” del supermercato o dello sportello bancario non appare destinata, proprio perché ricreata al di fuori del contesto, a suscitare grandi motivazioni e speciali coinvolgimenti…); va ricercato piuttosto nell’intreccio tra “esperienza” e “piacere di pensare” che entra in gioco laddove c’è una prossimità tra il problema e i livelli di curiosità e di consapevolezza degli allievi[5]; e laddove c’è un senso condiviso del percorso conoscitivo che si va compiendo. Per esemplificare ancora: è più significativo un classico problema sui rapporti, sia pure desunto da un contesto di vita quotidiana, o una questione sul filo del paradosso quale il problema di seguito riportato?

E’ bello avere una sorella maggiore. Piero, di appena 2 anni, ha una sorella, Chiara, di 8 anni. Piero è molto contento della sorella e la guarda con occhi incantati. Ma quando i genitori comprano le patate fritte o la cioccolata per Chiara e lasciano Piero a bocca asciutta (“Tu sei troppo piccolo!”), Piero è un po’ meno contento di avere una sorella maggiore. L’unica consolazione, in queste occasioni, è quella di pensare: “Ora io sono piccolo e Chiara è grande; ma prima o dopo la raggiungerò e diventerò grande come lei!”.

Ti chiediamo:

–         Cosa c’è di falso in quello che pensa Piero?

–         Cosa c’è di vero in quello che pensa Piero?

   da “Il racconto della matematica”, di G.Spirito,M.D’Onofrio,G.Petrini, La Nuova Italia, manuale per la scuola media

Qualcuno, pur riconoscendo – come sa chiunque interagisce con i bambini e i preadolescenti – che l’elemento paradossale nella posizione di un problema è fortemente coinvolgente e motivante,  potrebbe comunque obiettare che la questione proposta non ha nulla a che fare con un’attività di tipo laboratoriale. A nostro avviso, al contrario, possiede alcuni degli ingredienti di un problema da laboratorio (se opportunamente corredata di istruzioni per l’uso): prevede la compilazione di una tabella (l’età dei due fratelli nel tempo), la discussione della stessa, la scoperta che c’è un pezzo di ragione nel torto e un pezzo di ragione nel vero (l’età di Piero non raggiungerà mai quella di Chiara, ma, nel contempo, la differenza, pur costante, diventerà sempre meno significativa, giustificando così l’introduzione del rapporto come misuratore dell’esito di un confronto tra quantità), e così via.

L’equilibrio che si deve trovare, di volta in volta, in ogni esperienza didattica, tra l’esigenza di riconoscere la matematica nel proprio vissuto e le ragioni autonome, interne, della matematica stessa, non è mai scontato e dato una volta per tutte; del fatto che costituisca un punto di arrivo arduo e instabile occorre avere piena consapevolezza. Dunque, non esistono ricette facili in questa direzione; in compenso possiamo, fortunatamente, fare riferimento a elaborazioni e esperienze positive (un nome per tutti: di nuovo Emma Castelnuovo). Ponendo attenzione, però – lo ripetiamo – a scongiurare il rischio di un insegnamento tutto teso a enfatizzare le applicazioni della matematica e ad offrire un punto di vista esclusivamente strumentale della disciplina. Anche perché uno degli obiettivi fondamentali di un’educazione matematica non può non essere quello di costruire una sensibilità e un gusto per i problemi, attraverso cui acquistino legittimità e interesse anche questioni (in quanti modi è possibile ordinare un insieme, come si possono rappresentare due sottoinsiemi di un insieme in modo che la rappresentazione dia conto di tutti i casi possibili; come è fatto il rettangolo con l’area più grande a parità di perimetro; qual è una buona definizione di una certa figura, ecc.) che hanno una natura più interna, anche se non esclusivamente interna, alla matematica.

Certo, a una questione teorica non si può sfuggire; e tale questione è legata al ruolo che gioca l’astrazione nella matematica. Il rapporto tra mondo dei significati e mondo delle nozioni astratte – forse il nodo problematico centrale della didattica della matematica – è complesso e controverso, a volte conflittuale se non antinomico. Infatti l’astrazione è anche perdita di significati particolari, sia pure in vista della costruzione di significati più generali, di livello superiore; se questo processo non è adeguatamente sostenuto (si pensi, ad esempio, al delicato passaggio dai numeri naturali alle frazioni o a quello dal calcolo numerico al calcolo letterale), l’astrazione rischia di tradursi in una perdita di significato pura e semplice. Ovvero: se non si è adeguatamente esplorata la molteplicità dei casi differenti non si può apprezzare il ruolo unificante che spesso hanno i concetti più astratti.

Questa riflessione rimanda, d’altra parte, a una questione ancora più generale. Occorre, a questo proposito, rimuovere un pericoloso equivoco: la didattica non può assumere e riproporre semplicemente la sistemazione finale di una teoria, senza dubbio più elegante, formale e, appunto, più generale; ad esempio, non può ignorare e scavalcare il percorso, costato lacrime e sangue, che ha prodotto nel tempo e con fatica, a partire dal particolare, la veste finale dei concetti, delle nozioni, persino dell’apparato tecnico, della geometria. E allora, se il problema del rapporto tra, da una parte particolare-concreto-ad alta densità semantica, e, dall’altra, generale, astratto, formalmente compiuto, non è di quelli che ha una sola e univoca soluzione nell’ambito della didattica della matematica, ciò che si può dire è che richiede di essere tenuto costantemente presente nella progettazione didattica; solo la consapevolezza della complessità del nodo garantisce da accelerazioni formalistiche (o, viceversa, da rinunce assolute e aprioristiche – oltretutto irrealistiche, giacché la matematica si fonda inesorabilmente su nozioni astratte, da quella di numero naturale a quella di punto o linea).

Ma torniamo ai problemi (quelli che proponiamo ai nostri allievi e non quelli che assillano noi docenti!).

Un piccolo dizionario delle parole del laboratorio

Ci sono alcuni termini che ricorrono nella descrizione di un’attività di laboratorio, e di fatto intorno ad essi abbiamo ragionato nelle pagine precedenti. Abbiamo così parlato di osservazione, di  discussione, di confronto di ipotesi, di verifiche, di operatività e così via. Ma il dizionario delle parole del laboratorio non è ancora completo: è giunto allora il momento di mettere sotto la lente di ingrandimento alcuni altri vocaboli, che gettano la giusta luce su aspetti dell’attività laboratoriale fin qui non esplicitamente richiamati.

E allora ecco la parola induzione: l’attività laboratoriale è sede di percorsi induttivi piuttosto che di processi deduttivi. Dunque è sede di costruzione di conoscenza piuttosto che luogo dove si traggono conseguenze rispetto a conoscenze già acquisite; infatti è solo nel momento induttivo, quando si sperimenta il salto dal particolare al generale, che si procede sul terreno dell’ignoto: il momento induttivo è il momento creativo per eccellenza. Altre attitudini attengono al processo deduttivo, ovviamente non meno importanti e significative, ma certamente diverse; giacché nella deduzione si svela ciò che è implicito nel già noto, in essa si esaltano le doti di linearità, di consequenzialità, di rigore. Dunque anche in questo caso un saper vedere che non è però la regola comune che governa i tanti diversi particolari, bensì la relazione nascosta tra ciò che sappiamo e ciò che vorremmo stabilire.

Ma se, parlando di induzione, abbiamo dato l’impressione che l’attività di laboratorio possa avere  un carattere sregolato e quasi accidentale, ecco un’altra parola-chiave che dissolve ogni ambiguità:    precisione. In laboratorio occorre essere precisi, sia se si effettua una misura, sia se si deve delineare una casistica che non trascuri nessuna possibilità; occorre essere precisi sia se si interagisce con un computer, sia se si esamina la corrispondenza di un’ipotesi con le risultanze di una verifica. La precisione, in laboratorio, significa pazienza e completezza, rifugge dalle scorciatoie indebite e dal pressappochismo. Significa anche che la creatività non si esercita sul vuoto o sul caos, e dunque richiede disciplina e metodo, almeno quanto ne richiede un’attività dimostrativa (e dunque legata alla deduzione).

Una parola del laboratorio legata alla precisione è documentazione. Perché l’attività laboratoriale dia tutti i suoi frutti è necessario che di essa resti traccia e memoria; dunque occorre documentare, a noi stessi e agli altri. E’ necessario coltivare pazientemente questa attitudine, abituando gli allievi a registrare osservazioni e risultati, a esporre le conclusioni, anche parziali, in modo che costituiscano un archivio a cui è possibile attingere, a seguire un “programma di lavoro”. La capacità di documentare richiede come precondizione la chiarezza sul senso complessivo del percorso intrapreso e si intreccia con la capacità di argomentare.

L’abitudine ad argomentare le proprie idee, le proprie scelte, le proprie conclusioni si può costruire solo attraverso la pratica costante della riflessione individuale sulle esperienze condotte e della discussione e del confronto con gli altri. Il che richiama un’altra locuzione-chiave del laboratorio: la dimensione collettiva. Infatti l’idea stessa di attività laboratoriale evoca un concorso armonico di contributi, la disponibilità a mettere in discussione i propri convincimenti, la capacità di ascolto e, più in generale, la centralità del lavoro tra pari – sia pure sotto l’attenta supervisione dell’esperto, cioè dell’insegnante.    

Molte delle parole del laboratorio qui ricordate sono declinabili, oltreché sul versante dell’apprendimento, anche su quello dell’insegnamento. Citiamo ad esempio la documentazione: il docente che pensa il lavoro in classe essenzialmente in termini di laboratorio, necessita di altri riferimenti – oltre quelli abituali, quale, ad esempio, il manuale – per organizzare e “fermare” i passaggi fondamentali del percorso su cui impegna gli allievi; il che richiede un di più di lavoro preparatorio (le attività giuste, la loro concatenazione, le domande da porre all’interno di ciascuna di esse per esaltarne il potenziale formativo, ecc.). Dunque è l’insegnante per primo ad aver bisogno di documentare – certo in modo snello, essenziale, funzionale e non burocratico – il percorso, sia nella fase della progettazione che in quella dell’attuazione. Analogamente è forse opportuno sottolineare che l’impostazione laboratoriale dell’insegnamento si colloca meglio in un contesto collegiale, in cui più docenti cooperano positivamente nell’elaborazione, nella messa a punto e nella sperimentazione di un progetto condiviso.

Un’ultima parola chiave del laboratorio vorremmo menzionare,  sia pure attraverso un rapido cenno, e questa parola è curricolo. Una didattica laboratoriale non corrisponde allo svolgimento di un programma inteso nel senso tradizionale (sequenza di argomenti e sviluppo lineare delle abilità che a quegli argomenti afferiscono). Richiede agli insegnanti di “entrare nel merito”, sviluppando una riflessione autonoma sul lungo viaggio attraverso la matematica che si compie nel complesso del percorso scolastico nella scuola di base; e dunque un pensare più in grande, con più ambizione e fiducia. Nella convinzione, però, che non si tratta di un cimento figlio di presunzione, ma, più semplicemente, della condizione necessaria per restituire efficacia e senso alla propria didattica.

Una piccola antologia

Ci piace chiudere queste riflessioni citando gli interventi di alcune delle figure più significative fra quelle che hanno animato il dibattito sul rinnovamento della didattica della matematica e ne hanno promosso la sperimentazione. Non facciamo questo solo per omaggio al loro lavoro, ma anche perché siamo convinti che in questi scritti si possono trovare, a qualche decennio di distanza, osservazioni di grande attualità, indicazioni utili, suggerimenti illuminanti.

Il laboratorio di matematica di un maestro elementare

Bruno Ciari,  Esperienze matematiche nella scuola primaria, in “Scuola e Città”, settembre-ottobre 1965

Un proposito in me era chiaro e intransigente : non preoccuparmi per niente d’incoraggiare abilità esteriori, meccaniche, che non fossero frutto di una ricerca e di una conquista intellettuale, di un effettivo progresso delle facoltà logiche dell’ordinare, stabilire relazioni, operare nel mondo della realtà e in quello dei simboli. Niente operazioni fatte a orecchio, niente esercizi per dar la polvere negli occhi a chicchessia o stare al passo con quel che si faceva nelle classi parallele. I frutti si dovevan cogliere solo quando fossero stati maturi per davvero; la massima cura doveva esser data al lento processo d’interiorizzazione delle operazioni e di conquista dei simbolismi.

Un secondo presupposto era quello di sempre : la ricerca matematica doveva manifestarsi nel clima della comunità scolastica con perfetta naturalezza, così come si poneva l’esigenza di esprimersi, di giocare, di compiere osservazioni; i problemi, le operazioni, dovevan corrispondere non a espedienti, a occasioni di calcolo che io potevo cogliere, ma a bisogni, a qualcosa che non si poteva eludere anche volendo, poiché era implicito nel nostro fare.

Materiale strutturato non c’era. La base di tutto era la vita della comunità; più questa sarebbe stata ricca di contenuti, più la dimensione matematica dell’esperienza sarebbe emersa. […]

S’incominciò subito a fare il giornalino, a dipingere a tempera, a fare osservazioni meteorologiche o biologiche (specie sugli acquari), a organizzare l’orchestra ritmica. La comunità ebbe subito bisogno di entrate, poiché c’eran le uscite ed erano copiose, e tutto non poteva uscire dalle tasche del maestro o dal sostegno provvidenziale dell’amministrazione comunale.[…]

Nacque così, quasi subito, la cooperativa di classe, e, con questa, l’idea di acquistare quaderni, lapis e gomme con sconti per poi rivenderli a noi stessi. La moneta da dieci lire, che ciascun ragazzo portava il lunedì, diventò l’unità di misura fondamentale. […]

Risolvere i nostri problemi diventò un’abitudine, un bisogno : ogni mattina, dopo il tempo dedicato alla conversazione, al testo libero e ai giochi dell’intervallo, si facevano i calcoli del giorno : parecchie addizioni, moltiplicazioni, sottrazioni, come si intuisce facilmente, ma anche divisioni :

                1. Dopo aver comprato i quaderni ci restano lire 400 (40 monete da 10) per acquistare i tubetti di colore, che costano ciascuno lire 60. Quanti tubetti potranno comprare?

2. Un grande foglio di carta da pacchi ci costa lire 40; ma noi ci facciamo 8 fogli da disegno; quanto costa ciascuno di essi? (Questo problema era motivato dal fatto che noi volevamo stabilire, all’ingrosso, il prezzo di un disegno a tempera, dato che i dipinti ci venivano spesso richiesti.)[…]

Mi limito a questi [due] esempi, illustrandone anche la soluzione così come i ragazzi la trovarono.

Problema n.1. I ragazzi raccolsero dal mucchio delle 40 monete 6 monete per volta, facendone dei mucchietti; risultato : 6 mucchietti di 6 monete (cioè 6 volte 60) : possiamo acquistare 6 tubetti e avanzano 40 lire.

Problema n.2. Qui ci si accorse che le monete da 10 non servivano. Come si fa? Io incoraggiai i ragazzi a pensare, senza fretta, per proporre delle soluzioni. Ne vennero fuori tre :

a.       Scambiare le 4 monete da 10 con 40 monetine da 1 lira. Allineare gli 8 fogli sul tavolo grande e distribuire le monetine, una alla volta, su ciascun foglio. Il problema fu effettivamente risolto in questo modo, in quanto avevo messo da parte una buona quantità di monete da 1 lira. I ragazzi si accorsero, un po’ stimolati da me, che per ogni distribuzione si toglievano 8 monetine dal mucchio. Furon così fatte 5 distribuzioni (di 8 monetine ciascuna); si fece strada la consapevolezza, che si doveva consolidare però molto più tardi dopo reiterati esercizi di questo tipo, che 40 monetine distribuite tra 8 fogli dà come risultato 5, in quanto l’8 si può sottrarrre 5 volte dal 40, vale a dire che è contenuto 5 volte nel 40. In sostanza, i ragazzi incominciarono a toccar con mano che non esiste differenza tra divisione di contenenza (problema n.1) e di ripartizione (problema n.2), e che tutto si risolveva sempre in un rapporto tra due numeri.

b.       Scambiare le 4 monete da 10 con monete da 5  e poi distribuirle.

c.        Formare, degli 8 fogli, 4 coppie; su ciascuna coppia, poi, poteva esser messa una moneta da 10. Di conseguenza, un foglio solo costava la metà di 10, cioè 5.

[…] Perché mi son dilungato a illustrare tipi differenti di soluzione dei problemi? Prima di tutto per uscire dalle affermazioni generiche sull’operare concreto, eppoi, essenzialmente, per stabilire un criterio metodologico da cui non mi sono mai discostato. In genere, per ogni problema che si presenti, si propone uno schema di soluzione, in modo che i ragazzi, posti dinanzi a quesiti di diverso contenuto (diciamo) matematico fiutino qual è lo schema adatto tra quelli che hanno già pronti nel cervello, e lo applichino. Il guaio è che quando un problema esce dagli schemi orecchiati, o l’enunciato è proposto in maniera inconsueta, il ragazzo non ci si ritrova e fallisce clamorosamente. Io penso invece che per ciascun problema, sia che riguardi casi concreti, sia che riguardi il modo stesso di eseguire un’operazione qualsiasi, occorre sempre incoraggiare i ragazzi a cercare tutte le possibili vie di soluzione : il risultato utile, ai fini della formazione logica e matematica, non è il risultato del problema (quel che torna), ma la ricerca delle varie tecniche di soluzione (anche se putacaso non portano a un risultato materialmente positivo), la logica implicita in queste tecniche, il loro confronto critico.

Nel laboratorio di Emma Castelnuovo : riflessioni e discussioni sugli angoli

Emma Castelnuovo,  Didattica della matematica, La Nuova Italia, 1963

È molto facile scegliere una definizione di angolo ed esporla con cura agli allievi, accompagnandola con molti esempi, con vari esercizi ed esperienze pratiche, ma è anche molto raro che, insieme con la spiegazione verbale, con il disegno e con la definizione, il concetto di angolo venga capito ed assimilato. […] Questi palesi insuccessi didattici invitano noi insegnanti a un ripensamento : è sugli errori così frequenti che bisogna indagare. Ho voluto fare un’indagine sull’idea che i bambini hanno già dell’angolo quando noi, nella prima classe secondaria, imponiamo loro una definizione. Parlo dell’idea che i bambini si sono fatta o attraverso un’esperienza personale o attraverso il senso che nel linguaggio comune viene dato al vocabolo “angolo”, o, ancora, attraverso i pochi cenni sugli angoli che talvolta si danno nella scuola elementare. Ho condotto, su parecchie centinaia di allievi, un’inchiesta scritta in modo che ogni bambino fosse libero di esprimere le sue idee senza essere suggestionato dalle parole dei compagni. Ho posto queste domande :

1)       negli oggetti che vi circondano vedete degli angoli?

2)       potete con un movimento delle vostre membra descrivere un angolo?

3)       è possibile misurare un angolo col metro?

4)       che cosa è un angolo?[…]

Ritornando alla nostra indagine scritta, è bene che i ragazzi leggano ad alta voce le loro risposte sul tema svolto. Ne nasceranno delle animate discussioni, e non mancherà certo chi, conscio dell’errore fatto da molti compagni nell’affermare che “angolo è il punto dove si incontrano due rette”, butterà giù con un’osservazione tante risposte : “Ma, se l’angolo fosse un punto – dirà – allora tutti gli angoli sarebbero uguali!” Ci torna alla mente la frase pestalozziana “I fanciulli istruivano i fanciulli …”. Anche dallo studio dell’unico argomento finora trattato, “gli angoli”, ci si può render conto che non si deve parlare di un concetto se prima non si conoscono le idee  che ha il bambino su questo concetto, e che tali idee non vengono sradicate, da un momento all’altro, nemmeno dalla più chiara esposizione dell’insegnante. Ma è solo un ritornare continuo sull’argomento, un osservare che è più che un percepire (Decroly), una serena discussione fra compagni che porta alla “costruzione” del concetto; discussione alla quale il professore parteciperà, più per ascoltare che per intervenire, più per mettere ordine che per indirizzare.

Ancora nel laboratorio di Emma Castelnuovo : problemi ed errori

Emma Castelnuovo,  Didattica della matematica, La Nuova Italia, 1963

Già dalle lezioni precedenti avevo distribuito ad ogni bambino un certo numero di “stecchini”, tutti uguali; questi stecchini dovevano servire per facilitare la risoluzione di problemi di questo tipo : ”Costruire un rettangolo avente la base doppia dell’altezza. Se il perimetro del rettangolo fosse di cm 30, quale sarebbe la lunghezza dell’altezza e quale quella della base?”. “Costruire un rettangolo avente la base i dell’altezza. Se il perimetro fosse di cm 28, quali sarebbero le lunghezze della base e dell’altezza?”. Come abbiamo visto […] l’utilizzazione di questo materiale si rivela molto importante perché impone al bambino di non verbalizzare e lo invita a costruire e ad osservare. Nel risolvere, appunto, problemi di questo genere, era passata la lezione precedente. Mi proponevo, ora, di tornare sull’argomento. Dettai il problema : “Costruire un triangolo isoscele avente ciascuno dei lati uguali doppio della base. Se il perimetro del triangolo fosse di cm 30, quale sarebbe la lunghezza della base e quale la lunghezza di ciascuno dei lati uguali?”. Come sempre giravo fra i banchi per vedere come i bambini lavoravano, pronta a rispondere ai loro dubbi, ad indirizzare il più incerto, a riprendere il distratto, ad incoraggiare il timido. Il lavoro con un materiale individuale esige che l’insegnante segua ogni allievo, e, per seguirlo, deve parlargli personalmente; avrà modo così di consigliarlo anche sul come si tiene il quaderno, di indirizzarlo a un ordine “matematico”, e di instradarlo a un metodo di studio. La lezione per tutti diventa allora la lezione per ciascuno. […]

“Io – dice un bambino – non l’ho costruito il triangolo perché il problema lo si risolve subito, senza bisogno di stecchini:  basta dividere il perimetro per 3 ed ho la lunghezza della base, poi la raddoppio ed ho ciascuno dei lati uguali; la base è perciò di cm 10 e ciascuno dei lati uguali vale 20 cm”. Non dico : “Hai sbagliato”, ma dico “Ti ricordi quanto era lungo il perimetro? il tuo triangolo risponde alla prima parte del testo : due lati sono doppi della base, ma …”. Allora, di malavoglia, si convince ad utilizzare gli stecchini; gli sembra però un’umiliazione. Lui, il piccolo Carlo, voleva far colpo sui compagni, risolvendo il problema a memoria, senza alcun sussidio materiale. È una lezione che gli rimarrà impressa : non si deve parlare prima di osservare, non si deve mai procedere su schemi fissi. E ora sono tutti pronti per “trascrivere” quanto hanno costruito col materiale e col pensiero in disegno e in calcolo scritto.”

L’astrazione nella matematica e l’insegnamento

Lydia Tornatore,  Educazione logico-matematica, in “Scuola e Città”, settembre-ottobre 1965

Indubbiamente il pensiero matematico è astrazione e dal punto di vista pedagogico si impone il problema di rispettare tale carattere, di far anzi centro su di esso valendosi della matematica proprio come educazione all’astrazione, di trovare le vie e i modi che consentano di condurre all’astrazione matematica ai diversi livelli di età. […]

Ciò di cui il senso comune diffida non è tanto la capacità di astrarre, quanto piuttosto una pseudo-astratteza che sostituisce ad un contatto immediato, intuitivo con la realtà non la mediazione di un complesso di strutture concettuali che il pensiero percorre, ricostruisce, rielabora ma piuttosto delle formule rigide e viste fuori da ogni contesto, quasi ognuna costituisse una realtà per sé stante. […] In effetti l’insegnamento tradizionale della matematica viene visto non a torto come orientamento nel senso della pseudo-astrattezza di cui si diceva. Una formula da memorizzare o da applicare come regola a sé stante non è certo più astratta di quanto possa essere una qualunque regola operatoria sul concreto; e rischia in compenso di essere più rigida. Il parallelogrammo disegnato sulla lavagna è molto più concreto, cioè rigido, di quanto non sia il parallelogrammo costruito con pezzi di meccano, che può mediante manipolazione assumere forme percettive diverse, variare nell’altezza, variare nell’area, registrare nella gamma delle proprie variazioni il caso particolare del rettangolo. Ma quanti sono, ancora oggi, i professori di matematica convinti che l’usare dei materiali concreti sia un degradare la matematica, farla diventare o rimanere un giochetto da bambini, rinunciando alla superiore astrattezza delle formule, delle regole di calcolo, delle figure geometriche disegnate sulla lavagna?

 

Problemi, riflessioni, teorie

Bruno De Finetti,  Il “saper vedere” in matematica, Loescher, 1967

Risolvere un problema è sempre di per sé uno sforzo istruttivo : ogni successo rende più facili ulteriori successi. Ma il vantaggio è molto più grande se ci si sofferma a riflettere, su ogni problema che ci si presenta, non soltanto quanto occorre per risolverlo ma poi ancora per far tesoro di tutte le osservazioni che siamo capaci di trarne sviscerandolo. Praticamente si tratta di domandarsi vari perché? :

–          perché vale la conclusione trovata (ossia : sussisterebbe oppure varierebbe, e come, se modificassi i dati in questo o quel modo)?

–          perché ho incontrato difficoltà e poi le ho superate (cioè : dov’era il bandolo della matassa e com’è che prima mi sfuggiva e poi l’ho visto)?

Riflettendo su cose del genere ogni esempio arricchisce l’esperienza in misura moltiplicata ed in modo assai più profondo. […]

La difficoltà (apparente) [ad affrontare un problema, ndr] deriva invece dall’incapacità di liberarsi della visione del problema come un tutto unico […] Deriva dall’abitudine a pensare che sapere la matematica significhi sapere di colpo per filo e per segno come rispondere o cosa fare, anziché esser capaci di riflettere e cercare e possibilmente trovare il modo di dire qualcosa di sensato, poco o molto che sia. Deriva dall’abitudine a pensare che capire la matematica significhi essere in grado di seguire una catena di passaggetti formali (sciogliere parentesi, portare un termine qua o di là cambiando il segno, ecc.)  controllandone la correttezza e confermando così l’esattezza della conclusione (dimostrazione di un teorema, determinazione di un risultato); ma giungere alla conclusione (obtorto collo, come diceva Federigo Enriques) non significa nulla rispetto al fatto più essenziale che è penetrare il significato della questione e rendersi conto della linea di pensiero che permette di afferrarla e di ragionarvi sopra; è solo dopo che importa anche, per scrupolo, assicurarsi pazientemente dell’esattezza anche con quei passi formali che a volte sembra siano presi per la stessa essenza della matematica. […]

[…] occorrerà riflettere su come il “saper vedere” […] serva anche a vedere meglio, riflettendovi sopra, il senso di quei metodi generali, sistematici, codificati che risultano per solito ostici e indigesti, non tanto per colpa loro quanto per il modo infelice, vacuo, gratuito, puramente formale, in cui sogliono venir presentati. Riflettendovi sopra, e vedendone il senso, ci si potrà convincere che il diavolo (la matematica fatta di formule) non è poi tanto brutto come ce lo fanno apparire … i suoi adoratori; è anzi un caro e buon diavolo che ci dà generosamente una mano per proseguire più speditamente. Il nostro cammino. Abbiamo cominciato col dire che occorre anzitutto immaginazione, e farne uso per vedere ogni esempio e problema. Abbiamo visto che riflettendo ulteriormente essa si arricchisce di visioni e idee che valgono in più esempi, li collegano, acquistano senso più generale. Se un’idea risulta particolarmente importante, e suscettibile di venir applicata utilmente in casi abbastanza o molto generali, perché non fissarla meglio in testa (ed anche, perché no, sulla carta) sotto forma di enunciato preciso, di regola comoda, di convenzione servizievole, addirittura di teoria? Basta solo considerare tutto ciò come continuazione delle riflessioni precedenti, codificata in quanto riflessioni dello stesso genere ce lo fanno apparire utile. Non considerarlo invece come cosa piovuta dal cielo o dalla fabbrica dei programmi scolastici.

Elogio del gioco

Lucio Lombardo Radice,  Il giocattolo più grande del mondo, Giunti Marzocco, 1979

Questa pagina finale è scritta non per chi gioca, ma piuttosto per chi, tradizionalmente, non gioca: le madri, i padri, i nonni, le zie e gli zii, i fratelli e le sorelle maggiori, le maestre, i professori…

Cari amici e colleghi, se avete un atteggiamento di “sufficienza” rispetto al gioco, se contrapponete ‘per gioco’ e ‘sul serio’, riflettete un poco, vi prego, su questo mio “elogio del gioco”.

Una delle minacce più gravi che incombe sulla nostra “civiltà occidentale”, anzi uno dei fenomeni che già la corrode e la guasta, è il consumismo, è la passività, è la non partecipazione. Viviamo in una società troppo ricca, ma malamente ricca, che fa tutto lei, che ti fa trovare tutto bello e pronto e impacchettato: i giochi colle loro regole prestabilite, gli spettacoli sempre e soltanto da vedere, le trasmissioni della Tv preparate da altri, i viaggi organizzati, le partite di scacchi tra Karpov e Korchnoj da rifare sulla base delle tabelle che trovi sui settimanali, la musica da ascoltare, i film da guardare…

Viviamo in una società che non ci chiede di inventare, che non ci stimola a creare. Viviamo in una società in cui c’è ben poco spazio per “giocare”.

Recuperiamo la gioia, il gusto, di suonare (male), di dipingere (peggio), di recitare (da cani), di fare film (pessimi)… ma di suonare, dipingere, recitare, fare film noi. Ebbene il gioco intelligente collettivo è una delle forme più semplici, e secondo me più efficaci, per recuperare la creatività nella passiva e passivizzante società dei consumi.

Ma ci sono molte altre ragioni di elogio del gioco.

La cultura di base, quella senza la quale si è un pover’uomo, è fatta anche di una serie di regole, nozioni, nomi che è molto noioso imparare sui libri o sui banchi di scuola. Parlo delle regole di ortografia, di certe abilità di calcolo mentale, dei nomi degli Stati e delle loro capitali, di fiumi e laghi e località varie. Ebbene: sciarade figurate, gioco dello ‘spelling’, gioco degli uomini celebri, cruciverba una lettera per uno, sono, tra l’altro, eccezionali esercizi di ortografia (di nomi italiani, e anche stranieri); “fiori, frutta e città” è un ottimo controllo di nozioni acquisite; la camiciaia, ancora gli uomini celebri, il gioco dei matti sono un modo semplice e divertente per ampliare le conoscenze, e con ciò, se pure indirettamente, la propria cultura; il gioco dei sì e dei no, impone la sistematicità logica; alcune varianti del “gioco di Carlotta” sono un ottimo esercizio per fare divisioni a mente. Domanda (molto seria, vi prego di credere cari colleghi insegnanti): ma perché qualche volta, per controllare quello che i vostri allievi hanno imparato, non fate in classe un’ora di palestra di giochi intelligenti, invece di interrogare?

Imparare a giocare, stabilendo e rispettando regole oneste, crea l’abitudine a una convivenza civilemolto di più che non lunghe prediche di “educazione civica”.

Il gioco a squadre ‘socializza’, insegna a aiutare e a rispettare i più piccoli e i più deboli, a bilanciare equamente le forze. I giochi che proponiamo sono anche un mezzo, non facilmente sostituibile, per il “recupero” dello stare insieme, gioioso, tra grandi e piccoli, tra genitori e figli, tra maestri e allievi.

Giocare bene significa avere gusto per la precisione, amore per la lingua, capacità di esprimersi con linguaggi non verbali; significa acquisire insieme intuizione e razionalità, abitudine alla lealtà e alla collaborazione. E l’elogio del gioco potrebbe continuare. Ma mi fermo qui.

Ho cominciato a scrivere questo libro per spasso, ma, via via che andavo avanti, pur continuando a divertirmi, mi rendevo conto sempre più chiaramente che stavo scrivendo un libro serio. Forse il più serio di tutti quelli che ho scritto.

[1] Per una disamina più completa dei materiali della commissione De Mauro, vedi G.Spirito in …

[2] Lucia Amendola su Insegnare

[3] una riflessione … di g.spirito in Insegnare n. …

[4] Vedi ad esempio il documento dei saggi: Pontecorvo…

[5] Perché un problema oltre che significativo risulti anche motivante, è necessario realizzare un equilibrio tra le competenze degli allievi e la sfida che il problema rappresenta. Se la sfida è troppo facile non si ha interesse a raccoglierla; se è troppo difficile si è scoraggiati dall’affrontarla. Nello studio La matematica dalla materna a 18 anni (Pitagora editrice, 1999) si parla, a questo proposito, delle situazioni problemiche come di sfide bilanciate. Anche in una definizione classica di problema, quella dovuta a George Polya:

avere un problema significa: cercare coscientemente un’azione appropriata per ottenere uno scopo chiaramente concepito ma non immediatamente ottenibile (La scoperta matematica, Feltrinelli, 1971, p. 131)

è messo in rilievo questo equilibrio.