Può l’autonomia scolastica avere un volto umano? A proposito di un recente libro di Bottani
Carlo Fiorentini
Insegnanti al timone è un libro stimolante e paradossale. Infatti, Bottani, da una parte, sembra considerare l’autonomia scolastica un processo ineluttabile e necessario per ridare vitalità a sistemi scolastici centralizzati che hanno mostrato da molti anni l’incapacità di affrontare in modo significativo la scuola di massa. Dall’altra, ribadisce più volte nel corso del volume, sulla base di una ricca messe di dati, una valutazione negativa sull’autonomia, quasi che il rimedio fosse peggio del male. Già nella premessa si dice stupito di come l’autonomia susciti entusiasmi generalizzati in Italia: “ho sempre ritenuto che l’autonomia scolastica non sia la soluzione per i numerosi malanni che affliggono i sistemi scolastici, ma che sia invece, a sua volta, un nuovo problema che aggrava e complica quelli preesistenti. L’autonomia scolastica non è affatto esente da rischi a non va presa alla leggera. In Italia, invece, tutta la classe dirigente della scuola e la stragrande maggioranza delle organizzazioni professionali dei docenti ha letteralmente sposato la causa dell’autonomia con la speranza di riuscire in questo modo a riformare uno dei sistemi scolastici più farraginosi e burocratici tra quelli occidentali.”
I primi capitoli sono dedicati ad analizzare l’effettiva autonomia delle scuole nei vari paesi: le scuole inglesi, olandesi, svedesi e neozelandesi sono quelle con maggior autonomia, mentre risultano avere poca autonomia le scuole in Francia, Germania, Italia e Spagna. Tuttavia, anche le scuole dei paesi con maggior autonomia risultano negli aspetti più importanti strettamente dipendenti dal potere centrale e locale.
Tutti gli altri capitoli sono, invece, dedicati ad analizzare gli effetti dell’autonomia sulla qualità degli studi nei paesi dove l’autonomia è stata maggiormente realizzata. Ne emerge un quadro catastrofico su tutti i fronti. Ovunque aumenta la segregazione scolastica. “Fiske e Ladd hanno messo in luce come, in Nuova Zelanda, con l’autonomia sia aumentato e non diminuito il rischio della segregazione scolastica. La stratificazione delle scuole in funzione dell’appartenenza etnica, dello status socioeconomico e del rendimento scolastico degli studenti invece di attenuarsi si è accentuata. Dieci anni di autonomia hanno aggravato le disparità tra le scuole. La competizione tra scuole amplifica i vantaggi delle scuole frequentate prevalentemente da studenti delle classi medio alte e aggrava gli svantaggi delle scuole dove sono maggioritari gli studenti delle minoranze etniche oppure dei ceti meno abbienti. Le scuole in difficoltà non sono scomparse e non sono state nemmeno costrette a chiudere, come prevedeva la teoria. La competizione non ha affatto aiutato a selezionare e a tenere in vita solo le buone scuole, semplicemente perché queste non spuntano come i funghi e men che meno si sviluppano nei terreni aridi e sfavorevoli”. La libertà di scelta delle famiglie si è rivelata un mito.
Considerazioni simili vengono fatte a partire dai dati sulla Svezia, Olanda, Belgio e Stati Uniti. Negli Stati Uniti, è in atto da una decina di anni l’esperimento delle “charter school” (scuole sotto contratto): la gestione di una scuola viene data in appalto ad un ente privato che non è sottoposto al controllo della burocrazia scolastica, ma si impegna a rendere pubblicamente conto del proprio operato, per esempio “a specificare i programmi di insegnamento, a rispettare determinate direttive, a pubblicare resoconti annuali, a somministrare prove strutturate”. Per valutare queste scuole, afferma Bottani, bisogna analizzare dati non a livello nazionale, ma all’interno di ciascun stato, o, nelle grandi città, all’interno di ciascun quartiere: “orbene, cambiando la lente di ingrandimento, l’immagine tranquillizzante fornita dai dati nazionali cambia radicalmente e si giunge alla conclusione che le charter schools contribuiscono ad aumentare la segregazione nelle scuole americane”. Il problema più grave si riferisce agli studenti portatori di handicap. A livello nazionale la percentuale di studenti svantaggiati nelle scuole a contratto è del 8% a confronto con l’11% delle scuole statali. La situazione peggiora inoltre analizzando dati locali. Viene segnalato un ulteriore aspetto paradossale, l’aumento dei costi; le scuole sotto contratto approfitterebbero del sistema di calcolo della spesa scolastica, che tiene conto di varie prestazioni e delle varie tipologie degli studenti, fornendo meno servizi ed avendo quote di studenti svantaggiati inferiori. Conseguentemente, “con l’autonomia la spesa pubblica per l’istruzione finisce inevitabilmente col lievitare”.
Bottani segnala, infine, come interpretazione più profonda del movimento delle scuole sotto contratto e più in generale dell’autonomia scolastica americana, una relazione effettuata da un gruppo di ricercatori dell’UCLA dell’università delle California. Questi ricercatori indicano due filoni che portano in questa direzione, la spinta che proviene dalle comunità escluse e quella che viene dai ceti benestanti. Le prime, deluse dai progressi insoddisfacenti nonostante decenni di riforme scolastiche, vogliono creare scuole confacenti alle loro esigenze. Dall’altra parte, i ceti benestanti “rifiutano la ridistribuzione della ricchezza sotto forma di prestazioni pubbliche a beneficio di tutti e chiedono che i benefici siano investiti in loco, nelle comunità che li hanno prodotti”. Sulla base di tutti questi dati, Bottani arriva infine alla conclusione che la garanzia di un’istruzione di qualità per tutti non è stata raggiunta né dai sistemi tradizionali statali centralizzati e burocratizzati, né dalle recenti “esperienze di quasi mercato dell’istruzione”.
Se il movimento dell’autonomia non ha migliorato sul terreno istituzionale il sistema di istruzione per tutti, dall’analisi di Bottani emerge, inoltre, che le spinte dell’autonomia sul terreno pedagogico, culturale e didattico non sono in generale andate nella direzione di una riqualificazione, ma piuttosto nel senso del ribadimento di scelte non innovative, conformistiche, nozionistiche, dove un ruolo nefasto è stato svolto dalle prove di valutazione. “I modelli di valutazione sono forme di controllo che inducono i docenti e le scuole a modulare i programmi d’insegnamento in funzione delle prove strutturate. In un regime di competizione o di quasi mercato tra scuole è impossibile sfuggire alla dittatura dei test, ossia alla pressione esercitata indirettamente sui docenti per adattare l’insegnamento in funzione del tipo di prove, dato che le scuole non possono permettersi di ottenere medie scadenti ai test. Tra l’altro ci si imbatte sempre nello stesso problema: di quali risultati si parla? Che cosa si vuole misurare? Non è affatto semplice delimitare le prestazioni delle scuole. A scuola, tra l’altro si imparano valori, comportamenti, atteggiamenti che non si possono facilmente misurare. Le prove standardizzate – i cosiddetti test – servono fino a un certo punto, perché i test non permettono di misurare la creatività, il pensiero critico, la perseveranza, la flessibilità di pensiero, la motivazione, l’affidabilità, l’entusiasmo, l’immagine di sé, l’autodisciplina, l’empatia, la coscienza civica, e così via”.
In un quadro complessivamente a tinte fosche, vi è un piccolo paragrafo nell’ultimo capitolo con toni idilliaci, è dedicato alle grandi potenzialità della “rivoluzione pedagogica del XX secolo”, quella del costruttivismo epistemologico e pedagogico che pone al centro del processo di insegnamento apprendimento l’attività costruttiva dello studente. Per Bottani, la riqualificazione della scuola potrà avvenire soltanto se i principi del costruttivismo potranno generalizzarsi, soppiantando pedagogie ed approcci metodologici adatti alla scuola del secolo passato. Pensare, infatti, “di restaurare una scuola autoritaria, basata su rigide norme che scandivano in modo militaresco il funzionamento delle scuole e l’ordine nelle classi, oggi ci appare immorale ed anacronistico. Sarebbe come pretendere di fare a meno degli antibiotici o delle trasfusioni di sangue, oppure, su un altro registro, di ignorare la fisica quantica nello studio dell’energia. La modernità ha svincolato le persone dai legami comunitari o religiosi che determinavano o condizionavano la crescita e lo sviluppo di ogni persona. Il mondo moderno, laico, dei diritti dell’uomo e del cittadino, della libertà di pensiero, è incompatibile con quel tipo di educazione, con una rappresentazione della mente e del sapere fondamentalmente platonica ed aristotelica”.
Il nodo di fondo della riqualificazione dei sistemi scolastici dovrebbe esseri quindi quello di interrogarsi su quali siano le riforme più adatte “per applicare nell’insegnamento le scoperte delle scienze dell’apprendimento e le teorie dello sviluppo conoscitivo”. E Bottani si chiede se tutto ciò passa per l’autonomia delle scuole o se l’autonomia sia una soluzione tra molte altre.
A nostro parere, l’autonomia scolastica italiana, come è stata normata dai vari decreti, ed in particolare dal Regolamento dell’Autonomia, costituisce una buona premessa per una scuola di qualità, perché, da una parte, non assomiglia per nulla all’autonomia forte realizzata in alcuni paesi e radicalmente criticata da Bottani, e dall’altra, è un’autonomia significativamente orientata alla riqualificazione della didattica, delle metodologie, ed al superamento dell’enciclopedismo nozionistico. Bottani stesso afferma: la riforma della scuola in Italia intrapresa dal ministro Luigi Berlinguer nel 1996 e proseguita da Tullio De Mauro è stata ispirata e fors’anche imposta da questa rivoluzione pedagogica che è del resto evocata nella presentazione del documento di sintesi dei lavori della commissione dei saggi sulle conoscenze fondamentali”.
N. Bottani, Insegnanti al timone, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 9-10, 109-110, 133, 140, 156, 162, 123, 116, 209, 222-223, 220.