L’insegnamento scientifico della scuola dell’infanzia

L’insegnamento scientifico nella scuola dell’infanzia[1]

Nonostante siano passati anni, ormai, dall’introduzione nella scuola delle Indicazioni per il Curricolo, il concetto di “curricolo” stenta ad entrare nella prassi quotidiana. Nella migliore delle ipotesi, si dice “curricolo”, ma si intende “programma”; in tutti i segmenti di istruzione; perfino nella Scuola dell’Infanzia. Ma la sostituzione di una parola con un’altra non ha compiuto (e non può compiere) il miracolo del rinnovamento della didattica. E infatti, nonostante i cambiamenti lessicali, il modo di intendere la scuola, di fare scuola nel concreto, è sostanzialmente rimasto invariato. Ho provato spesso a pensare ai motivi di questa che appare come una vera e propria impermeabilità del sistema a un’innovazione che su di me ha avuto, sin dall’inizio della mia esperienza professionale, un’attrazione irresistibile. Nel tempo, mi sono data molte risposte, ma quella che alla fine mi convince di più è la complessità del metodo, il suo non essere riconducibile ad una “ricetta”, la necessità di una ridefinizione continua e perenne di pratiche, modalità, atteggiamenti, ai quali ciascuno di noi è legato emotivamente, prima ancora che professionalmente. Il curricolo implica una dialettica/dinamica continua tra ciò che si è fatto e ciò che va fatto dopo. E il prodotto, la risposta del bambino, è il punto di partenza di questa ri-progettazione. Cosa significa altrimenti “mettere il soggetto che apprende al centro dell’azione di apprendimento”? Osservare i prodotti dei bambini, ascoltare le loro risposte, individuare le criticità o le potenzialità impreviste e imprevedibili: è questo il lavoro sul curricolo. E poi, essere capaci di intervenire su quelle criticità, ri-calibrando, ri-prendendo, ri-pensando il lavoro in funzione delle osservazioni effettuate. La didattica tradizionale non è efficace non perché non coinvolge direttamente i bambini, non perché utilizza il libro di testo invece dell’esperimento; non è efficace perché non si occupa di ciò che avviene nella mente dei bambini, perché non si interessa dei processi, perché valuta i risultati constatando successi o insuccessi come se fossero dati ineluttabili dei quali gli insegnanti hanno il dovere di prendere atto attraverso la valutazione. Perché ciò che conta è aver affrontato quel contenuto, aver fatto quell’esperienza, nella convinzione che il nostro lavoro consista in questo: nello spiegare come funziona una cosa, nel raccontare come è avvenuto o avviene un fenomeno. E questo atteggiamento non cambia neanche nella scuola dell’infanzia, anche se è più “mascherato” dalla tipologia delle attività proposte. I contenuti danno sicurezza; la riproposizione di percorsi già fatti, di argomenti già affrontati, sembra mettere al sicuro da possibili incognite, da salti nel buio difficili da gestire. Così il cambiamento viene accettato in quanto sostituzione di un percorso con un altro, in una sorta di baratto all’interno del quale non cambia la sostanza del fare scuola. Perfino la scelta di contenuti più vicini al mondo dei bambini e più prossimi alle loro capacità di comprensione, influisce poco sul miglioramento dei risultati.

Un equivoco di fondo: obiettivi educativi e didattici

Leggendo le programmazioni, spesso ci si imbatte in elenchi più o meno lunghi. Talvolta, tali elenchi sono organizzati in categorie: finalità, obiettivi generali, obiettivi specifici, obiettivi educativi, obiettivi didattici, e così via. Al di là della funzione burocratica e della confusione terminologica che si è andata sedimentando negli anni intorno a questi concetti, l’impressione che si ricava quasi sempre dalla lettura di quei documenti è che ci sia una distinzione netta (spesso anche una gerarchia) tra obiettivi educativi (spesso orientati a finalità generali e di tipo trasversale) e quelli didattici (più direttamente legati all’acquisizione di conoscenze specifiche in relazione ai contenuti proposti). Riflettere su quali siano gli obiettivi delle nostre proposte, può aiutare a sgomberare il campo da equivoci che condizionano in maniera pesante le scelte successive. Rimaniamo nel campo dell’educazione scientifica, anche se il ragionamento (con i dovuti distinguo) potrebbe valere anche per gli altri ambiti. Perché è importante proporre percorsi scientifici fin dalla Scuola dell’Infanzia? Quali sono gli obiettivi che ci prefiggiamo?

L’educazione scientifica «dovrebbe essere finalizzata essenzialmente a una tempestiva sensibilizzazione, ad un atteggiamento di confidenza e riflessione critica nei confronti degli aspetti più propriamente scientifici del mondo (e del linguaggio) in cui sono immersi gli allievi di oggi, e a contribuire all’acquisizione di quella dimensione pervasiva della personalità che può essere indicata come atteggiamento scientifico e metodo scientifico, di fronte ai problemi più urgenti della vita quotidiana» (Pontecorvo, Guidoni 1979, p. 2).

«L’obiettivo è pervenire ad un approccio scientifico costruito sull’alfabeto dell’osservazione-scoperta, sulla grammatica dell’accorgersi: i bambini vanno messi nelle condizioni di accorgersi, di adattare ciò che sanno pensare (ricordare, spiegare, progettare) a ciò che sanno vedere, a ciò che succede intorno a loro» (Frabboni 1992, p. 31).

La scuola, cioè, non ha il compito di formare botanici, chimici, fisici, ecc. Almeno, non la scuola fino a 16 anni. Questa scuola ha un compito diverso, ben più importante e più difficile: quello di utilizzare le esperienze (la semina, la combustione, ecc.) e le discipline (la scienza, la musica, la letteratura, ecc.) per formare le persone, per aiutarle a vivere meglio, per fornire gli strumenti che le mettano in condizione di imparare ad imparare in tutto l’arco della vita. La scuola deve educare quel pensiero, lo deve rendere sempre più consapevole, sempre più libero e svincolato dalla situazione. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, potremmo dire che la scuola “usa” i contenuti della scienza, in quanto li ritiene occasioni feconde per espandere le naturali motivazioni dei bambini alla comunicazione, socializzazione, autonomia, costruzione, esplorazione. Dietro l’apparente “pochezza” o “banalità” scientifica di alcuni contenuti scelti (cosa c’è di scientifico nell’osservare campioni di terra per definirne il colore, a confronto con esperienze di trasformazione dell’acqua o di galleggiamento o di fotosintesi, ecc.) si nasconde la complessità autentica e reale delle competenze che andiamo a sviluppare, la loro fondatività nella costruzione di quegli atteggiamenti scientifici, di quei modi scientifici di guardare il mondo che rappresentano la base di qualunque apprendimento successivo delle scienze formalizzate come discipline, ma ancor più, della capacità di quel ragionamento critico e divergente, di quel pensiero logico e razionale, di cui la nostra epoca reclama a gran voce la costruzione e il consolidamento.

In principio era l’esperienza

Ma lo sviluppo di atteggiamenti e di modi di pensare di questo tipo non è spontaneo, né tanto meno automatico. Non si attiva semplicemente “per contatto” con esperienze, materiali, oggetti. Il nostro lavoro consiste, dunque, nel creare ambienti che sostengano l’apprendimento, nello scegliere contenuti concettualmente dominabili in relazione alla fascia di età cui si rivolgono, nell’approntare e proporre strumenti (anche questi sia di tipo operativo, sia concettuale) che stimolino, nei bambini, quella riflessività che rappresenta la condizione per passare dal fare al saper fare.

«I bambini esplorano continuamente la realtà, ma hanno bisogno di imparare a riflettere sulle proprie esperienze descrivendole, rappresentandole, riorganizzandole con diversi criteri» (MIUR 2012). In questa prima frase dello spazio dedicato al campo di esperienza che si occupa dell’esplorazione del mondo che circonda i bambini è riassunta e sintetizzata la sostanza dell’azione che deve guidare le scuole e gli insegnanti nell’approcciarsi a questo ambito di apprendimento. È vero infatti, che anche bambini molto piccoli manifestano e sviluppano spontaneamente comportamenti finalizzati all’esplorazione della realtà che li circonda. Ma la scuola rappresenta il primo luogo in cui i bambini e le bambine incontrano le conoscenze e i saperi in una forma progressivamente strutturata. Ed è questo incontro “programmato” che consente la costruzione di quegli atteggiamenti che rappresentano i “veri” obiettivi del nostro lavoro. La scuola attiva quei canali che consentono il passaggio tra i saperi strutturati e le modalità rappresentative, gli schemi e le strutture della mente infantile, in forme capaci di produrre conoscenze stabili, consapevoli, trasferibili e attente agli aspetti operativi che sono quelli che aiutano i bambini a costruire i propri metodi di indagine e di lavoro. La riflessione sulle esperienze attraverso la descrizione, la rappresentazione e la riorganizzazione con criteri diversi, diventa la struttura metodologica di riferimento per la progettazione in questo campo di esperienza. In principio c’è l’esperienza, potremmo dire. Un’esperienza fatta di partecipazione concreta, diretta, coinvolgente, esperita nella maniera più completa possibile. In questa fase esplorativa, i bambini sviluppano la loro capacità di osservare in maniera sempre più selettiva, imparano a collaborare per la buona riuscita di un’esperienza, diventano capaci di descrivere utilizzando dati via via più “oggettivi”. Ma grazie a questo lavoro di tipo preliminare è possibile andare oltre, introducendo elementi di concettualizzazione, stimolando il passaggio graduale e progressivo dal piano percettivo a quello operativo, dal concreto all’astratto, dal segno al simbolo. Perché solo attraverso questo passaggio le interazioni dei bambini con la realtà diventano sempre più significative e producono concreti contenuti di conoscenza. 

Il piegare le mani in gesti e movimenti inusuali, il progettare e costruire direttamente uno strumento che serve ad uno scopo ben preciso, “costringe” la mente a pensare a ciò che sta facendo e questo consente di acquisire consapevolezza del proprio operare e a cercare soluzioni sempre più funzionali, a riconoscere strategie che testimoniano (che sono espressione e al contempo costruiscono e consolidano) il proprio modo di imparare, il proprio stile cognitivo, il proprio approccio alla conoscenza. In questo modo i bambini imparano a darsi ragione dei cambiamenti e dei non/cambiamenti della realtà, a provare a cercarne le cause, ad accorgersi della coerenza e della non/coerenza tra ciò che si pensa e ciò che accade.

Da soli o in gruppo

Un altro equivoco che va chiarito riguarda il rapporto tra risposta individuale e lavoro di gruppo. Parafrasando ciò che abbiamo detto prima a proposito dell’esperienza, potremmo aggiungere: “in principio c’è la risposta individuale”. Questa ha la funzione di far riflettere ciascun bambino sul contenuto proposto, mettendo in gioco le sue competenze e conoscenze; solo dopo possiamo riprendere gli elaborati individuali e, partendo da quelli, condividere le conoscenze e arrivare alla realizzazione del cartellone di codifica di gruppo come risultato del contributo di tutti. Questo perché partendo da una conversazione di gruppo, spesso parlano sempre gli stessi bambini, cioè quelli che sanno già le cose, o che hanno gli strumenti linguistici per poterle dire (specialmente a 3 – 4 anni questa abilità non può essere data per scontata in tutti). Gli altri, per timidezza, per difficoltà linguistiche, per mancanza di conoscenze in proposito, per emulazione di ciò che hanno detto gli altri, restano nell’ombra. Chiedere di disegnare (ma anche di ricostruire plasticamente) da soli, e poi di verbalizzare, “costringe” tutti a dire qualcosa, a riflettere su quella cosa, e consente a noi di capire le reali condizioni di ciascuno. In questa fase, si accetta tutto: le omissioni, anche gli errori. Poi si socializza e il cartellone diventa davvero il risultato del lavoro di tutti: tutti ci si riconoscono perché c’è anche solo una cosa che hanno notato tutti. Se la questione è abbastanza chiara per tutti si può procedere. Altrimenti (se non è chiara per un gruppo consistente di bambini) bisogna tornare a lavorare proponendo materiali e strumenti diversi. Questo è un passaggio fondamentale: noi chiediamo ai bambini quali sono le caratteristiche (perché il lavoro consiste proprio in questa scoperta, in questo “accorgersi” progressivo) e poi lavoriamo su quelle che loro hanno evidenziato. Non decidiamo “prima” cosa i bambini devono vedere perché l’importante non è ciò che si vede (le caratteristiche) ma la capacità di vedere. Se poi le caratteristiche individuate ci sembrano troppo “povere”, proponiamo attività che ne mettano in evidenza altre. Lo schema è un po’ questo: osserviamo la terra. Manipolazione libera. Scheda “com’è la terra”. Risposte dei bambini: marrone, grigia, fine, sassosa, ecc. Approfondiamo queste caratteristiche. Per esempio, lavoriamo sul colore (marrone e grigio). Come si costruiscono questi colori? Oppure sulla consistenza: forniamo ai bambini colini di dimensioni diverse e vediamo cosa otteniamo. Costruiamo serie ordinate in base alla granulosità. Se nessuno ha evidenziato le caratteristiche chiaro/scuro, dobbiamo decidere se vogliamo lavorarci oppure no. E decidiamo a seconda dei bambini. Abbiamo tempo per approfondire (nel senso che vale la pena usare il tempo per approfondire questo aspetto o è necessario usarlo per altro)? Questo gruppo di bambini ha bisogno di lavorare su questo aspetto o anche no? Se decidiamo per il sì, proponiamo attività che facciano “scoprire” ai bambini la caratteristica che non avevano notato da soli. Per esempio diamo loro solo terre grigie (o marroni) di diversa intensità di colore. E chiediamo cosa hanno in comune e cosa hanno di diverso e poi proviamo a ricostruire le gradazioni (aggiungendo acqua o bianco). Perché non ci sono caratteristiche che “vanno sapute”. Il lavoro consiste nell’educazione all’indagine e alla scoperta. Noi insegnanti, spesso applichiamo stereotipi mentali (colore, forma, dimensioni, ecc.) ad una ricerca che deve essere compiuta direttamente dai bambini anche a costo di trascurare alcune di queste cose. Perché ripeto, l’importante è che loro imparino ad osservare, cercando; che riescano a comprendere che la realtà che li circonda è organizzabile a seconda dei fini e degli scopi. Se voglio lavorare la terra per ottenere un vasetto, non mi importa molto del colore. Dovrò andare ad indagare altre caratteristiche, tipo come si comportano i vari tipi di terra mescolati con l’acqua. Se invece voglio usare la terra per dipingere ciò che mi interessa è il colore e la consistenza.

A questo proposito si può rilevare una contraddizione nel modo di procedere dei diversi percorsi (lingua, matematica, scienze). In realtà la contraddizione è solo apparente. Il percorso di scienze e quello di lingua sono molto diversi (parlo di quello di lingua perché lo conosco meglio). In quello di scienze si vanno ad indagare prima, e a sviluppare poi, competenze molto specifiche che hanno la loro base nelle capacità individuali. La capacità di osservare, di analizzare, di cogliere aspetti salienti, caratteristiche in grado di definire un oggetto o un fenomeno, sono prettamente individuali. Il lavoro di gruppo e la condivisione delle acquisizioni serve di rinforzo e ampliamento per i singoli. Ma ciò che si va delineando (e ciò per cui lavoriamo) è lo sviluppo personale delle competenze di cui parlavo prima. Non a caso di solito questi percorsi vengono proposti all’inizio dell’anno; proprio perché le competenze anche di atteggiamento (attenzione, concentrazione, costanza, ecc.) che questi percorsi riescono a sviluppare servono poi anche negli altri. Il percorso di lingua ha caratteristiche diverse. Per la sua estrema complessità (ci sono in gioco abilità fonetiche, sintattiche, semantiche, di struttura testuale) rappresenta una tappa nella costruzione di un curricolo verticale imprescindibile. Cerco di spiegarmi meglio: mentre i percorsi di scienze potrebbero avere senso anche isolatamente, quello di lingua per vedere dispiegate le sue potenzialità ha bisogno del proseguimento. Perché? Perché molte delle abilità che cerca di sviluppare, i singoli bambini le acquisiranno molto più tardi. La funzione del gruppo diventa fondamentale per fornire la base esperienziale su cui basare le proprie elaborazioni. Mentre a scienze, questa base è tangibile (il pesce lo vedo, la castagna la tocco) e quindi, tutti sono in grado di dire qualcosa, a lingua no. E allora bisogna costruire una base di esperienza comune all’interno della quale poi ciascuno trovi le cose personali. I testi d’appoggio (ma anche la costruzione di un “ambiente”, la drammatizzazione delle diverse situazioni) hanno proprio questa funzione. Ma quante volte i bambini si “limitano” a ripetere pari pari quello che hanno ascoltato dal testo o che è venuto fuori dal lavoro di gruppo. A volte, parola per parola. E va bene, ma testimonia della grande difficoltà e del bisogno dei bambini ad avere un modello di riferimento, un ancoraggio referenziale. Parlare sul nulla (quello che noi chiamiamo immaginario, ma che non può essere dato per scontato e che va costruito a scuola) è molto difficile per i bambini di questa età. Anche quelli che parlano, raccontano le storie dei cartoni animati (a me è capitato con i nomi dei personaggi della storia) o dei film. Naturalmente le proporzioni tra individuale e collettivo non possono essere stabilite a priori: dipende dai gruppi dei bambini e dai singoli. E torna in gioco la sensibilità e la sapienza professionale degli insegnanti. Ma pur con tutte le difficoltà e le fatiche, questo approccio va salvaguardato perché rappresenta il cuore e la sostanza del metodo. Lo scambio con gli altri nella pratica sociale del discorso diventa strumento per imparare a pensare. Così come nella fase del pasticciamento le mani tradiscono e indirizzano il vagare del pensiero che è alla ricerca di una strategia per agire, nella discussione nel piccolo gruppo, le parole, le frasi, svolgono la funzione di orientare i ragionamenti, di dare senso e significato alle azioni di cui si è fatto esperienza. Si tratta di un pasticciamento del pensiero che però lascia tracce di sé. «Il metodo dell’intelligenza esige che si conservino tracce delle idee, delle attività, delle conseguenze osservate. Conservare tracce significa che la riflessione consideri e compendi operazioni che comprendono tanto il discernimento quanto il ricordo dei tratti significativi di un’esperienza. Riconsiderare significa riesaminare retrospettivamente quel che è stato fatto in modo da estrarre i significati netti, che sono il capitale di cui si vale l’intelligenza nelle esperienze future» (Dewey 1949, p. 72).

Dall’individuale al collettivo: quando, come, cosa?

Abbiamo già detto che il passaggio dalla produzione individuale a quella collettiva può avvenire “solo” quando la maggior parte dei bambini sa di cosa stiamo parlando, ha preso confidenza con l’“oggetto”, è in grado di produrre individualmente una qualche rielaborazione (grafica, verbale, plastica). Finché le produzioni individuali non sono soddisfacenti (rispetto agli obiettivi di competenza per i quali sono state proposte) non ha senso procedere con l’elaborazione collettiva. D’altra parte anche questa fase del lavoro (quella collettiva) ha bisogno di condizioni organizzative per essere efficace. Innanzi tutto va realizzata in piccolo gruppo. Se la sezione è eterogenea per età, il gruppo è quello dei bambini della stessa età; se la sezione è omogenea, i bambini vanno divisi in sottogruppi (considerati i numeri delle sezioni attuali, direi almeno tre) cui affidare la rielaborazione di caratteristiche diverse. Un’attenzione particolare va rivolta ai materiali proposti. Nel passaggio dall’individuale al collettivo, ciò che interessa è favorire un progressivo processo di astrazione. Per i bambini di tre anni, l’uso della foto al posto dell’oggetto concreto è già un elemento importante in questo processo. Con i bambini di quattro anni possiamo usare materiali che spostino ulteriormente la mediazione tra l’oggetto e il simbolo (materiali di recupero, imitazione attraverso il corpo, disegni stilizzati, ecc.). Ai bambini di cinque anni si può chiedere la produzione di simboli grafici, ma solo a patto di aver fatto tutto il percorso negli anni precedenti. Altrimenti bisogna ripercorrere le tappe anche con loro. E nella produzione dei simboli e nella ricerca delle parole per definire le caratteristiche, l’uso del vocabolario risulta imprescindibile. Si tratta di un uso educativo di questo strumento che non serve tanto per imparare parole nuove (che possono essere facilmente dimenticate), quanto piuttosto per appropriarsi di un metodo di conoscenza e convivenza. Il vocabolario infatti rappresenta un’autorità indipendente, cui far ricorso quando non ci troviamo d’accordo.

Una parola sull’errore

Nella vita quotidiana di tutti noi, l’errore costituisce il segno di una mancanza, rappresenta una sconfitta, qualcosa per cui subire conseguenze più o meno pesanti, ma mai piacevoli. La scuola invece è il posto dove si può sbagliare. Di più: è il luogo dove si può “usare” l’errore trasformandolo in uno strumento efficace di formazione. I suoi utilizzi sono molteplici: innanzi tutto l’errore rappresenta il segnale che qualcosa non ha funzionato. Ma non necessariamente nei bambini. Per esempio, potrebbe essere la proposta inadeguata: il contenuto scelto, i materiali usati, gli strumenti messi a disposizione, i tempi imposti, l’organizzazione del lavoro (gruppo piccolo o grande, coppia,ecc.), gli spazi utilizzati. L’insegnante deve interrogarsi su questi aspetti prima di procedere perché da questa riflessione scaturisce la riprogettazione del lavoro. Se nonostante tutto, le risposte dei bambini sono diverse rispetto alle nostre aspettative (in termini di raggiungimento degli obiettivi) è possibile coinvolgerli nell’analisi: cosa non ha funzionato? Era facile o difficile? Perché? Ma l’errore (specialmente quello individuale) è un indicatore efficace del modo di ragionare di quel bambino. Non dobbiamo mai dimenticare che, statisticamente, è possibile che le risposte pertinenti siano il frutto del caso invece che del ragionamento. Per questo è sempre opportuno essere molto cauti nell’esprimere valutazioni e usare comunque una molteplicità di linguaggi e strumenti per avere conferma o smentita dell’impressione iniziale. L’errore non va trascurato o rimosso o sottovalutato. I bambini si accorgono di aver sbagliato e solo l’uso didattico dell’errore elimina o riduce il senso di frustrazione che deriva dalla constatazione di non essere stati capaci. Solo mettendo quel bambino nelle condizioni di poter “approfittare” di quell’errore, lui lo potrà considerare un elemento momentaneo all’interno di un percorso che però è possibile affrontare con fiducia nelle proprie capacità.


[1] In C. Fiorentini, Rinnovare l’insegnamento delle scienze Aspetti storici, epistemologici, psicologici, pedagogici e didattici, Aracne, Roma 2018.