Io ci sarò
di Letizia Nucciotti
Questo libro è un diario; il diario della mamma di Ezio. Fino a pagina 57, come in tutti i diari, ci sono le date: il 19 Aprile è successo questo…., il 3 di Maggio ho fatto quest’altro… Dopo quella pagina però le date spariscono, non ci sono più. E con le date sparisce l’ordine, quella sequenza logica e coerente che consente di raccontare le storie in modo che chi le ascolta, le possa comprendere. Non ci sono più i giorni perché da quel momento cambia lo scopo della scrittura. Se fino a quel punto è stato un modo per annotare, fissare, ricordare momenti e particolari da raccontare al proprio figlio una volta che fosse diventato grande, per dirgli quanto era stato atteso e voluto, da quel momento in poi si trasforma in uno strumento di riflessione, di analisi, in un mezzo per dare espressione a voci, idee, sensazioni che si possono dire solo a sé stessi e a pochi altri. Perché Ezio nasce e cresce con fatica, una fatica che gli altri bambini sembrano non dover sostenere. E così si dipana per le successive 164 pagine un altro diario che cerca di reggersi in un equilibrio precario, ma mai perso, tra la gioia di piccoli e grandi risultati (e le speranze che questi sono in grado di generare) e la constatazione dei problemi e delle difficoltà che restano (che invece creano ansie e preoccupazioni difficili da dissipare). Oggi Ezio è un giovane uomo che lavora e paga le tasse, che guida con prudenza e attenzione la sua mini-car, che ha cura e rispetto delle persone alle quali vuole bene. Non è un “bamboccione” e nessuno gli ha regalato niente. Il diploma, il lavoro, le amicizie, le relazioni, sono il frutto di enormi sforzi, talvolta di sofferenze che i più “sani” non sarebbero stati capaci di affrontare, di un’autonomia conquistata giorno per giorno, tra slanci in avanti e rovinose (ancorché non definitive) cadute e regressi. Tra la nascita e l’oggi c’è un percorso fatto di ricerca di soluzioni taumaturgiche, di frustrazioni e impotenza, di tentazioni a rinchiudersi in una “gestione privata dell’handicap”. Ci sono i fallimenti terapeutici, l’incontro e lo scontro con il mondo della scuola, lo shock, i sensi di colpa e la rabbia. La famiglia di Ezio non si è persa niente, non si è risparmiata niente: ha percorso (e ripercorso) tutte le tappe. Ma nell’attraversarle non ha mai dimenticato lui, non ha mai smesso di elaborare un progetto per lui (dalle vacanze, al tempo libero; dallo sport alla musica). Il diario racconta il cammino tortuoso, a tratti confuso e accidentato, che li ha portati ad essere “una famiglia felicemente imperfetta”.
Perché si scrive, o meglio, perché si pubblica un libro così? Per autocelebrarsi e compiacersi del risultato? Per denunciare disservizi e incompetenze? No. Io ci sarò non è un libro “contro” nessuno, anche se la mamma di Ezio avrebbe tanti motivi e ragioni di essere arrabbiata con molti. Invece è pervaso da una grazia, da un garbo leggero, da un atteggiamento di umana comprensione dei limiti e delle debolezze altrui, anche quando quei limiti e quelle debolezze hanno provocato dolore e difficoltà laddove non ce n’era sicuramente bisogno. Io ci sarò è un libro “per”. Come è scritto nella quarta di copertina “per le famiglie che vivono situazioni di sofferenza e solitudine, per associazioni e operatori di settore che vogliano confrontarsi con un’esperienza vissuta…”. Per trasformare il dolore vissuto e subito in un aiuto per gli altri, per dire che può capitare e si può sopravvivere e vivere, per far sapere ad altri genitori che ci sono vie più dritte di quelle che si imboccano per caso, sospinti dall’ansia e dalla premura. Stranamente (lo scrivo sorridendo con amarezza) non si rivolge esplicitamente agli insegnanti. Non so se sia una “disattenzione” dell’editore che non ha un target scolastico, se si tratti di un lapsus (una di quelle dimenticanze che Freud spiegato così bene) o se sia un’assenza voluta. Ma invece proprio noi insegnanti dovremmo leggerlo, questo libro. Noi che siamo tanto occupati nell’elaborazione di piani per l’inclusione da dimenticare chi dovrebbe essere incluso, come e perché. Insieme alle circolari sui BES, alla normativa sui DSA, alle modalità che regolano lo svolgimento delle prove INVALSI per i bambini e i ragazzi con problemi di apprendimento, leggere un libro come questo penso possa rappresentare una valida integrazione. Perché ci ricorda che dietro ai “soggetti coinvolti” ci sono le persone, che dietro ai “piani più o meno individualizzati” ci sono le relazioni umane, che lo scopo del nostro lavoro non è insegnare le tabelline o La ginestra di Leopardi, ma usare questi e altri saperi per sviluppare e ampliare le potenzialità di ciascuno, partendo da dove ciascuno si trova.
Io ci sarò ci ricorda che ciò che percepiamo e che cerchiamo di allontanare come malattia spesso non è altro che la nostra incapacità di accettare e affrontare la differenza.
Paola Conti
Insegnante di Scuola dell’Infanzia, membro del Gruppo di ricerca e sperimentazione del CIDI di Firenze, si occupa di ricerca e formazione nell’ambito della costruzione dei curricoli verticali (in particolare di educazione scientifica). Ha pubblicato articoli e collaborato a riviste del settore.
Letizia Nucciotti, 2013, Io ci sarò. Storia di una famiglia felicemente imperfetta, Stampa Alternativa, Viterbo, pp. 221, euro 15,00.
Nel panorama politico sociale e culturale odierno la formazione degli insegnanti sta assumendo un ruolo cruciale, ma anche complesso da affrontare da parte delle Università che invece ne hanno, per legge, la responsabilità.
Nel panorama politico sociale e culturale odierno la formazione degli insegnanti sta assumendo un ruolo cruciale, ma anche complesso da affrontare da parte delle Università che invece ne hanno, per legge, la responsabilità.
In un recente articolo [https://www.insegnareonline.com/rivista/scuola-cittadinanza/forma] Rosy Gambatesa mette a fuoco due ambiti del problema che, afferma: “mescolandosi continuamente tra loro alimentano l’impoverimento della Scuola. Da un lato quello, squisitamente politico, di chi affida, esempio unico in Italia, […] la formazione e il reclutamento di una categoria professionale a un’altra categoria professionale che della prima ignora praticamente tutto […] dall’altro, quello dell’ambiguità dell’Accademia che […] si assume tale importante responsabilità facendone anche un piccolo business, e poi ne denuncia i risultati. Questa miscela di equivocità forgia così una categoria professionale di natura incerta che, […] avrà certamente interiorizzato che l’etica della professione è l’ultima delle urgenze di questo Paese”.
A questo va ad aggiungersi quello che potrebbe essere chiamato il problema del Tirocinio Formativo Attivo, il TFA for ever.
Per comprendere meglio a che cosa mi riferisco è utile ricordare che la formazione degli insegnanti prevede una Laurea Magistrale per l’insegnamento (LMI) e un Tirocinio Formativo Attivo (TFA).
Come ricorda in una intervista la prof. Anna Nozzoli, Prorettore alla didattica e ai servizi agli studenti dell’Università di Firenze: “La formazione degli insegnanti ha il fine di qualificare e valorizzare la funzione docente attraverso l’acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative e relazionali. Come abbiamo imparato dall’esperienza di questi ultimi anni, sapere una materia e saperla insegnare sono due cose molto diverse.”
Per raggiungere questi obiettivi la LMI prevede due
ambiti formativi specifici la didattica disciplinare, la formazione
pedagogica
1. La didattica disciplinare è gestita da professori universitari delle
diverse discipline, professori molto competenti nei loro specifici ambiti
disciplinari, ma a volte inconsapevoli che l’insegnamento della “Didattica
disciplinare” è cosa molto diversa dall’insegnamento della disciplina.
2. La formazione pedagogica, affidata anch’essa a docenti universitari e alle molte pagine di manuali, spesso poco utili a sviluppare una reale capacità pedagogica.
Il TFA, invece, comprende anche il tirocinio nelle scuole ed è affidato a insegnanti di ruolo della Scuola che lavorano insieme con docenti universitari.
Il TFA è stato previsto dal legislatore come atto conclusivo e abilitante del percorso di formazione dei docenti e vi accedono quindi, soggetti che hanno già conseguito una Laurea Magistrale per l’insegnamento. Non mi soffermo sul problema irrisolto delle classi di concorso, mi limito solo a ricordare che le Università, responsabili della formazione dei docenti, si sono trovate ad affrontare una situazione per molti versi paradossale.
Sta, infatti, per iniziare il terzo ciclo del TFA e per la terza volta gli Atenei dovranno affrontare la realizzazione di un tratto di percorso formativo incompleto, rivolto a destinatari di cui sono poco note le competenze, ma un tratto di percorso che abilita all’insegnamento.
Le Università avranno l’enorme responsabilità di dover individuare i docenti che andranno a formare le nuove generazioni di insegnanti. E lo dovranno fare adattando un tratto di percorso formativo ad esigenze diverse da quelle per cui è stato inizialmente istituito. In definitiva un grande dispendio di energie, con il rischio di ottenere un risultato scadente dal punto di vista culturale e soprattutto non coerente con gli obiettivi generali delle LMI previste dalla legge.
In questo scenario la formazione insegnanti perde completamente il suo valore per diventare solo un strumento di reclutamento professionale inadeguato. E non sono servite le proteste della Associazioni disciplinari, compresa la nostra.
Per provare a mettere un argine a questa deriva la DD-SCI si è data come obiettivo di migliorare almeno i corsi di Didattica della Chimica attualmente svolti nei TFA. Per questo durante il 2013, ha provato ad organizzare un coordinamento nazionale di tutti i docenti universitari che hanno insegnato Didattica della Chimica nei Tirocini Formativi Attivi. Disponiamo dei nominativi di circa 350 colleghi e auspichiamo che con essi si riesca a discutere delle problematiche connesse con questo insegnamento che sarà erogato anche nelle future LMI, quando saranno attive.
E’ indispensabile che si rafforzi in tutti la consapevolezza che, se è vero che la conoscenza di una disciplina è condizione necessaria per insegnarla, questa condizione non è però sufficiente. Insegnare Didattica di una disciplina richiede, infatti, competenze ulteriori a quelle strettamente disciplinari. Tra l’altro, la capacità di individuare i nodi concettuali e gli ostacoli cognitivi propri della disciplina, lo studio dei possibili modi per rimuoverli, la capacità di cogliere quali sono gli argomenti accessibili al gruppo classe, studiando le modalità per renderli comprensibili, la consapevolezza che l’individuo discente non è qualcuno che deve credere in quello che diciamo ma deve essere messo in condizioni di comprenderlo e metterlo in discussione.
Purtroppo in Italia gli studi nel settore educativo, soprattutto in ambito scientifico, non sono considerati “ricerca” e prevale la convinzione, in particolare nei giovani, che chi sa, sa anche insegnare.
Concludo ricordando che la Società Chimica Italiana con la sua Divisione di Didattica è tra le poche associazioni scientifiche disciplinari che vede i docenti dell’Università i docenti della Scuola lavorare insieme per coltivare e confrontare i risultati della ricerca educativa in ambito chimico, ed è anche soggetto accreditato presso il MIUR per la formazione insegnanti.
Il suo ruolo e le sue responsabilità sono, quindi, grandi.
Per dare efficacia all’impegno che i “militanti” nella Divisione portano avanti con serietà e passione è, però, necessario che all’interno di tutta la Società Chimica Italiana venga acquisita la consapevolezza che la formazione degli insegnanti in ambito chimico deve essere un impegno per tutti, insieme a tutti coloro che hanno ruoli di responsabilità in questo campo comprendendo tra questi anche coloro che si occupano di formazione in Federchimica, nel Consiglio Nazionale dei Chimici, nel CNR e in tutte quelle realtà educative che hanno a cuore anche l’immagine che oggi la Chimica deve e può avere nella nostra società.
[1] Pubblicato sul Blog della Società Chimica Italiana, luglio 2014.