Il portfolio resta nel guado
CIDI Firenze
Noi pensiamo che, per le motivazioni sottoriporate, il portfolio vada eliminato come strumento prescrittivo, e che rimanga invece, come indicazione pedagogica, come orizzonte culturale per la sperimentazione delle scuole nei prossimi anni. Soltanto dopo una lunga fase di sperimentazione, sarà poi possibile effettuare delle scelte, non più nella logica di adempimenti burocratico-formali, nel senso della prescrittività.
La costante presenza del tema della valutazione nel dibattito sulla scuola ha reso più evidente come su questo terreno si stiano misurando più modelli contrapposti che attraversano trasversalmente il quadro politico. Sono gli stessi gruppi di ricerca promossi negli ultimi anni dai ministri Berlinguer, De Mauro e Moratti a evidenziare questa spaccatura che sta diventando sempre più esplicita.
Il gruppo di lavoro sul curricolo di scienze della Commissione De Mauro, coordinato da Cogliati Dezza, si era così espresso in merito ai criteri generali per la valutazione delle competenze:
Le schede usuali, con domande a scelta multipla o con parole più o meno corrette da scegliere, con frasi o schemi da completare, non sono sufficienti né affidabili. La valutazione delle competenze scientifiche richiede invece una pluralità di mezzi, alcuni si presentano come sistemi di documentazione di processo […] altre come rilevamenti della capacità di utilizzare in modo significativo specifici concetti e modelli più o meno formalizzati […] è opportuno costruire con la collaborazione di ciascun allievo un adeguato “portfolio”…
Una posizione chiara e sorprendentemente critica delle semplificazioni che già dilagavano nel campo della valutazione, e in piena sintonia con l’analisi sul portfolio svolta da Lucio Guasti che ne fa risalire l’origine ad un “orientamento valutativo che fonda la sua epistemologia sull’evento quotidiano come fatto espressivo delle capacità e delle qualità del soggetto, purché esso venga consapevolmente assunto come oggetto di riflessione”. L’insegnante diventa l’interprete attento delle dinamiche di classe, profondamente coinvolto con i suoi alunni e capace di riconoscere tra gli eventi quotidiani quelli che rappresentano fatti espressivi delle capacità e delle qualità dei singoli soggetti. È lui che dovrà regolare il tempo di tutti per dare il tempo a ciascuno di riflettere e assumere consapevolezza del significato di ciò che si è fatto, realizzato, conquistato. Il portfolio registrerà queste tappe emblematiche dell’apprendimento.
Come si vede, è una definizione che pone salde radici nella pedagogia e si proietta, ma solo “con gli opportuni adattamenti”, anche nella vita adulta. Molto lontana, quindi, da quella che fa del portfolio il contenitore per l’equiparazione delle competenze acquisite, connessa a logiche certificative.
A fronte di questo contributo, a distanza di pochi mesi, nella stessa Commissione De Mauro istituita per i curricoli della secondaria, il gruppo di lavoro che si occupava di valutazione si esprimeva in termini estremamente diversi. Esso confermava di nuovo la differenza tra i tempi e luoghi della verifica e quelli della valutazione, indicando di conseguenza che gli strumenti per le verifiche debbono tendere a essere quanto più possibile puntuali, quantitativi, oggettivi […] Le verifiche riguardano di solito aspetti molecolari, le valutazioni aspetti globali […] Le verifiche possono risultare anche decontestualizzate e valere per la media statistica […] non presuppongono la costanza della relazione educativa…
La frattura sembra completa: non ci sono apparenti punti di contatto tra questa visione e quella che descrive la valutazione come un processo unico e indivisibile, strettamente vincolato sia allo specifico progetto curricolare, sia al processo d’apprendimento che si realizza, giorno dopo giorno, in classe.
Questa dicotomia è rimasta irrisolta anche dopo il cambiamento di segno politico della guida del paese e sta creando non poca confusione in merito al significato da attribuire al portfolio, la novità più discussa introdotta in ambito valutativo.
In effetti, col governo Berlusconi un primo richiamo al portfolio compariva a livello ministeriale nel Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro coordinato dal prof. Bertagna (D.M. n. 276 del 18 luglio 2001), dove gli viene dedicata una piccola citazione nel paragrafo Pari dignità dei percorsi, a tempo pieno o in alternanza:
“Istruzione e formazione secondaria superiore devono trasformarsi in un sistema dove ogni giovane… con il reciproco riconoscimento dei crediti e con la valutazione del portfolio delle competenze che lo accompagna nella propria crescita umana, culturale e professionale, possa giungere a tutti i traguardi terminali del sistema stesso, a tempo pieno o in alternanza“.
Non è molto, ma soprattutto la nota di Bertagna forniva del portfolio una interpretazione molto precisa: una sorta di passaporto per il transito tra i sistemi d’istruzione e formazione, con nessun interesse per i suoi aspetti di documentazione, sintesi e memorizzazione del processo d’apprendimento.”
E tuttavia questa non è stata nemmeno inizialmente l’unica lettura presente nel contesto della riforma. Già nei documenti ministeriali per la sperimentazione della scuola dell’infanzia e elementare il portfolio era di nuovo la “cartellina” che accompagna ciascun bambino, descrive e documenta il processo educativo. Implicitamente riconosciuto come strumento adatto ad una valutazione autentica, che tiene conto, cioè, dei processi vivi del fare scuola.
Senza risolvere l’antinomia presente nei presupposti con cui si affronta il problema del cosa e del come valutare l’apprendimento, la recente Circolare 84 non poteva che aumentare la confusione, nonostante lo sforzo volto a chiarire i termini fondamentali dell’attuale vocabolario didattico.
Si sta prospettando purtroppo la peggiore delle soluzioni possibili. Quella che tenta di realizzare nelle pagine del portfolio un’impossibile mediazione tra le istanze certificative dei livelli raggiunti e quelle che lo vogliono documento formativo. La prima esigenza risponde a una logica di controllo del processo ed ha valenza soprattutto esterna. La seconda risponde a una logica di sviluppo del processo formativo e vale principalmente per gli attori che vi prendono parte.
Il pericolo reale è di produrre un ibrido che non soddisferà nessuno degli obiettivi richiesti. Peggio: che si inneschi un meccanismo di retroazione con la comparsa di teorie valutative spurie, fondate unicamente sul desiderio di dare una legittimazione pedagogica alle soluzioni improvvisate di un problema mal posto.
È il caso della tesi sostenuta con diverse sfumature da più parti sulla necessità di una comparazione delle narrazioni dei processi individuali (portfolio) con le competenze attese a livello nazionale (gli standards, i profili o quant’altro). Questo approccio garantirebbe, si crede, sia l’attenzione al soggetto reale e alle sue dinamiche di sviluppo, sia il controllo complessivo degli esiti a livello di sistema d’istruzione.
Non siamo d’accordo. Il problema della valutazione si articola a più livelli – di profitto, di processo, di progetto, di sistema – e gli strumenti che dobbiamo adottare saranno tanto più efficaci quanto più sapranno essere specifici ad ogni livello.
Le competenze non si sviluppano in un soggetto che galleggia nello spazio, ma collocato in un ambiente ben preciso, e connotato dall’azione educativa che in quel contesto riceve e contribuisce a sviluppare. È una scorciatoia fallimentare quella di confrontare delle acquisizioni che hanno senso solo nel concreto di un processo e di un contesto dati, con quelle attese ad un livello di generalità superiore. Se il portfolio è uno strumento narrativo utile per una valutazione capace di stimolare la rielaborazione dell’esperienza formativa, allora i livelli di competenza attesi dovranno essere espressi in forma coerente con esso, e ugualmente soggetti a revisione e rielaborazione. Non ci convincono standards o profili di riferimento rigidi e astratti.
Con le competenze in uscita richieste dal sistema è necessario si misuri il progetto della scuola, chiamata a derivarne i propri obiettivi formativi. Un passaggio fondamentale, questo, in quanto sposta al livello dell’autonomia scolastica la responsabilità del cosa e del come tradurre gli obiettivi specifici in “compiti d’apprendimento realmente accessibili agli studenti in ciascun contesto concreto”.
L’obiettivo formativo garantisce, letto in questo senso, la contestualizzazione del progetto educativo nazionale, e permette all’insegnante di definire i livelli di prestazione realisticamente attendibili dai propri alunni.
Se si sovrappongono i livelli si finisce per trasformare il portfolio in una narrazioni individuale proiettata su una griglia per competenze dal carattere nazionale. Così facendo, l’insegnante verrebbe distolto dall’attenzione alle scelte dei contenuti adatti allo stato evolutivo dei suoi alunni, almeno quanto dalla registrazione dei loro progressi. Spinto, invece, a ricondurre tutte le particolarità in categorie generali e negando, di fatto, l’individualizzazione dell’insegnamento. Proprio quello che il portfolio dovrebbe favorire.
Inoltre, la non consapevolezza delle diverse caratteristiche degli approcci qualitativi e di quelli quantitativi sta facendo avanzare l’idea (e la recente circolare ne è la prova) che sia possibile una descrizione completa, omnicomprensiva di un livello. Niente di più illusorio. Narrare è porre l’accento, sottolineare, cioè discriminare.
Se il portfolio dovesse essere una sorta di fotografia a 360 gradi degli alunni nel loro percorso scolastico sarebbe un documento inutile e anche pericoloso, porterebbe a confondere l’immagine che gli alunni ci offrono con la loro identità – molto più complessa, molto più privata e come tale da rispettare.
Su questa traccia ci sembra potersi collocare la proposta di portfolio riflessivo avanzata da Castoldi. Un documento, cioè, che accetta la parzialità connessa nell’azione stessa del descrivere, riducendo l’ampiezza della documentazione e concentrandola solo su alcuni ambiti disciplinari e/o trasversali. Se la principale ricchezza del portfolio è la sua capacità di stimolare processi di metacognizione e di ripensamento sul processo, questo “comporta la necessità di focalizzare l’attenzione su specifiche aree del curricolo […] senza avere l’ambizione di impiegare il portfolio sull’insieme dell’esperienza scolastica.”
Alla professionalità dei docenti resterebbe affidato il compito – tutt’altro che semplice – di individuare e documentare gli ambiti nei quali l’alunno mette in gioco una fetta maggiore di sé. Ma in cambio potremmo evitare loro la sensazione dell’arrivo di un nuovo carico di lavoro inutile, in assoluto la cosa di cui si sente meno bisogno nelle scuole.