La gravitazione universale

Tania Pascucci, Liceo Scientifico “F. Enriques”, Livorno

Introduzione

La legge di gravitazione universale costituisce senza dubbio una delle più alte espressioni del pensiero umano. Si tratta infatti di una legge matematica estremamente semplice, intrinsecamente elegante, che sintetizza dentro di se un cammino durato quasi duemila anni (da Aristotele a Newton) e che ha il pregio di unificare i fenomeni celesti con quelli terrestri. Inoltre essa definisce una delle quattro interazioni fondamentali  esistenti in natura ovvero la forza che l’uomo, in quanto “animale gravitazionale terrestre”, sperimenta quotidianamente, Ciò premesso, l’autrice ritiene che nell’ambito della scuola Secondaria un argomento fisico di tale rilevanza non possa essere “liquidato”, come spesso accade,  in poco più di una lezione frontale, lezione che spesso ha come unico fine l’enunciazione dogmatica della legge, preparando il terreno per una sua successiva applicazione acritica. E’ ormai assodato che un insegnamento di questo tipo non sviluppa negli allievi alcun gusto del conoscere, ma anzi contribuisce ad infondere in loro l’idea di una scienza disumana, fredda, asettica e soprattutto noiosa; la successiva parte applicativa (ovvero l’applicazione della formula alla risoluzione di esercizi e problemi) rischierà  di diventare un semplice mezzo per “inculcare”, anche in questo caso dogmaticamente, il principio precedentemente enunciato in modo frettoloso. Bene che vada, con un metodo di questo tipo, gli studenti si ritroveranno, nel loro bagaglio culturale, uno sterile “risultato finale”, ovvero una conoscenza dichiarativa trasmessa da un’autorità.

E’ quindi necessario un cambiamento “radicale” del modo di insegnare Scienza (e nello specifico Fisica). Come dice Bruner “L’immagine della Scienza come impresa umana e culturale migliorerebbe  molto se la si concepisse anche come una storia degli esseri umani che superano le idee ricevute……Può darsi che abbiamo sbagliato staccando la scienza dalla narrazione della cultura. Una sintesi forse è necessaria. Un sistema educativo deve aiutare chi cresce in una cultura a trovare un’identità al suo interno. Se questa identità manca, l’individuo incespica nell’inseguimento di un significato1 ”.

In questo lavoro, per affrontare l’argomento in oggetto, si è voluto pertanto recepire le indicazioni di Bruner, dando ampio spazio alla riflessione storico-epistemologica, aiutandosi anche con la  lettura di brevi brani tratti dai testi originali degli scienziati che hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione della teoria. La scienza in tal modo si riappropria della sua dimensione umana e culturale, diventa un processo vivo, che può essere narrato anche in forma drammatica, come “una serie di vicende quasi eroiche di soluzione di problemi 1”. Ovvero il contrario del modello di scienza finita, quale viene di solito presentato nel libro di testo. Il nuovo metodo invece contribuirà anche a sradicare la perversa convinzione antiscientifica che le teorie fisiche abbiano un significato assoluto e inalterabile, comprensibile da una comunità di iniziati e quindi inaccessibile agli studenti2,3. Lo studente verrà continuamente sollecitato a confrontare le proprie rappresentazioni mentali con gli schemi costruttivi che si sono realizzati nel corso della storia della scienza, cogliendone analogie, errori, trucchi per aggirare i problemi intricati. Per esperienza personale questo processo di umanizzazione della scienza riduce drasticamente la distanza tra il pensiero dello scienziato e la mente dello studente, crea un “noi” (lo scienziato e gli studenti) che favorisce il confronto, offrendo ai discenti la libertà di sbagliare e di imparare dai propri errori.

Obiettivi del modulo

E’ bene iniziare l’argomento con una lezione introduttiva che chiarisca alla classe la strada che ci accingiamo a intraprendere: arrivare alla formulazione della legge di gravitazione universale scoprendo come questa sia il risultato di un percorso scientifico lungo e tortuoso, talvolta anche contraddittorio ma senza dubbio appassionante, fatto di scoperte, uomini ed idee. La lezione può efficacemente iniziare dalla lettura del seguente brano, tratto dai “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica et i movimenti locali” di Galileo Galilei:

SIMPLICIO: La causa di quest’effetto (cosa è che muove verso il basso gli oggetti terrestri) è notissima, e ciaschedun sa che è la gravità.

SALVIATI: Voi errate, signor Simplicio: voi dovevi dire che ciaschedun sa ch’ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del nome, ma dell’essenza della cosa: della quale essenza voi non sapete punto più di quello che voi sappiate dell’essenza del movente le stelle in giro, eccettuatene il nome, che a questa è stato posto e fatto familiare e domestico per la frequente esperienza che mille volte il giorno ne veggiamo; ma non è veramente che noi intendiamo…. Che principio o che virtù sia quella che muove la pietra in giù…

La lettura di tale brano deve stimolare la discussione su due fronti:

1) La parola gravità di per se non ci dice assolutamente niente sul suo significato. Il significato di un concetto è qualcosa che deve essere costruito e condiviso: Galileo ci ricorda non certo inutilmente che la parola va caricata di significati e a questo concorrono

l’esperienza, la deduzione, l’intuizione attraverso un processo di perfezionamento per approssimazioni successive. Una riflessione di questo tipo contribuirà a scardinare l’eventuale visione dogmatica che lo studente si è fatto della scienza e del suo linguaggio, svilupperà il suo senso critico e lo metterà in guardia da chi introduce termini tecnici senza prima aver dato una certa definizione.

2) Il brano mette in relazione il moto dei corpi sulla terra con i moti delle stelle e dei pianeti e implicitamente preannuncia (nonostante il concetto di forza vada al di là della comprensione di Galileo) la sintesi che opererà elegantemente Newton, ovvero che i due tipi di moto sono regolati da un’unica legge di forza.

In questo contesto introduttivo può essere interessante leggere il versetto di Alexander Pope, contemporaneo di Newton:

Nature and nature’s laws lay hid in night: God said, let Newton be! And all was light”, ovvero  “La natura e le leggi della natura stanno nascoste nella notte; Dio disse “Newton sia!” e fu la luce “,

per sottolineare come la teoria di Newton venne accolta e celebrata con stupore e timore reverenziale anche in ambienti extra-scientifici. Ciò ad esempio non è più avvenuto in epoca moderna per scienziati del calibro di Newton quali ad esempio Maxwell e Einstein, che pure con le loro teorie hanno fatto altrettanta luce.

 Che il contributo di Newton alla comprensione del moto dei pianeti sia considerato eccezionale è dovuto al fatto che il suo approccio si distacca dai canoni precedenti: prima di Newton si pensava che i pianeti si muovessero di moto circolare perché ciò corrispondeva al loro “moto naturale”. Ma nella concezione  Newtoniana il moto naturale avviene in linea retta in modo uniforme (primo principio della dinamica). Egli capisce che in un moto circolare e più in generale curvilineo deve essere presente una forza che fa variare continuamente la direzione del pianeta stesso. Una riflessione sul cambiamento semantico della parola “naturale” è quasi d’obbligo.

Ma il nostro viaggio è appena iniziato. Conviene procedere per gradi e nelle lezioni successive soffermarsi sui due scienziati che hanno preceduto Newton in questa avventura: Thyco Brahe e Keplero.

Thycho Brahe (ovvero dell’importanza di osservazioni accurate).

Senza addentrarsi in ampie ed approfondite cronologie dell’astronomo danese Thycho Brahe (1546-1601) (per esperienza non appena la lezione prende una tale piega gli studenti assumono un’aria vagamente sonnacchiosa e visibilmente annoiata) sarà bene in ogni modo sottolineare la profonda passione dello scienziato per l’astronomia, che lo folgorò fin dalla tenera età: pur essendo studente di legge, lesse in gioventù le opere di Tolomeo (Almagesto) e di Copernico (De Revolutionibus), intuendo che le idee di entrambi erano basate su tavole astronomiche che davano la posizione dei pianeti con scarsa precisione. Ad esempio Copernico, convinto che le orbite dei pianeti fossero circolari e tenendo conto che per la determinazione di una circonferenza sono necessari e sufficienti tre punti non allineati, si era accontentato di poche decine di osservazioni personali per avvalorare la sua ipotesi. Al contrario Thycho dedicò la propria vita a raccogliere nuovi dati, sempre più precisi e misurati su un lungo arco di tempo, convinto che questa fosse le strada per elaborare una teoria del moto dei pianeti soddisfacente. La sua fama crebbe notevolmente nel 1572, quando riuscì ad osservare una nuova stella nella costellazione di Cassiopea.  Questa osservazione, unita a quella di una cometa del 1577, contribuì ad un cambiamento di paradigma, ovvero all’idea che il cielo non fosse immutabile, come previsto dagli antichi. Per trattenere in patria il giovane scienziato nel 1576 Federico II di Danimarca offrì a Thyco l’isola di Hven in cui realizzare un osservatorio: Uraniborg, ovvero il castello dei cieli (fig.1), complesso e costoso quanto gli attuali laboratori di ricerca. Nella cittadella della scienza si raccolsero ben presto un gran numero di scienziati, tecnici e studenti di vari paesi: la loro cooperazione, orchestrata dall’intuito di Thycho, fece fare enormi passi in avanti alla ricerca astronomica, anche grazie alla costruzione di ingegnosissime macchine che permisero di arrivare al limite risolutivo dell’occhio umano (ricordiamo che all’epoca il telescopio non era stato ancora inventato).

A questo punto, se si vuole, si può stimolare una riflessione sullo stato della ricerca in Italia, in Europa, nel mondo. L’offerta del re di Danimarca è un tentativo riuscito di evitare la “fuga di cervelli” all’estero, fenomeno sempre più in crescita nel nostro paese (si pensi che, persino Carlo Rubbia, premio Nobel della Fisica nel 1982, ha ottenuto dalla Spagna ma non dall’ Italia i finanziamenti necessari per la sua ricerca sulle fonti alternative di energia).

Thycho lavorò ad Uraniborg fino al 1597, in quanto dopo la morte di Federico II il governo danese non dimostrò molto entusiasmo nel sovvenzionare ulteriormente le sue ricerche. Fu così che accettò di trasferirsi, portando con se i suoi archivi e numerosi strumenti, a Praga, su invito dell’imperatore Rodolfo di Boemia.  Nel 1600, Giovanni Keplero, giovane scienziato già noto nel mondo scientifico per la sua ingegnosità e la sua grande abilità matematica, si unì alla squadra degli assistenti di Brahe, e gli venne assegnato un compito che fino ad allora si era mostrato insolubile: determinare, sulla base dei dati ottenuti ad Uraniborg e a Praga, le caratteristiche geometriche dell’orbita di Marte. Vedremo successivamente come questo compito ingrato sia stato fondamentale per lo sviluppo della teoria di Keplero sulle orbite dei pianeti.

Va detto infine che Thycho restò sempre convinto che la terra fosse ferma, secondo un modello cosmologico che egli stesso aveva ideato, mentre Keplero abbracciò sin dall’inizio l’ipotesi copernicana, tanto che non riuscì a tacere le sue convinzioni neppure durante l’orazione funebre di commemorazione del suo maestro (24 ottobre1601).

 

Giovanni Keplero (ovvero la cinematica e i prodromi della dinamica del moto dei pianeti)

Giovanni Keplero è noto al vasto pubblico per le sue celebri tre leggi, che danno un’elegante descrizione cinematica del moto dei pianeti e saranno successivamente lo spunto principale da cui Newton trarrà la sua legge di gravitazione universale. Non vanno in ogni modo sottovalutate le sue considerazioni di carattere dinamico. Innanzi tutto egli è il primo scienziato a tentare di ottenere, pur non riuscendovi, una formulazione matematica della forza (ovvero a darne una definizione quantitativa). E’ inoltre sua l’idea che quando una pietra viene attratta dalla terra, è anche la terra che viene attratta dalla pietra: è sua quindi l’idea della forza intesa come interazione, che corrisponde al moderno concetto di forza esplicitato successivamente da Newton nel terzo principio della dinamica. Va dato poi a Keplero il merito di aver spogliato la forza da ogni visione animistica e di avergli conferito qualità squisitamente meccaniche. A conferma di ciò egli scriveva: “Un tempo avevo creduto che la causa del moto planetario fosse un’anima….ma quando capii che queste cause motrici si indebolivano con la distanza dal sole, venni alla conclusione che questa forza è qualcosa di corporeo”.

E’ sempre Keplero a porre l’accento sul fatto che l’attrazione lunare operi in modo analogo alla gravità (e in questo senso lo possiamo senz’altro considerare un precursore di Newton). Egli infatti nella sua opera Mysterium Cosmographicum  (1596) arriva a dire: “il comportamento familiare dei corpi cadenti e la curva maestosa tracciata dalla luna lungo la propria orbita sono parti di un medesimo schema grandioso”.

Ma torniamo adesso al problema dell’orbita di Marte. Inizialmente Keplero vi lavorò seguendo le tecniche matematiche convenzionali di Copernico, Tolomeo e Platone, cioè cercando di descrivere il moto attraverso una combinazione di traiettorie circolari.

L’accesso completo ai dati di Thyco Brahe relativi all’orbita di Marte avvenne solo dopo la  morte del maestro.  L’impresa di rendere coerenti i dati sperimentali con il modello cosmologico tradizionale  si rivelò pressoché drammatica e Keplero vi rinunciò al settantesimo tentativo. Egli scriverà in seguito nel suo rivoluzionario lavoro “Astronomia nova”: “Poiché la bontà divina ci ha dato in Thyco Brahe un diligentissimo osservatore, e poiché i suoi dati ci indicano che nei calcoli vi è un errore di 8 minuti, dobbiamo riconoscere e onorare questo favore divino….Non potendo essere ignorati, questi otto minuti hanno, da soli, aperto la strada del cambiamento dell’intera astronomia:su essi è costruita la maggior parte di questo lavoro”. Questo pensiero sintetizza la svolta di Keplero che consiste nell’abbracciare definitivamente l’ipotesi copernicana (oggi diremo di prendere come sistema di riferimento il Sole) e contemporaneamente abbandonare il dogma della circolarità dei moti planetari. Va detto a questo proposito che il disaccordo tra le previsioni e le osservazioni di Thyco, otto minuti di grado, è un risultato che sarebbe stato accettabile per tutti gli astronomi dell’epoca: non lo fu invece per Keplero, che, confidando nell’estrema accuratezza dei dati ottenuti dal suo maestro, prevedeva di trovare un accordo migliore tra teoria ed osservazione.  Egli  quindi  si mise alla faticosa ma appassionante interpretazione dei risultati sperimentali a sua disposizione nell’ambito del nuovo modello cosmologico adottato, senza alcun preconcetto nei confronti della forma delle orbite dei pianeti. Lo scienziato si rese a questo punto conto che i dati a sua disposizione dovevano essere corretti tenendo conto del moto della terra, la cui orbita non era conosciuta con precisione. Il metodo che Keplero utilizzò per studiare la forma dell’orbita terreste consisteva nel considerare innanzitutto una situazione in cui Sole, Terra e Marte risultavano allineati (fig.2). Dopo 687 giorni, ovvero dopo un anno marziano, Marte, a differenza della Terra,  tornava ad occupare la stessa posizione (fig. 3). Il punto di intersezione tra le due rette che forniscono la direzione del Sole  e di Marte rispetto alla Terra appartiene all’orbita terrestre. Utilizzando diverse osservazioni di questo tipo, Keplero scoprì che l’orbita terrestre risultava quasi circolare, con il sole in posizione leggermente eccentrica. Riuscendo a determinare la posizione della terra ad un dato istante lo scienziato ricavò la sua velocità, scoprendo che la terra si muoveva più velocemente in vicinanza del Sole. Ciò lo convinse ad ipotizzare che il Sole esercitasse sulla Terra (e in generale su tutti i pianeti) una forza di trascinamento che la spingesse lungo l’orbita stessa (ipotesi che naturalmente si rivelerà errata). Va ricordato inoltre che Keplero pose il Sole al centro guidato soprattutto da una visione mistica dell’universo: il Sole, in qualità di fonte di vita e di luce, era più vicino a Dio più dell’indegna Terra, e quindi meritevole di riverenze. Ma questa “nuova” posizione del Sole permise allo scienziato di scoprire che, sebbene il moto della terra attorno al Sole non avvenga velocità costante, tuttavia l’area DA descritta dal segmento che unisce il Sole con la Terra è proporzionale al tempo Dt  che occorre per descriverla (vedi fig.4). In formule ciò significa:

                                                                                                        (1)

L’espressione a primo membro, ovvero la rapidità con cui l’area descritta varia nel tempo, viene detta velocità areolare. La (1) costituisce la forma matematica della seconda legge di Keplero; lo scienziato successivamente scoprirà che essa è valida per tutti i pianeti.

A questo punto, nota la posizione della Terra ad ogni istante, Keplero poté determinare con precisione la forma e le dimensioni dell’orbita di Marte: ogni punto di tale orbita poteva infatti essere ottenuto dall’intersezione delle congiungenti Terra-Marte ottenute all’inizio e alla fine di un anno marziano (fig.5). Egli pertanto scoprì che l’orbita era un’ellisse e che il sole occupava uno dei due fuochi. A tale scoperta si dà il nome di prima legge di Keplero. Lo stesso accadeva anche per gli altri pianeti di cui si avevano all’epoca dati astronomici a disposizione, ovvero Venere, Terra, Giove, Saturno, anche se l’orbita di Marte era la più eccentrica, in altre parole quella la cui forma si distaccava maggiormente da quella circolare. Sorge allora spontanea la  domanda del perché le orbite debbano essere proprio delle ellissi: mentre si può giustificare esteticamente la scelta di Platone per orbite circolari, risulta sorprendente che la natura abbia privilegiato una forma ellittica. Per rispondere a questa domanda non ci si può limitare ad un’analisi cinematica del moto, bensì occorre indagare sulle cause che lo provocano. I tentativi di Keplero di fornire una spiegazione dinamica delle sue leggi non condussero a risultati apprezzabili, anche se la sua ipotesi che i pianeti fossero guidati lungo le orbite da una forza proveniente dal Sole risultò corretta. E’ infatti Newton che dimostrerà la necessità di orbite ellittiche.

Una volta pubblicate le due leggi nel già citato Astronomia Nova, Keplero sentì l’esigenza di mettere i pianeti in relazione tra loro e per parecchi anni tentò varie combinazioni di parametri diversi, allo scopo di determinare una terza legge che leghi tra loro tutte le orbite planetarie. Dopo innumerevoli sforzi, in cui lo scienziato dovette anche patire povertà e malattie, egli giunse finalmente al risultato sperato, in altre parole alla formulazione della legge dei periodi: “I quadrati dei periodi di rivoluzione T sono direttamente proporzionali ai cubi delle distanze medie R dal Sole”, che espressa in formule matematiche diventa:

                                                                                                                                (2)

Il cerchio si è chiuso. La descrizione cinematica è completa: essa è racchiusa in tre leggi estremamente semplici ed eleganti, frutto di un’attività di ricerca lunga una vita.

Newton (ovvero il trionfo della sintesi attraverso la dinamica).

Ma perché le leggi di Keplero sono così importanti nella storia della gravitazione universale? In questo paragrafo cercheremo di far vedere come le considerazioni cinematiche di Keplero siano servite in qualche modo da trampolino di lancio per Newton, padre indiscusso della dinamica, per arrivare alla formulazione della sua elegante legge: la formula della gravitazione universale.

Dando uno sguardo ai lavori giovanili4 (1675) sul moto dei corpi dello scienziato inglese, si evince che all’inizio della sua carriera Newton  abbraccia la fisica di Cartesio e quindi in un secondo tempo dovrà rivedere radicalmente le sue posizioni; nello specifico:

a)     Concepisce il moto circolare e più in generale quello curvilineo come soggetto a due tendenze (conati): una tendenza a muoversi lungo la tangente e una tendenza a recedere dal centro. Per cui se i pianeti sono soggetti a un conato centrifugo, deve esserci una forza che, controbilanciando questa tendenza, li trattiene nell’orbita (vedi fig. 6). Sembra che, come Keplero, anche  Newton pensi che questa forza sia esercitata dal Sole, ma non menziona mai la parola gravità.

b)     Il concetto di forza di gravità in embrione non è concepito come un’azione a distanza (come ad esempio pensava già Keplero, che aveva abbracciato la filosofia magnetica), bensì come  una forza che scaturisce a causa di un non ben precisato meccanismo di impatto o azione di contatto, da parte di una sostanza presente nello spazio interplanetario.

L’abbandono del paradigma cartesiano fu senza dubbio stimolato dall’analisi che il fisico Hooke propose nel 1679 a Newton sul moto dei pianeti: egli pensava che i pianeti si muovessero in uno spazio vuoto, privo di resistenza e che su di essi si esercitasse una forza diretta verso il Sole, senza la quale i pianeti avrebbero proceduto in linea retta, secondo il principio di inerzia (fig. 7). A testimonianza di tale influenza vi è il fatto che all’epoca della pubblicazione dei “Principia” (1687) Hooke  ritenne che Newton dovesse riconoscergli un contributo nella scoperta della gravitazione universale. Secondo alcuni storici della scienza invece Newton avrebbe maturato autonomamente le sue convinzioni già prima dello scambio di idee con Hooke e in ogni modo spetta solo e soltanto a Newton il merito di aver fornito il modello matematico per la forza di gravitazione universale. E lo sviluppo di tale modello matematico partì proprio dalle leggi di Keplero, in particolare dalla legge delle aree. Newton dimostrò infatti che se la forza che agisce su un pianeta è diretta verso il Sole, allora vale la legge delle aree (è vero anche il viceversa); la dimostrazione è puramente geometrica e può essere proposta anche a studenti del biennio (è auspicabile che in tal caso si possa coinvolgere l’insegnante di Matematica). In riferimento alla fig. 8 (nel punto S dobbiamo immaginare risieda il Sole), si considera una serie di intervalli di tempo Dt in cui alla fine di ognuno di essi agisca istantaneamente, ovvero per un tempo piccolo rispetto a Dt, una forza diretta verso S, che faccia  variare istantaneamente la velocità del pianeta, il quale si trova inizialmente in A con velocità iniziale diretta come AB. La misura del segmento AB rappresenta lo spazio percorso dal pianeta nel tempo Dt. Se la forza impulsiva non agisse, il pianeta, una volta giunto in B, continuerebbe a  muoversi in linea retta a velocità costante, per il principio di inerzia, raggiungendo nel tempo Dt il punto C’, con AB=BC’. L’effetto della forza fa sì che la traiettoria sia rappresentata dalla poligonale ABCDEF; vediamo come è possibile ricavarsi le posizioni dei punti C, D, E, F. Se nel punto B il pianeta fosse fermo, la forza impulsiva lo farebbe accelerare verso il punto S, in base al secondo principio della dinamica, nel brevissimo intervallo di tempo in cui agisce; il corpo poi procederebbe per inerzia a velocità costante e nel tempo Dt raggiungerebbe ad esempio il punto V. Il moto risultante sarà quindi dato dalla composizione dei due moti descritti e avverrà lungo la diagonale del parallelogramma di lati BV e BC’. Nella dimostrazione Newton infatti invocò il famoso Corollario 1 contenuto nei Principia: “ Un corpo soggetto a due forze simultanee, descrive la diagonale di un parallelogramma, nello stesso tempo in cui descriverebbe i lati di questo parallelogramma se le forze agissero separatamente.” Tale corollario non è altro che la regola del parallelogramma per sommare due grandezze vettoriali  e va sottolineato che nel caso in questione viene applicata ai vettori spostamento  e .  A questo punto passiamo a considerare i triangoli SAB, SBC’ e SBC. I primi due sono equivalenti perché hanno basi uguali (AB=BC’) e stessa altezza (distanza di S dalla retta AC’). Ma sono equivalenti anche i triangoli SBC’ e SBC in quanto hanno la base SB in comune e stessa altezza (ricordiamo che CC’ è parallelo a VB). Per la proprietà transitiva, di cui le relazioni di equivalenza godono, si ha che anche SAB e SBC sono equivalenti, il che dimostra che il segmento che unisce il Sole con i pianeti descrive aree uguali in tempi Dt  uguali, che è un modo alternativo per enunciare la seconda legge di Keplero. Se poi si fanno diventare sempre più piccoli gli intervalli di tempo Dt in modo che le forze impulsive si succedano con continuità, il ragionamento continua ad essere valido, basta fare un passaggio al limite; il che significò per Newton doversi inventare una nuova matematica: ma questa è un’altra storia. La congettura di Hooke, ovvero che la forza che agisce sui pianeti sia diretta verso il Sole, è dunque matematicamente ed elegantemente dimostrata!….Ma niente ancora sappiamo dire sulla sua formalizzazione matematica. A questo proposito è bene soffermarsi sul fatto che contemporanei di Newton, quali Il matematico Christopher Wren e l’astronomo Halley,  avevano intuito che tale forza dovesse seguire l’inverso del quadrato della distanza dal Sole, tant’è che Wren aveva offerto un premio (un libro di 40 scellini) al primo scienziato che ne avesse dato una dimostrazione soddisfacente. Una legge dell’inverso del quadrato era infatti ragionevole in quanto:

–         tale risultato, come vedremo in seguito, è semplice da dimostrare se si considerano orbite circolari; probabilmente Wren e Halliday conoscevano tale dimostrazione. Ma Keplero aveva dato prove inequivocabili che erano delle ellissi e non se ne poteva non tenere conto; in questo caso le difficoltà  matematiche erano al di là della portata di Wren e Hallyday.

–         Qualunque cosa che irradia all’esterno uniformemente in tutte le direzioni (come ad esempio la luce) si trasmetterà su una superficie che cresce con il quadrato della distanza, quindi dovrà diminuire proporzionalmente in intensità.

Fu necessaria tutta l’abilità matematica di Newton per mostrare che la traiettoria di un corpo è un’ellisse (o più in generale una conica) e il centro di forza occupa un fuoco  se e solo se la forza è centrale ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Di per se l’impresa fu notevole e sicuramente sarà stata ammirata da matematici discepoli di Newton, ma non fu certo questo che provocò un  grande impatto emotivo sul pubblico. Ciò che invece consacrò Newton al gran successo fu l’aver trovato un “link” tra questa forza e la forza di attrazione gravitazionale che sperimentiamo sulla Terra. Non potendoci quindi cimentare nella dimostrazione originale di Newton approssimiamo le orbite dei pianeti con delle circonferenze (mettiamoci nei panni di Halley e Wren) ed applichiamo ad un pianeta di massa m il secondo principio della dinamica:

                                                                                                                             (3)

dove v è la velocità, R il raggio della traiettoria e , l’espressione della accelerazione centripeta. Ricordando che  con T periodo del moto ed utilizzando la (2) (la circonferenza è una particolare ellisse) si ottiene:

                                                                                                                          (4)

che mostra come la forza agente sul pianeta sia inversamente proporzionale alla distanza. Inoltre l’accelerazione centripeta   non dipende dalla massa del pianeta: ricordiamo che k non può dipendervi perché è la costante di proporzionalità che compare nella terza legge di Keplero ed è la stessa per tutti i pianeti. Le misure compiute in precedenza da Galileo avevano mostrato che anche l’accelerazione di gravità g è indipendente dalla massa del corpo e a Newton certo non sfuggì questa analogia.

Attraverso osservazioni telescopiche, che all’epoca di Keplero non potevano essere effettuate, Newton dimostrò che anche i satelliti di Giove e Saturno obbedivano alle leggi di Keplero, ovvero riuscì a stabilire che tutte le interazioni osservabili tra corpi celesti obbedivano alla (4). Se ora applichiamo il terzo principio della dinamica deduciamo che anche il sole subisce una forza uguale e contraria alla (4). F deve essere pertanto essere proporzionale alla massa del sole ms. Possiamo quindi porre  , con G costante ed ottenere:

                                                                                                                              (5)

che, pur essendo equivalente alla (4) è formalmente più elegante. Fino a questo punto Newton non poteva che limitarsi ad apprezzare la sua formula matematica da un punto di vista estetico, visto che le masse del Sole e dei pianeti non erano noti e che quindi egli non poteva in nessun modo ricavare un valore numerico per G. E quindi decise di spingersi oltre utilizzando il suo ingegno e i dati dell’epoca. Per la misura di G dovremo aspettare circa  cento anni: le tecniche sperimentali dovettero un bel po’ affinarsi  prima che  Cavendish (1731-1810) riuscisse a valutare G attraverso misure di interazioni gravitazionali tra corpi di massa ordinaria. Gli studenti ne verranno consapevoli alla fine del percorso quando assisteranno alla misura di G e vedranno che persino ai giorni nostri non è uno scherzo.  Ma allora in che cosa sta la grandiosità di Newton, visto che fino ad ora siamo arrivati ad una formula elegante ma inutile? Ci sono troppe incognite nella (5) per essere risolta. Non si doveva più prudentemente aspettare le risposte numeriche di Cavendish prima di attribuire tutti questi onori a Newton?

 Il fatto inequivocabile è che Cavendish non avrebbe misurato un bel nulla senza l’intuizione geniale di Newton, che è quella di aver reso universale la (5). E in questo la luna gioca il ruolo cruciale di mediatrice tra i cieli e la terra. Sfruttando l’analogia precedentemente citata Newton voleva dimostrare che la forza che attira i pianeti è la stessa di quella che fa cadere i corpi sulla Terra e per prima cosa mise alla prova la sua congettura considerando l’interazione Terra-Luna. Poiché la distanza tra Terra e Luna è circa 60 raggi terrestri, l’accelerazione che la Terra esercita sulla luna  dovrebbe essere, in base alla (5)  di quella che sempre la Terra esercita su un corpo sulla sua superficie, che ha valore 9,8 m/s2. Da questo calcolo si ottiene il valore a=2,7 10-3m/s2. Il valore di a poteva però essere ricavato anche dalla formula , visto che il periodo lunare, circa 27,3 giorni, era noto con una certa precisione. Newton ottenne in pratica lo stesso valore. Il risultato fu a dir poco elettrizzante: era stato trovato un legame quantitativo tra un fenomeno terrestre (l’accelerazione di gravità) e uno celeste (l’accelerazione centripeta della luna). Stava nascendo una vera scienza nuova, universale, che rompeva definitivamente con la concezione aristotelica e realizzava la sintesi: ogni corpo di massa m1 attrae ogni altro corpo m2 con una forza del tipo:

                                                                                                                             (6)

qualunque sia la distanza tra di essi e in qualunque punto dell’universo essi si trovino! La costante G, impossibile da determinare per Newton, è detta costante di gravitazione universale in quanto Newton suppose dovesse avere lo stesso valore in tutti i casi di interazione gravitazionale. La sua determinazione è basata sull’assunzione che la  (6) sia corretta. Solo se è nota G la (6) consente di ricavarsi la massa di un corpo celeste e questo significa che anche attualmente, l’unico modo per ricavare la massa di un corpo celeste è assumere che la (6) sia corretta.

Non si può certo dire che Newton si sia limitato a dedurre la (6); nel terzo libro dei “Principia” egli mostrò come partendo dalla legge di gravitazione universale potessero essere spiegati fenomeni complessi quali le maree, le traiettorie delle comete; lo scienziato pose anche le basi per l’analisi matematica di nuovi problemi teorici, come ad esempio l’influenza di ciascun pianeta sul moto degli altri, che condurrà al noto problema dei tre corpi, che per tutto il settecento impegnerà matematici del calibro di Lagrange, Eulero, Laplace e che rimane ancora oggi un problema aperto oggetto di studio.  Convinto sostenitore della validità della sua legge, la applicò in profondità a numerosi problemi celesti e terrestri, con il risultato di farla accettare dalla comunità scientifica e non solo da quella , su larga scala. Non si lasciò certo influenzare negativamente dall’impossibilità di misurare G!

Eppure non mancano dei lati oscuri. Come è possibile che due corpi si attraggano a distanza, senza l’intervento di un agente esterno? Come fanno a scambiarsi le forze d’interazione? Come può tutto ciò avvenire istantaneamente? Sono queste le critiche rivolte  a Newton da scienziati del calibro di Huygens e Leibniz. L’attrazione gravitazionale venne vista dai critici di Newton come un miracolo e una qualità occulta. Una teoria veramente meccanica avrebbe dovuto prevedere una trasmissione di forze per contatto diretto. Se nel privato Newton prese molto seriamente queste obiezioni, tant’è che dedicò l’ultima parte della sua vita alla ricerca delle cause della gravità, in pubblico egli si trincerò dietro il famoso hypotheses non fingo, ovvero ignorò le critiche, ponendo più o meno consapevolmente le basi per la nascita della metodologia scientifica moderna: compito della Scienza non è quello di ricercare le cause ultime, bensì quello di fornire formulazioni matematiche giustificate da generalizzazioni induttive. E’ questo in sostanza il paradigma Newtoniano che tanta influenza continua ad esercitare anche ai giorni nostri. Diventa così naturale accettare tale modello che, come ebbe da dire Mach agli inizi del ‘900, “l’inconsueta incomprensibilità divenne una comune incomprensibilità”.

Il percorso può infine concludersi con la misura di G tramite la bilancia di torsione (esperimento di Cavendish), non mancando di aggiungere che tale esperimento è considerato tra le dieci esperienze più “belle” che si siano effettuate nel campo della Fisica, tant’è che molti laboratori di musei scientifici e universitari, includono questa esperienza nella loro offerta didattica. L’illustrazione e l’esecuzione dell’esperienza sono particolarmente significativi per i seguenti motivi:

–         non si tratta semplicemente di una verifica a posteriori della legge di gravitazione universale, ma di un esperimento atto alla determinazione di un parametro G che nel paradigma newtoniano è universale. La sua misura correda quantitativamente quell’ardita sintesi tra cielo e terra e apre la strada alla valutazione delle masse dei corpi celesti, primo tra tutti la Terra; non a caso Cavendish stesso chiamò il suo esperimento “pesare la Terra”,

–         si tratta di un esperimento molto sofisticato, di non facile esecuzione anche ai nostri giorni: molti sono i fattori di disturbo che possono influenzare la misura (correnti d’aria, temperatura) e che rendono essa stessa intrinsecamente poco precisa; si pensi che la costante G è, tra le fondamentali, quella che è conosciuta con minor precisione. Lo studente ha quindi modo di comprendere come tale esperimento non potesse essere effettuato all’epoca di Newton.

Conclusioni

Alla fine di questo percorso, cui dovranno seguire lezioni più o meno tradizionali sulle applicazioni della legge di gravitazione, con verifiche quantitative in cui lo studente si cimenterà nella soluzione di esercizi e problemi, come possiamo esser sicuri di aver raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissi, ovvero che i nostri studenti abbiano acquisito conoscenze operative e non solo dichiarative, come sicuramente sarebbe successo se fossimo partiti direttamente dall’equazione (6)? Come facciamo a capire che abbiamo contribuito ad una loro formazione scientifica più ampia? Per rispondere a questa domanda possiamo analizzare il pensiero di Arons3, secondo cui, per avere una certa cultura scientifica è indispensabile che:

–         si riconosca che i concetti scientifici (ad esempio quello di interazione gravitazionale nel nostro caso) sono frutto dell’immaginazione e dell’intelligenza umana, non sono tangibili e la loro scoperta non avviene come si scopre un fossile o un minerale.

–         Si riconosca che, per essere utilizzati, i concetti scientifici richiedono una definizione operativa accurata, che affonda le radici nell’esperienza condivisa e in parole più semplici definite in precedenza; ovvero è necessario che prima ci sia un’idea e poi un nome. La comprensione non risiede nei termini tecnici in se.

–         Si comprenda la distinzione tra osservazione (le accuratissime osservazioni di Thyco) e deduzione (le leggi di Keplero), sapendo distinguere tra i due processi in ogni contesto.

–         Si sappia distinguere, nella ricerca scientifica, tra il ruolo occasionale della scoperta accidentale (l’eccentricità dell’orbita di Marte) e la strategia meditata del formare ipotesi e del verificarle (la centralità della forza gravitazionale, la sua dipendenza dalla distanza),

–         Si capisca il significato della parola teoria nell’ambito scientifico e si abbia un’idea di come queste si formino, si sottopongano a verifica e di come venga concessa loro un’accettazione provvisoria. Si riconosca inoltre che il termine teoria non si riferisce ad una qualsiasi opinione personale, idea non provata od articolo di fede. (il percorso proposto è imperniato sul raggiungimento di questa finalità)

–         Si sappia distinguere tra l’accettazione di modelli non sottoposti a verifica (nel nostro caso che nell’era pre-Cavendish l’interazione gravitazionale agisca anche tra due corpi di massa ordinaria) e i presupposti sui cui tali modelli poggiano (equivalenza tra interazione Terra-Luna e forza peso di un corpo sulla superficie terrestre).

–         Si capisca in che senso i concetti scientifici e le teorie sono provvisori e non definitivi. Si percepisca il modo attraverso cui tali strutture vengano continuamente rifinite attraverso un processo per approssimazioni successive. (anche questo obiettivo risulta centrale nel nostro percorso).

–         Si capiscano  i limiti intrinseci della ricerca scientifica, ovvero delle molte domande a cui la scienza non può dare risposta (perché la gravità agisce proprio in questo modo, qual è la sua causa?).

A giudizio dell’autrice è un po’ difficile per un’insegnante di buon senso non essere d’accordo con queste considerazioni; non è altrettanto facile progettare moduli che abbiano tali intenti; questo lavoro ne rivendica la fattibilità.  L’argomento qui trattato si presta particolarmente bene a questo proposito, ma ormai sono diversi anni che l’autrice è consapevole che ogni percorso didattico non può prescindere da questi ragionevoli dettami.

Per esperienza personale, se si ha bene in mente tutto ciò, con lo studio e la pratica diventerà naturale affrontare ogni argomento in modo metodologicamente nuovo (a condizione che anche il nostro studio e le nostre ricerche diventino “un modo naturale di lavorare”). Le verifiche potranno comprendere tipologie di domande prevalentemente a risposta aperta, in cui lo studente sarà invitato ad esprimere il proprio pensiero in forma chiara. Riportiamo, per completezza, alcune delle possibili domande:

–         Quali miglioramenti, in termini di metodo, apportò Thyco Brahe rispetto ai suoi predecessori? Quali invece sono dovuti a Keplero?

–         In che senso le leggi di Keplero sono empiriche?

–         Perché la seconda legge di Keplero è così importante nell’ambito della teoria della gravitazione universale?

–         Enuncia la legge di gravitazione universale, a parole e in formule e spiega il significato dell’aggettivo universale in questo contesto.

–         Discuti le seguenti affermazioni : “le leggi di Keplero danno una descrizione cinematica del moto dei pianeti” “la legge di gravitazione di Newton fornisce una descrizione dinamica del moto dei pianeti”.

Si è voluto riportare questo elenco, breve per motivi di spazio e quindi  non esaustivo, per sottolineare come d’altra parte sia indispensabile un tipo di verifica che vada a sondare le competenze acquisite su tutto il percorso e non solo sui risultati finali. I nostri sforzi per un miglioramento della qualità dell’insegnamento potrebbero risultare quasi del tutto vani se non sottoponessimo a valutazione questi aspetti che abbiamo detto irrinunciabili per un ampliamento delle conoscenze scientifiche dei nostri studenti. Gli studenti in generale sono portati ad economizzare i propri sforzi e tendono ad impegnarsi solo su ciò che ha peso ai fini della loro valutazione.

Questo lavoro è stato in parte svolto nell’ambito del progetto “educazione scientifica”, dell’IRRE Toscana, coordinato dal Prof. Carlo Fiorentini, a cui va un particolare  ringraziamento.

Bibliografia

1J. Bruner, “la cultura dell’educazione”, Milano, Feltrinelli 1997.

2 T. Pascucci “Il concetto di forza”, percorso didattico pubblicato nel volume “Formare alla Scienza nella Scuola Secondaria Superiore”, a cura di F. Cambi, L. Barsantini, D. Polverini,  Armando Editore 2007.

3 A. B. Arons “Guida all’insegnamento della fisica”, Bologna, Zanichelli, 1992.

4. N. Guicciardini, “Newton: un filosofo della natura e il sistema del mondo”, i grandi della scienza, n.2, aprile 1998.