Ipotesi per il curricolo di chimica

Carlo FIORENTINI,  CIDI – Firenze

                               Ezio ROLETTO, Gruppo di Didattica della Chimica – Università di Torino

1 – GLI AMBITI DELLA CHIMICA

Il sapere chimico fa riferimento  essenzialmente a quattro ambiti: l’ambito dei fenomeni, l’ambito delle leggi macroscopiche, quello dei modelli microscopici ed infine quello del linguaggio chimico. La nostra proposta pedagogico-didattica di insegnamento della chimica nella scuola preuniversitaria considera l’ambito del linguaggio chimico trasversale ai primi tre ai quali attribuisce un ordine di tipo psicologico:

1)      fenomeni chimici (concetti categoriali);

2)      leggi e teorie macroscopiche (livello o registro fenomenologico);     4)  linguaggio chimico.

3)      teorie e modelli microscopici (livello o registro esplicativo).

È nostra convinzione che nella scuola di base si dovrebbe affrontare  il primo aspetto all’interno di una generale impostazione fenomenologica-operativa dell’educazione scientifica [1]; nel biennio della scuola secondaria superiore dovrebbe essere possibile affrontare i concetti e le teorie della chimica classica; nel triennio, in stretta connessione con l’acquisizione delle necessarie conoscenze fisiche, i modelli e le teorie microscopiche della chimica del Novecento. Siamo ovviamente consapevoli che le relazioni tra i tre ambiti sono molto più complesse e che, ad esempio, molti fenomeni sono diventati tali in connessione all’invenzione di ipotesi che fanno riferimento o alla chimica classica o alla chimica del Novecento. Conseguentemente, i fenomeni da affrontare con un’impostazione fenomenologica-operativa non potranno essere individuati casualmente, si cadrebbe in questo modo nell’induttivismo più cieco, ma soltanto attraverso una riflessione di tipo storico-epistemologico. Questa necessaria precisazione sulla non linearità delle connessioni tra i primi tre ambiti del sapere chimico nulla toglie al fatto che sia opportuno “sapere che…(X è così)” prima di “sapere come mai…(X è così)” per cui i tre ambiti non possono essere sovrapposti in modo casuale, né è pensabile eliminare i primi due, riducendo l’insegnamento della chimica alle teorie ed ai modelli esplicativi del XX secolo ed al linguaggio chimico.

Comprendiamo le motivazioni socio-culturali di questa scelta: la chimica, come d’altra parte tutte le discipline scientifiche, ha una collocazione marginale nel curricolo ed un ruolo essenzialmente informativo più che formativo: dovrebbe fornire in un lasso di tempo limitato, generalmente alcune ore alla settimana nell’arco di due anni, nozioni sull’enciclopedia delle conoscenze chimiche oggi accreditate. Se tale scelta poteva avere un senso in una scuola elitaria e selettiva, da alcuni decenni le ricerche sui risultati di questa impostazione dell’insegnamento hanno mostrato la drammaticità della situazione, sia in relazione alla capacità di stimolare interessi e motivazioni sia dal punto di vista dei risultati cognitivi. Infatti, soprattutto in conseguenza dell’insegnamento ricevuto, la grande maggioranza degli studenti considerano la chimica come una materia incomprensibile, astrusa, senza significato [2].

Ciò è comprensibile, dal momento che la chimica contemporanea è il regno della più raffinata astrazione e formalizzazione. La chimica del Novecento ha realizzato il sogno riduzionista sette-ottocentesco di assumere finalmente una forma simile a quella della fisica, di ricondurre quella disciplina contaminata per lungo tempo dall’empiria, dalle qualità secondarie dei materiali e delle sostanze alla dignità scientifica della fisica, con i suoi eleganti formalismi e con il suo potente apparato matematico. La chimica del Novecento è finalmente diventata una disciplina caratterizzata da un’organizzazione deduttiva che ha il suo punto di partenza, i suoi assiomi, in un insieme di concetti che appartengono al registro teorico/modellistico, in quanto si riferiscono agli atomi e alle molecole, grazie ai quali è in grado di fornire spiegazioni di una molteplicità di fenomeni chimici che erano stati scoperti nel periodo della chimica classica.

Ma tutto ciò può avere significato per una persona soltanto se questa ha, da una parte, una grande padronanza delle teorie e dei linguaggi della fisica – che costituiscono prerequisiti dei concetti più strettamente chimici – e dall’altra, una conoscenza significativa delle problematiche fenomenologiche e teoriche di carattere macroscopico che si vogliono interpretare e spiegare con i modelli microscopici. Un qualsiasi manuale che si rispetti – qualcuno potrebbe obiettare – ricostruisce in alcuni capitoli l’insieme delle teorie e dei concetti fisici sulla struttura dell’atomo che sono poi necessari per la chimica. Questi capitoli costituiscono, a nostro parere, una manifestazione esemplare della totale inconsapevolezza pedagogica di questi manuali: in essi, infatti, la proposta didattica di iniziazione alla chimica, in modo indifferenziato per studenti sia del biennio che del triennio, si concretizza in una bignamizzazione di un corpo complesso di conoscenze fisiche. Tale operazione potrebbe eventualmente avere un senso soltanto in un manuale universitario nel quale si schematizzano, in alcune centinaia di pagine, le conoscenze fisiche che si suppone che lo studente abbia già acquisito nella scuola secondaria superiore o in specifici corsi o moduli universitari di fisica.

La chimica del Novecento presuppone uno studente che possieda basi significative in tutti i campi della fisica, dalla meccanica alla termodinamica, dall’elettromagnetismo alla fisica quantistica; presuppone, cioè, uno studente che abbia nel corso di molti anni costruito conoscenze solide su teorie e concetti molto complessi e pieni di ostacoli epistemologici. Prendiamo un esempio, apparentemente tra i più banali per come è affrontato nei manuali: il passaggio dal modello atomico di Thomson a quello di Bohr. La storiellina che viene raccontata è più o meno di questo tipo: l’ipotesi di Thomson venne immediatamente criticata perché, alla luce delle leggi dell’elettromagnetismo, un oggetto carico, che si muove di moto circolare, perde costantemente energia, e conseguentemente l’elettrone non potrebbe rimanere nella sua orbita ma cadrebbe sul nucleo. Bohr, alcuni anni dopo, superò queste contraddizioni ipotizzando che le leggi della fisica classica non si applicassero all’infinitamente piccolo, all’atomo, e postulò conseguentemente i principi della meccanica quantistica: 1) quando un atomo non perde né acquista energia, l’elettrone si trova in un orbita definita, 2) un elettrone non può occupare tutte le zone dello spazio, ma può transitare  solo in alcune orbite, emettendo o acquistando una precisa quantità di energia. Questa è una delle storielline che si possono memorizzare più facilmente, ma che significato può avere per chi, e a maggior ragione per uno studente di 15-16 anni, non abbia conoscenze significative di fisica? Purtroppo, tali conoscenze fisiche mancano a tutti gli studenti della scuola secondaria superiore, con l’eccezione di quelli del liceo scientifico e degli indirizzi sperimentali dove la fisica viene affrontata nell’arco di tre o più anni. Generalmente, però, anche in questi casi più felici, la chimica viene insegnata al terzo o al quarto anno, quando lo sviluppo delle conoscenze fisiche è, se va bene, a metà del cammino. Tuttavia queste conoscenze fisiche non sarebbero ancora sufficienti per dare significato ai concetti chimici ed al linguaggio chimico del Novecento, in assenza di una significativa conoscenza, da parte degli studenti, di alcune importanti classi di sostanze e trasformazioni chimiche nonché delle leggi macroscopiche fondamentali.

Il linguaggio chimico costituisce una della grandi conquiste intellettuali dell’umanità. In tutti i libri di chimica, scritti nelle varie lingue della Terra, vi è una parte comune a tutti, universale, quella che si riferisce ai nomi simbolici delle sostanze (formule chimiche) e quella che schematizza le trasformazioni chimiche (le equazioni chimiche). Si tratta, indubbiamente, di un linguaggio convenzionale, ma non nello stesso senso del linguaggio ordinario. Infatti è un linguaggio in grado di fornire informazioni qualitative e quantitative sulla composizione molecolare delle sostanze e sulle trasformazioni chimiche. Però è pedagogicamente assurdo pensare di dare significato al linguaggio chimico con un insegnamento che, fin dall’inizio, si sviluppi solo attraverso nomi, formule ed equazioni. Si tratta di conoscenze molto sofisticate che possono avere significato solo se gli studenti hanno avuto, nell’arco di molti anni, a partire dalla scuola elementare fino al biennio, una lunga dimestichezza con sostanze, trasformazioni chimiche nonché con le leggi macroscopiche della chimica classica.

Per esempio, nell’evoluzione della chimica, il bilanciamento delle reazioni di ossido-riduzione ha rappresentato una grande conquista intellettuale e costituisce da molto tempo uno strumento fondamentale nell’analisi quantitativa delle sostanze ossidanti e riducenti. Tale bilanciamento fa riferimento ad almeno tre diversi modelli esplicativi di queste reazioni, ma di questo non vi è traccia nell’insegnamento. Bilanciare una reazione redox costituisce, generalmente, un’attività da settimana enigmistica che rappresenta un incubo per gli studenti, fin quando non abbiano memorizzato le regole del gioco e non si siano sufficientemente addestrati ad applicarle.

Il prototipo dell’insegnamento usuale della chimica è l’insegnamento grammaticale come poteva essere praticato cinquanta anni fa, insegnamento che era basato sull’illusione che l’acquisizione e la padronanza del linguaggio potesse avvenire soltanto attraverso lo studio di principi, regole e definizioni. Da tempo si è mostrato che la via grammaticalista alla comprensione e alla padronanza linguistica è pedagogicamente assurda per cui, a maggior ragione, dovrebbe apparire chiaramente l’assurdità di un tale approccio per le conoscenze chimiche. Queste infatti sono, come tutte le conoscenze scientifiche, generalmente molto più complesse, sul piano psicologico, del linguaggio comune, dal momento che spesso risultano essere, dal punto di vista epistemologico, in discontinuità con la razionalità della vita quotidiana.

2 –  FENOMENOLOGIA CHIMICA E EDUCAZIONE ALLE SCIENZE NELLA SCUOLA DI BASE

Le problematiche chimiche sono strettamente interrelate alla storia dell’umanità. L’invenzione o la scoperta di nuove tecniche ha portato spesso all’affinamento di fondamentali conoscenze fenomenologiche di tipo chimico. E’ sufficiente ricordare nell’antichità il perfezionamento delle tecniche della combustione e la possibilità di ricavare materiali artificiali così importanti nell’evoluzione della civiltà umana, quali i metalli, i leganti, i materiali laterizi, ecc.; il fuoco è stato per tempi immemorabili il principale strumento utilizzato dall’uomo per realizzare trasformazioni chimiche. Durante il Medioevo furono scoperte delle sostanze, gli acidi minerali, che, grazie alla loro capacità aggressiva (erano, cioè capaci di “sciogliere” solidi insolubili in acqua),  permisero lo sviluppo di un nuovo campo di fenomeni chimici.

A metà del Settecento la chimica era da tempo caratterizzata da un rigoglioso sviluppo quantitativo: le sostanze naturali ed artificiali conosciute aumentavano costantemente e diventava sempre più problematico classificarle, anche a causa dei limiti intrinseci al linguaggio chimico allora utilizzato che attribuiva i nomi alle sostanze sulla base di svariati criteri casuali, quali il loro colore, sapore, utilizzo, luogo di provenienza, nome dello scopritore, ecc. Inoltre, nella prima metà del Settecento, come d’altra parte era successo nei secoli precedenti, vennero elaborate molteplici teorie che si proponevano di fornire spiegazioni e di individuare connessioni e  regolarità in questo mare buio di fenomeni empirici; ma il successivo sviluppo scientifico della chimica  mostrò che i principi fondamentali delle trasformazioni chimiche potevano essere rintracciati con un approccio sostanzialmente opposto a quello allora prevalente, con un’impostazione cioè di tipo quantitativo.

“Ma che grande scoperta” potrebbe dire il riduzionista di turno: “l’approccio quantitativo è ciò che caratterizza il pensiero scientifico”. Ora, a parte la discutibilità di un’affermazione generale di questo tipo, essa è comunque facile a dirsi, ma tutt’altro che facile a farsi. Anche per la chimica il passaggio alla maturità si realizzò con la sua matematizzazione, con l’individuazione di principi quantitativi; ma prima delle geniali scoperte di Lavoisier quale era la situazione? Tutti i grandi chimici del Settecento si erano convinti che la forza della chimica risiedesse nella sua metodologia specifica, di tipo sperimentale e qualitativo e non nell’utilizzo di metodologie fisiche, cioè quantitative. Erano stati, infatti, effettuati molti tentativi di conferire alla chimica un assetto quantitativo simile a quello della meccanica newtoniana, con l’introduzione, ad esempio del principio delle affinità chimiche mutuato dal principio della gravitazione universale [3]. Tuttavia, tutte queste concezioni banalmente riduzioniste non avevano minimamente contribuito allo sviluppo della chimica.

Fino a Lavoisier, le trasformazioni chimiche erano state osservate e studiate nelle loro regolarità di tipo qualitativo e già questo aveva costituito un’impresa titanica. Non è un caso che la chimica sia stata associata fino ad alcuni secoli fa con la magia; in un certo senso, le trasformazioni chimiche sono delle magie: sono, infatti, quei fenomeni in cui, da determinate sostanze, se ne ottengono altre che non hanno nessuna proprietà in comune con quelle iniziali. Lo sviluppo della chimica, nella cosìddetta fase prescientifica,  rappresenta un fenomeno prodigioso; durante il Seicento ed il Settecento si riuscì ad individuare, a partire dal caos della materia indistinta presente nella vita quotidiana, un numero immenso di materiali e di sostanze naturali od artificiali, e successivamente classi di sostanze e relazioni tra esse. E non è che non fossero state osservate anche regolarità quantitative da parte degli artigiani quando utilizzavano determinate trasformazioni chimiche per fabbricare materiali o sostanze utili per i vari scopi.

La situazione psicologica del non esperto di fronte al mondo dei materiali, delle sostanze e delle trasformazioni non è molto diversa da quella dello scienziato o dell’artigiano di quattro-cinque secoli fa. Se si vuole costruire conoscenze che siano in consonanza con le strutture cognitive dello studente e con il suo mondo percettivo, occorre dedicare gli anni della scuola di base a realizzare questo passaggio graduale dalla materia indistinta della percezione quotidiana all’individuazione di alcuni materiali, di alcune sostanze e di alcune classi di sostanze. [4,5]

3 – LE LEGGI MACROSCOPICHE DELLA CHIMICA

Perché le leggi macroscopiche della chimica, e più in generale la chimica classica,  devono costituire la parte principale dell’insegnamento della chimica nell’area comune della scuola secondaria superiore? Innanzitutto, perché costituiscono conoscenze fondamentali della chimica. L’oblio, negli ultimi decenni, di questo aspetto costituisce una delle manifestazioni più eclatanti del pensiero riduzionista. In secondo luogo, perché realizzano un passaggio graduale (che permette di comprendere il significato dei concetti) dalle concezioni di senso comune agli aspetti più formalizzati della chimica. Questa seconda risposta è determinante sul piano pedagogico-didattico. L’importanza disciplinare di determinate problematiche costituisce, infatti, una condizione necessaria, ma tutt’altro che sufficiente, per il loro inserimento nel curricolo.

A differenza dei concetti categoriali di tipo fenomenologico, i concetti e le leggi macroscopiche della chimica non sono, tuttavia, in continuità con il senso comune: molti di esse sono in stretto rapporto con osservazioni e sperimentazioni che è possibile (che è didatticamente indispensabile) effettuare, ma non si tratta di conoscenze ottenute con un processo di astrazione empirica; sono, invece, il frutto di atti creativi di grandi scienziati che hanno saputo inventare “oggetti mentali” e ipotesi che andavano molto oltre i dati dell’osservazione. Di conseguenza, i concetti e le leggi fondamentali della chimica non possono essere insegnati con l’impostazione fenomenologica-operativa proposta per la scuola di base. Si cadrebbe in questo modo nell’impostazione angusta dell’attivismo e dello sperimentalismo ingenuo. Le osservazioni sperimentali non possono più, di per sé, costituire il fondamento della concettualizzazione. La loro funzione è ora radicalmente diversa: continuano ad essere necessarie per l’ampliamento del riferimento empirico e quindi della conoscenza di sostanze e trasformazioni; sono, inoltre, indispensabili per offrire agli allievi l’opportunità di esplicitare le proprie concezioni nei confronti di fenomenologie che storicamente hanno svolto un ruolo determinante nella creazione di concetti e leggi fondamentali.

Nuovi concetti o nuove leggi hanno permesso di risolvere problemi teorici e/o sperimentali, hanno costituito la risposta a contraddizioni esistenti nelle teorie precedenti, sono state in grado di individuare regolarità impreviste, di fornire spiegazioni e di prevedere nuovi fenomeni. Tutti questi aspetti contribuiscono a costituire il significato dei concetti, significato che non risiede nella loro definizione formale, acontestuale, tranne che per gli specialisti che sono in grado di dominare cognitivamente l’organizzazione assiomatica di una disciplina. Affinché lo studente possa comprendere concetti e leggi della chimica classica è quindi necessario ricostruire il contesto problematico, teorico e sperimentale, in cui essi sono stati ipotizzati e poi definiti formalmente.

Alla comprensione deve accompagnarsi la formalizzazione che, a questo punto, diventa un atto fondamentale. Già nella scuola di base l’importanza delle osservazioni sperimentali risiede nel fatto che costituiscono la base della concettualizzazione di fenomenologie elementari, cioè della formalizzazione possibile a questo livello di scolarità. A maggior ragione, nella scuola secondaria superiore, la formalizzazione non può che avere un’importanza centrale, in relazione, ovviamente, ai quei concetti fondamentali della chimica di cui è stato possibile comprendere il significato problematico e contestuale. La nostra critica radicale non è quindi rivolta alle definizioni, al linguaggio rigoroso ed alla necessità didattica di esercizi di addestramento, ma ad un insegnamento che, invece di considerare questi come punti di arrivo, si fonda solo su di essi, presumendo che lo studente possa comprenderli in quanto gli vengono presentati con una serie di frasi connesse logicamente all’interno dell’organizzazione deduttiva della chimica.

4 – RIFLESSIONI SU ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI DELLA CHIMICA

Come è stato sottolineato, la chimica è una disciplina che “presenta difficoltà intrinseche di apprendimento, riconducibili a tre punti nodali: la chimica non è intuitiva, la chimica fa uso di due livelli di descrizione della realtà, le molecole non stanno ferme”[6]. Che la chimica non sia intuitiva lo si comprende immediatamente se si pensa che alla sua base sta il concetto di sostanza che è tutt’altro che intuitivo, anche se tale viene comunemente ritenuto probabilmente perché fa parte del linguaggio comune. Tuttavia questo aspetto, lungi dal facilitarne la comprensione, la rende molto più ardua. Molti termini scientifici sono anche termini della vita quotidiana, ma con significati che sono, di norma, completamente diversi. Ciò costituisce un ostacolo epistemologico ulteriore alla comprensione di molti concetti scientifici, ostacolo che non è stato colto minimamente dall’insegnamento tradizionale, che addirittura considera la conoscenza dei termini spontanei come embrione del concetto scientifico che dovrebbe essere solo rifinito.

4.1 – Il concetto di sostanza

Molteplici ricerche hanno da tempo messo in evidenza che non si tratta di un concetto semplice, tanto è vero che viene frainteso anche da parte di studenti universitari frequentanti corsi di chimica [7, 8].  Il concetto scientifico di sostanza non coincide per nulla con il concetto di senso comune. Sostanza è un termine utilizzato nella vita quotidiana per indicare in modo indifferenziato (irriflessivo) il sostrato materiale di qualsiasi cosa, come sinonimo di materia o di materiale.

Se si consultasse un dizionario, per esempio il Devoto Oli, si troverebbe questa definizione di sostanza: composizione materiale individuata da particolari qualità o proprietà: sostanze liquide, solide, gassose; sostanze alimentari, medicinali, sostanze velenose. In chimica, materia, composto o miscela di composti…la parte nutritiva di un alimento: carne che ha poca sostanza”. [8]

La definizione scientifica di sostanza è, invece, di questo tipo: sostanza è una porzione di materia caratterizzata da specifiche proprietà macroscopiche ed operative. Nel Gillespie si trova la seguente definizione: se un materiale è una sostanza e non una miscela di sostanze, noi spesso lo chiamiamo sostanza pura. [9]

Tuttavia queste definizioni sono tutt’altro che perspicue: anche il concetto scientifico di sostanza

è un concetto complesso che può essere didatticamente costruito gradatamente, nell’arco della scuola di base; si tratta infatti di un concetto strettamente intrecciato a quello di miscela e di materiale. Se logicamente sembrerebbe precederli, psicologicamente dovrebbe, invece, seguirli. In alcuni casi, comunque, la distinzione ed una prima costruzione di significati è abbastanza semplice; in altri, ci si trova di fronte ad un ostacolo epistemologico: le leghe ed i vetri, ad esempio, sono sostanze o miscele?

Nella scuola elementare è necessario indubbiamente condurre per un lungo tempo l’attività sui materiali e solo successivamente, in casi particolarmente semplici, iniziare a rendersi conto  che i materiali sono costituiti di porzioni di materia diverse, che vi sono miscele eterogenee, soluzioni, sostanze. Nella realtà, nell’ambiente, per il bambino vi sono cose, oggetti, animali, piante: ai materiali si deve arrivare riflettendo su dati percettivi ricavati dall’osservazione e dalla manipolazione degli oggetti; all’inizio i materiali probabilmente verranno indicati come una caratteristica dell’oggetto; successivamente i bambini potranno individuarli come ciò di cui gli oggetti sono fatti; sarà così possibile passare dalle caratteristiche degli oggetti alle proprietà dei materiali. Per i bambini, è in genere molto agevole riconoscere i materiali più comuni, ma è più difficile individuarne alcune loro proprietà caratterizzanti (definienti). Verso i nove – dieci anni, ossia nell’attuale secondo ciclo della scuola elementare, sarà quindi necessario iniziare a proporre alcune fenomenologie che, da una parte, abbiano significato di per sé, e che, dall’altra, consentano di individuare proprietà empiriche che permettono di distinguere alcuni materiali.

Una sostanza è una porzione di materia (un corpo) caratterizzata da specifiche proprietà fisiche e chimiche. Questo concetto deve essere costruito, come abbiamo già detto, nel corso di nove- dieci anni, ma deve essere definito solo nella fase terminale, durante la quale si tirano le fila delle attività e delle conoscenze già consolidate negli anni precedenti. Durante il secondo ciclo della scuola elementare e nella scuola media si dovrebbero incontrare più esempi di sostanze, cioè di porzioni di materia caratterizzate da specifiche proprietà fisiche e chimiche. Ad esempio, due fenomenologie fondamentali che a nostro parere vanno affrontate già nel secondo ciclo della scuola elementare sono le soluzioni acquose e l’ebollizione-evaporazione dell’acqua. Per concettualizzarle, seppur ad un primo livello, sono necessari molti mesi di attività perché ad esse sono connesse molte problematiche di cui va costruita la rete concettuale.

L’oggetto principale di queste attività è l’acqua, che da sostanza del senso comune inizia a diventare sostanza nel significato scientifico. L’acqua della vita quotidiana appare come una sostanza, eventualmente con l’aggettivo pura, volendo così significare che è l’aggiunta di altre sostanze che la rende sgradevole. Le attività precedentemente indicate permettono di comprendere che l’acqua usuale non è una sostanza ma una soluzione, e che la bontà dell’acqua dipende dalle sostanze in essa sciolte. L’acqua chimicamente pura la si può ottenere distillando l’acqua, togliendo, cioè, all’acqua le sostanze che naturalmente vi sono disciolte. In generale, mentre l’acqua naturale è una soluzione, l’acqua sostanza è un artefatto umano. È l’acqua distillata che va usata per preparare le soluzioni acquose, per non avere interferenze fra il soluto le sostanze già disciolte nell’acqua. È di nuovo l’acqua distillata che bolle ad una ben determinata temperatura.

Sono in particolare le proprietà fisiche, quali le temperature di ebollizione e/o di fusione, il peso specifico, la solubilità, ecc. quelle che permettono più facilmente di caratterizzare le sostanze, così come, d’altra parte, sono le trasformazioni fisiche connesse (passaggi di stato e solubilizzazione) le fenomenologie di base su cui concentrare l’attività nella scuola elementare. Nella scuola media, si può gradualmente evidenziare la distinzione tra trasformazioni fisiche e chimiche, tra le trasformazioni caratterizzate da conservazione e non conservazione della sostanza [10]. Le trasformazioni chimiche sono adatte a livello fenomenologico più che a distinguere sostanze, a caratterizzare e riconoscere gruppi di materiali o di sostanze che hanno proprietà comuni. Si possono così definire, tra la fine della scuola media e l’inizio del biennio, dei raggruppamenti che hanno chimicamente grande rilevanza, quali quello dei combustibili, dei metalli, degli acidi, delle sostanza basiche e dei sali.

4.2 – Il concetto di composto

Quanti tipi di sostanze esistono per i chimici? Questi parlano di sostanze semplici e sostanze composte, chiamate più semplicemente composti. Questo è un ampliamento del concetto di sostanza che comporta un notevole salto nel livello di complessità psicologica. Nel paragrafo precedente abbiamo mostrato la non immediatezza del concetto di sostanza: esso, infatti, è così inestricabilmente connesso a quello di materiale, miscela e soluzione che può essere chiaramente compreso, e quindi acquisito, soltanto all’interno di attività che si distendano per tutta la scuola di base. Con i concetti di sostanza semplice e composta ci troviamo, invece, completamente su un altro piano: essi sono infatti formali e non categoriali, sono frutto di processi di astrazione su idee e non su oggetti o fenomeni.  

Ma quante storie! potrebbe affermare qualche chimico esperto. I concetti di sostanza semplice e composta sono autoevidenti; da una parte, vi sono sostanze non più decomponibili, quali l’ossigeno, il cloro, il ferro, ecc.; dall’altra ve ne sono molte altre che sono costituite di quelle, come è possibile constatare effettuando determinate trasformazioni ( e qui vengono mostrati alcuni esempi). Ma lo studente che ha memorizzato queste informazioni categoriche, ha forse acquisito strumenti cognitivi che lo mettano in condizioni di riferirle a fenomenologie chimiche per lui familiari?

I composti hanno una determinata composizione, ma si parla di composizione anche per le miscele ed in particolare per le soluzioni. Quali differenze ci sono tra “composto” e “miscela” o “soluzione”? Che cosa è una sostanza semplice? Che cosa è una sostanza composta? Proviamo a prendere in considerazione l’ultimo interrogativo e vediamo quale definizione si troverebbe consultando un dizionario. Nel Devoto Oli  troviamo quanto segue:

Composto – In chimica qualsiasi sostanza, di composizione fissa e definita, risultante dalla combinazione di due o più elementi chimici, le cui rispettive proprietà non vi sono riconoscibili. 

Se proviamo a cercare in un dizionario specialistico [11], troviamo questa definizione:

Composto –  Sostanza formata dalla combinazione di elementi chimici in proporzioni fisse. La formazione di un composto comporta una reazione chimica: in altre parole si verifica un cambiamento nella configurazione degli elettroni esterni degli atomi. Al contrario delle miscele, i composti non possono essere separati con mezzi fisici.

Queste due definizioni sono sostanzialmente incomprensibili da chi non possieda già significative conoscenze chimiche. La maggior parte dei termini presenti non sono termini del linguaggio comune quotidiano, già conosciuti o comunque comprensibili per definizione; sono termini scientifici che possono avere significato solo nel contesto della comprensione delle teorie che essi contribuiscono a formalizzare. Inoltre, molti dei termini presenti in queste definizioni corrispondono a concetti psicologicamente complessi che hanno rappresentato e continuano a rappresentare ostacoli epistemologici. I dizionari, ancor meno quelli specialistici, non servono per  comprendere i concetti scientifici. Quali concezioni hanno gli studenti di “sostanza”, “elemento”, “composizione fissa e definita”, “combinazione di elementi chimici”, “proprietà non più riconoscibili”? Sarebbe interessante verificarlo con studenti che hanno terminato un corso di chimica di base da un paio di anni.

Tutti i termini precedenti designano concetti raffinati che possono essere compresi soltanto all’interno di percorsi che vadano in profondità e non con attività superficiali e banalmente definitorie come generalmente fanno i manuali. Inoltre, molte volte gli estensori di tali volumi, avendo probabilmente qualche illuminazione sull’incomprensibilità del materiale proposto, cercano esemplificazioni, metafore ed analogie con cose familiari riuscendo, spesso, a realizzare l’opposto di ciò che si proponevano. Infatti tali esemplificazioni ed analogie si rivelano o delle  banalizzazioni insignificanti o addirittura dei fraintendimenti dei concetti. Vediamo un esempio ripreso da un manuale, molto adottato alcuni anni fa, a proposito della Legge delle proporzioni multiple. Dopo aver presentato la legge in una decina di righe, viene sviluppata la seguente analogia, con lo scopo di rendere la legge più comprensibile: “Una ricetta di cucina mostra le proporzioni relative degli ingredienti proprio come una equazione chimica bilanciata mostra che le sostanze si combinano secondo rapporto fissi”. [12]

Se è già difficile per uno studente comprendere il concetto di composto, è evidente che una trattazione di questo tipo riesce non solo a confondergli le idee ma lo porta a concezioni decisamente errate. Dal punto di vista fenomenologico, che è quello meno lontano dalle concezioni di senso comune, la distinzione tra miscele e composti è epistemologicamente fondamentale. Nella vita quotidiana si utilizza il termine “composizione” anche per le miscele eterogenee e quelle omogenee, come le soluzioni, per le quali il termine scientificamente più appropriato sarebbe concentrazione, e la differenza fenomenologica fondamentale è che mentre i composti hanno composizione fissa e definita, le miscele hanno composizione variabile e indefinita.

Sul piano didattico, l’importanza della legge di Proust non risiede essenzialmente nel fatto che permette di mantenere vivo il ricordo di un personaggio importante per lo sviluppo della chimica, [13] quanto nel completare il concetto di sostanza composta con l’introduzione di una proprietà, la composizione definita – carica di teoria e tutt’altro che percettiva – che permise di stabilire se un materiale era una sostanza composta o un miscuglio solido. Si tratta di una caratteristica fondante dei composti, nonostante l’apparenza spesso mostri l’opposto. Nella realtà, molti composti sembrano avere composizione variabile, al pari delle miscele e delle soluzioni: ad esempio, le leghe ed i vetri che cosa sono? Questi hanno composizione variabile. Il concetto contemporaneo di composto è alquanto complesso e si deve a Lavoisier, il padre della chimica come scienza, la sua fondazione qualitativa. Furono poi necessari circa 30 anni per la sua compiuta definizione formale, per la sua caratterizzazione quantitativa. E ciò non perché Lavoisier non disponesse della composizione quantitativa di molti composti, ma per il fatto che mentre alcuni manifestavano una composizione fissa, altri sembravano averla variabile.

È famosa la controversia tra Proust e Berthollet. Il secondo rimproverava al primo la generalizzazione, il sostenere cioè che “tutti” i composti, e non soltanto “molti”, avessero composizione fissa e definita. Però la genialità dell’intuizione di Proust sta nell’aver appunto affermato che “tutti i composti hanno composizione fissa e definita”. Come tutte le grandi ipotesi scientifiche, quella di Proust, quando venne pubblicamente formulata nel 1800, era tutt’altro che confermata; vi erano anzi molti fatti sperimentali che sembravano confutarla. La legge di Proust dopo alcuni anni venne assunta come una delle leggi fondamentali della chimica.

Ma in che cosa consiste l’importanza di una legge? Vediamo alcuni aspetti. Innanzitutto, una legge è importante perché afferma l’esistenza di una determinata regolarità: la legge di Proust definiva in modo rigoroso i composti e forniva un criterio per individuarli. In secondo luogo, perché spesso la nuova regolarità solleva altri interrogativi: nel caso della legge in oggetto, molti chimici iniziarono a chiedersi perché dalla combinazione degli elementi tra loro si ottenevano generalmente pochi composti (2, 3, 4) e per di più con composizione fissa. La risposta a questi interrogativi sarebbe venuta pochi anni dopo con la teoria atomistica di Dalton che avrebbe poi conferito alla chimica, nell’arco di alcuni decenni, capacità esplicative e predittive inimmaginabili. In terzo luogo, perché una legge rende possibile la ricerca scientifica. Come direbbe Khun: i paradigmi rendono possibile la scienza normale [14]; dopo Proust, la determinazione della composizione quantitativa dei composti diventò un’attività centrale della chimica. Inoltre, tutti gli sviluppi teorici successivi furono possibili perché, nell’arco di pochi decenni, il perfezionamento o l’invenzione di nuovi strumenti per l’analisi quantitativa dei composti raggiunsero un tale sviluppo da permettere la determinazione accurata delle composizioni. Tutto ciò fu possibile grazie alla convinzione che le sostanze hanno composizione costante e che quindi, ad esempio, risultati più o meno diversi delle analisi dipendano non da una variabilità nella composizione delle sostanze, ma soltanto dall’incertezza dei dati sperimentali. Tale convinzione fornì anche un criterio operativo: quando i risultati di poche analisi (2-3) presentavano una dispersione contenuta entro margini di errore accettabili, la ricerca terminava e la composizione veniva semplicemente ricavata effettuando la media dei valori sperimentali.

4.3 – Il concetto di elemento

È stata concepita da molti secoli l’idea che la natura sia semplice e che la molteplicità delle sostanze esistenti sia riconducibile a poche sostanze elementari. Ma quest’idea è stata fino a due secoli fa soltanto un’idea metafisica, perché non vi erano ancora i presupposti concettuali e metodologici per potere individuare quali sostanze fossero effettivamente elementari. La teoria più antica era quella dei quattro elementi, ma nel corso dei secoli altre sostanze hanno avuto l’onore di assurgere al rango di materia prima. Tuttavia, ancora  nella seconda metà del Settecento, la maggior parte degli scienziati continuava a considerare elementi l’aria, la terra, il fuoco e l’acqua, come d’altra parte sembravano generalmente confermare dati percettivi e fenomenologici. E Lavoisier stesso fu in grado di proporre la nuova teoria degli elementi chimici solo dopo che ebbe dimostrato sperimentalmente che terra, aria, acqua e fuoco non lo erano. L’ostacolo maggiore fu rappresentato dall’acqua: nonostante l’idrogeno fosse stato individuato, da molti anni, come quel gas infiammabile che si ottiene, ad esempio, facendo interagire alcuni metalli con determinati acidi, e nonostante fosse già stata realizzata la sintesi tra idrogeno e ossigeno, l’acqua continuava ad essere percepita come un elemento.

Ecco cosa scrisse Lavoisier nel suo Trattato  di Chimica: Se, con il nome di elementi, intendiamo designare le molecole semplici e indivisibili che costituiscono i corpi, è probabile che non le conosciamo. Se, al contrario, associamo al nome di elementi o principi dei corpi l’idea del termine ultimo al quale perviene l’analisi, allora sono elementi tutte le sostanze che non abbiamo ancora potuto decomporre in alcun modo. [15]

Lavoisier diede dunque una definizione operativa di elemento, considerando tale ogni sostanza non ulteriormente scomponibile in sostanze più semplici. Nel contesto della chimica fenomenologica o macroscopica di Lavoisier, il termine elemento aveva il significato di sostanza semplice che non ha più nell’ambito della chimica microscopica  o interpretativa, dove sta ad indicare un determinato “tipo di atomo”. Infatti si parla di configurazione elettronica, affinità elettronica, elettronegatività, numeri di ossidazione degli elementi ed è chiaro che, con tali espressioni, non ci si riferisce alle sostanze semplici.

Se si consultasse un dizionario che cosa si troverebbe? Nel Devoto Oli troviamo la seguente definizione:

Elemento – Sostanza semplice, pura, che prima della scoperta della radioattività si riteneva non suscettibile di decomposizione con metodi chimici e fisici; secondo gli antichi: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra erano i quattro elementi costitutivi del mondo fisico… nella chimica odierna, sostanza pura in cui gli atomi costituenti hanno eguale il numero e la disposizione degli elettroni.  

Questa definizione è un esempio illuminante di come possano essere mescolati i due livelli di descrizione del mondo di cui si avvale la chimica: quello macroscopico, delle sostanze e quello microscopico, degli atomi. Questo avviene perché in entrambi si continua ad usare lo stesso termine  – elemento – ma con significati profondamente diversi. Soltanto chi possiede conoscenze significative di chimica è in grado di comprendere, in base al contesto, quale significato assuma il termine elemento; ma per gli studenti l’ambiguità che lo accompagna ha sempre gravi conseguenze, in quanto è la causa dell’instaurarsi di concezioni difformi che rendono più problematico l’apprendimento della chimica.

Inoltre si può arrivare a conclusioni assurde, come mostrano queste citazioni ricavate da un libro di testo di chimica:

·         Una miscela è costituita da due o più sostanze che possono essere separate mediante procedimenti fisici.

·         Una sostanza pura è definita come un corpo omogeneo, ogni porzione del quale possiede  specifiche proprietà fisiche e chimiche.

·         Si chiamano elementi le sostanze pure che non possono essere ulteriormente decomposte con procedimenti chimici.

·         Molti elementi consistono di miscele di isotopi

Come può un elemento essere contemporaneamente una sostanza pura ed una miscela? Il fatto è che una sostanza pura che non può essere ulteriormente decomposta con procedimenti chimici non è un elemento, ma è costituita da un unico elemento. Quando si prende la sostanza semplice mercurio e la si fa reagire con la sostanza semplice ossigeno, si ottiene un composto chiamato ossido di mercurio. Si dice allora che quest’ultimo è formato dall’elemento mercurio e dall’elemento ossigeno e non che contiene la sostanza semplice mercurio e la sostanza semplice ossigeno, perché le proprietà di queste ultime sono completamente scomparse. Ciò che cade sotto la nostra percezione sono le sostanze semplici ed i composti che otteniamo da queste. Gli elementi non sono oggetto della nostra percezione in quanto si tratta di entità, in un certo qual modo, teoriche per cui il concetto di elemento può essere costruito solo nell’ambito dei modelli e delle teorie microscopiche. 

Tutte queste riflessioni costituiscono il fondamento della mappa concettuale della figura 1.

                                                           /fig. 1/

5 – I GAS

 I gas rappresentano lo stato della materia più complesso psicologicamente, ma più significativo per la comprensione del pensiero chimico. Una traccia della sua significatività è rimasta nella trattazione manualistica, perché generalmente ai gas viene dato uno spazio molto più ampio rispetto ai solidi e ai liquidi. Ma la trattazione usuale è insignificante rispetto alla comprensione della chimica. Le proprietà fisiche dei gas sono diventate un capitolo del manuale di chimica che tratta un argomento specifico, non connesso al resto. Non si capisce più perché va affrontato anche all’interno della chimica, visto che viene sviluppato negli stessi termini nel manuale di fisica.

Ma quale maggiore complessità psicologica! Un chimico esperto potrebbe affermare che i gas costituiscono lo stato più semplice della materia; la teoria cinetica dei gas ci dice che i gas sono costituiti da particelle piccolissime che si muovono all’infinito senza attirarsi tra loro. Quale splendida semplicità ci offrono i gas rispetto a tutte quelle interazioni che si verificano, invece, nei liquidi e nei solidi!

Abbiamo affermato che lo stato gassoso è quello più complesso psicologicamente, non riferendoci ovviamente alla sua trattazione specialistica, ma alla sua prima individuazione  nella scuola di base come un modo di presentarsi della materia. È infatti molto diffusa tra gli allievi l’idea che i gas non abbiano peso, ossia non siano costituiti di materia, costruita a partire da una falsa evidenza e cioè dall’osservazione che i palloncini gonfiati con un gas tendono a sfuggire verso l’alto. La maggior parte degli allievi della scuola elementare pensano, sulla base di questi dati percettivi, che quanto maggiore è la quantità di gas immessa in un palloncino, tanto minore è il suo peso.  Riteniamo che mentre la concettualizzazione fenomenologica dei liquidi e dei solidi potrebbe avvenire alla fine della scuola elementare, quella dei gas possa realizzarsi soltanto nel secondo o terzo anno della scuola media. Ciò non significa che precedentemente non si possano effettuare esperimenti nei quali siano coinvolti dei gas, come aria, vapore acqueo, ecc.  Ma è cosa ben diversa concettualizzare lo stato gassoso, comprendere, cioè, alcune caratteristiche distintive di questo stato della materia che possano permettere di definirlo. La definizione di per sé non ha, per lo studente, nessun significato.

Un passo ulteriore per comprendere le proprietà dei gas sono gli esperimenti che fanno riferimento alle scoperte di Torricelli e di Boyle. Qui ci troviamo di fronte, di nuovo, ad un salto concettuale che può essere affrontato soltanto nel biennio della scuola secondaria superiore. Infatti tutti i concetti implicati, da quello di pressione a quello di elasticità dell’aria fino al rapporto di proporzionalità inversa tra volume e pressione, rappresentano degli ostacoli epistemologici: dalla paura aristotelica del vuoto, si passa ad una relazione quantitativa tra due grandezze dell’aria.

La fondamentale importanza dei gas per il pensiero chimico ha inizio a questo punto. Come per l’umanità, anche per lo studente l’acqua e l’aria hanno un ruolo particolare, rappresentano il prototipo rispettivamente dei liquidi e dei gas, con, tuttavia, una differenza fondamentale: mentre altri liquidi sono presenti nella vita quotidiana, gli altri gas non sono oggetto di percezione. In realtà, lo studente assimila precocemente alcuni nomi di gas, quali ossigeno, azoto, anidride carbonica, metano, ecc., ma queste sono solo parole cui non corrisponde nessun concetto: il concetto spontaneo di gas è un non concetto in quanto non vi è associato, neppure per il prototipo, nessuna caratteristica distintiva. Le proprietà dell’aria connesse ai nomi di Torricelli e Boyle sono tutt’altro che autoevidenti. Basta ricordare che Galileo stesso, nonostante avesse affrontato il problema, continuò a ragionare in termini di paura del vuoto.

La comprensione di queste proprietà dell’aria costituisce il prerequisito per costruire la generalizzazione dello stato gassoso, per potere comprendere ed osservare altre arie (altri gas). Inizialmente furono chiamate arie, volendo con ciò intendere che erano fisicamente simili all’aria ma chimicamente diverse. Vi è una rilevante asimmetria: mentre lo stato solido e liquido sono sempre stati percepiti dall’umanità, lo stato gassoso ha iniziato ad esistere solo recentemente, a partire dagli inizi del Settecento. Fenomeni ed esperimenti nei quali erano implicati gas erano conosciuti dall’antichità, ma i gas sfuggivano all’osservazione, alla percezione diretta. Le scoperte di Torricelli e Boyle furono possibili grazie all’invenzione di particolari dispositivi che permettevano di “vedere” l’aria, e di poterla osservare in modo talmente accurato da poterne misurare alcune proprietà. Lo strumento fondamentale è ovviamente quello di Torricelli che permette di racchiudere l’aria e di conoscerne la pressione semplicemente misurando un dislivello.

Lo strumento di Torricelli diventerà un secolo dopo, per tutto il Settecento, lo strumento fondamentale della chimica, l’equivalente per la chimica di ciò che fu il microscopio per la biologia e il cannocchiale per l’astronomia. Venne chiamato bagno pneumatico, ed in genere si utilizzava acqua al posto del mercurio.  Rispetto agli altri due strumenti citati è particolarmente banale, e probabilmente come dispositivo in sé era già conosciuto da molto tempo, ma diventò uno strumento scientifico significativo solo dopo che Torricelli l’ebbe usato per confermare le sue ipotesi; assurse poi al ruolo di “microscopio” della chimica, soltanto dopo che Hales iniziò ad utilizzarlo in modo insolito, per raccogliere le arie che si producevano in seguito a trasformazioni chimiche.

Utilizzato in questo modo, il bagno pneumatico permise, nell’arco di cinquanta anni, di iniziare a popolare di alcuni individui lo stato gassoso. Black scoprì un’aria più pesante dell’aria atmosferica ed incapace di mantenere la combustione e la respirazione. La ottenne dalla decomposizione del calcare o più semplicemente dalla reazione tra un acido e calcare; non era altro che diossido di carbonio (anidride carbonica). Black la chiamò aria fissa, volendo così intendere quell’aria contenuta nel calcare; venne chiamata anidride carbonica ottanta anni dopo, quando si capì che era un composto acido di carbonio ed ossigeno.  Alcuni anni dopo le ipotesi di Black, si scoprì che da un altro tipo di reazioni note da secoli, quelle tra acidi e metalli non nobili, si otteneva un’aria infiammabile, molto più leggera dell’aria, che venne successivamente chiamata idrogeno, quando ci si rese conto che era uno dei due componenti dell’acqua.

Il bagno pneumatico permise, da una parte, di scoprire il terzo stato di aggregazione della materia, quello gassoso, e dall’altra, di sviluppare la chimica delle arie. Di ventò, cioè, possibile osservare in modo completamente nuovo innumerevoli trasformazioni chimiche, note da secoli o millenni,  quali, ad esempio, la calcinazione del calcare. Questa è stata fin dall’antichità una reazione particolarmente importante, perché permetteva di ottenere la calce, un legante utilizzato nelle costruzioni. Si sapeva che occorreva riscaldare il calcare in modo energico, in apposite fornaci, e che la resa era circa del 50 % in peso. Solo verso la metà del Settecento si comprese  che questa trasformazione consiste nella decomposizione del carbonato di calcio in calce ed anidride carbonica:

carbonato di calcio    ¾¾¾¾¾¾®    calce + aria fissa (anidride carbonica)

Mentre prima essa veniva semplicemente descritta in questi termini:

carbonato di calcio   ¾¾¾¾¾¾®     calce

L’apparenza coincideva con la realtà. La consistente diminuzione di peso non rappresentava un problema. Vi erano molte altre trasformazioni chimiche di questo tipo; ve ne erano poi altre in cui il peso sembrava aumentare. Ne era stata quindi tratta la conseguenza di annoverare il peso tra le altre proprietà delle sostanze e di considerare le trasformazioni chimiche come quelle magie in cui da certe sostanze se ne ottenevano altre con proprietà completamente diverse, compreso il peso.

La conservazione del peso è un concetto complesso anche sul piano psicologico, come è stato messo in evidenza dalle ricerche piagetiane. Queste hanno infatti mostrato il divario  esistente nella comprensione, da parte dei bambini, della conservazione del peso, in semplici trasformazioni di forma. Nei classici esperimenti di riduzione di palle di plastilina alla forma di una schiacciatina o di un salame, si constata una sfasatura di circa due anni tra l’acquisizione della conservazione della sostanza e quella del peso ( e di altri due anni con quella del volume) [16]. Di complessità psicologica superiore è il problema della conservazione nel caso di trasformazioni fisiche, dove spesso il comportamento del volume non è più solidale con quello della sostanza e del peso. Infine, ci troviamo di fronte ad un vero ostacolo epistemologico nel caso delle trasformazioni chimiche nelle quali è proprio la sostanza che non si conserva.

6 – IL SIGNIFICATO DEGLI STRUMENTI SCIENTIFICI NELL’APPRENDIMENTO

Parlando della scienza moderna si sottolinea giustamente il ruolo fondamentale degli strumenti scientifici: essi hanno permesso infatti di osservare la natura in un modo molto più efficace, facendo vedere cose inimmaginabili alla percezione diretta. Gli esempi ai quali si ricorre sono sempre quelli del microscopio e del cannocchiale; tuttavia se si analizza lo sviluppo di una qualsiasi disciplina scientifica, ed in particolare della chimica e della fisica, si osserva costantemente uno sviluppo parallelo di nuovi concetti e di nuovi strumenti. La più ovvia caratteristica del sapere scientifico è che può essere applicato, che grazie ad esso nuove cose diventano possibili: questo nuovo campo viene di solito indicato con il termine “tecnologia”. Quindi la scienza include la tecnologia, tanto è vero che sta imponendosi il termine tecnoscienzaper indicare quell’insieme di pratiche sociali che portano alla produzione del sapere scientifico. Si può effettivamente comprendere, come afferma Geymonat, il nesso inscindibile di teoria e tecnica: da una parte, sono gli strumenti che permettono di conferire realtà alle più ingegnose congetture scientifiche, dall’altra sono le teorie e le ipotesi che spesso guidano l’invenzione ed il perfezionamento degli strumenti. [17]

Nel caso della chimica, il rapporto tra scienza e tecnica è molto stretto e questo imporrebbe di usare il laboratorio in modo significativo dal punto di vista cognitivo: vale a dire soprattutto per mettere alla prova congetture e previsioni formulate dagli studenti nel corso dello studio di questa disciplina. Purtroppo le cose non stanno così: il laboratorio è raramente utilizzato, e quando è impiegato sistematicamente, come avviene negli istituti tecnici e professionali, quasi sempre si riduce essenzialmente all’addestramento a determinate tecniche di analisi. Vi è una totale separazione tra i due campi della teoria e della pratica: da una parte, le conoscenze chimiche, la teoria; dall’altra, la pratica, la tecnica intesa come attività di routine, standardizzata.

In un insegnamento centrato sulla comprensione, teorie e concetti, tecniche e strumenti devono essere, invece, riaggregati, perché il significato si realizza circolarmente dagli uni agli altri. In questo modo, anche nell’apprendimento gli strumenti scientifici possono svolgere il ruolo cognitivo che loro compete, quello di strumenti indispensabili per la costruzione e comprensione di molti concetti scientifici. Già Bacone aveva compreso la fondamentale importanza cognitiva degli strumenti: “Non la sola mano, o l’intelletto in sé possono sussistere; tutto si compie mediante gli strumenti e i mezzi ausiliari”. Vygotskij e Bruner hanno ripreso tutto ciò nella prospettiva della loro psicologia culturale e sociale. [18]

7 – I  CONCETTI FONDAMENTALI DELLA CHIMICA  

Durante il Settecento nasce lo stato gassoso che si popola man mano di gas aventi la caratteristica di essere chimicamente attivi. Questo concetto costituisce un’altra rottura epistemologica, perché il prototipo dei gas, l’aria, era nel Sei-Settecento concepito come chimicamente non attivo. La chimica delle arie rappresentò la condizione necessaria, seppur non sufficiente, della scoperta geniale dei principi della chimica, avvenuta negli ultimi decenni del Settecento per opera di Lavoisier.

Anche a bambini di sette-otto anni si insegna che l’aria è costituita di ossigeno ed azoto. Inoltre, precocemente viene loro insegnato che dalla combustione e dalla respirazione si produce anidride carbonica ed acqua, e che per fortuna esiste nelle piante la fotosintesi clorofilliana che utilizza la scarto della combustione, l’anidride carbonica,  per produrre ciò che permette loro di vivere e di svilupparsi. Questi sono indubbiamente fenomeni di grandissima rilevanza, ed è una preoccupazione educativa condivisibile quella che essi siano conosciuti da tutti gli studenti. Quindi, a maggior ragione, essi non devono essere trattati come barzellette: non sono, infatti, fenomeni che possano essere direttamente osservati; ma possono essere compresi soltanto all’interno di quadri teorici troppo complessi per la scuola di base.

Provate con studenti di quattordici-quindici anni, ed anche con studenti di diciotto-diciannove anni, iscritti nelle varie facoltà universitarie, a verificare, effettuando esperimenti di combustione, che cosa pensano che succeda. Molteplici ricerche hanno evidenziato l’inconsistenza dell’insegnamento scientifico formale prematuro e la persistenza di concezioni prelavoisieriane: le combustioni sarebbero quelle trasformazioni in cui certi materiali, consumandosi, producono luce e/o calore. Le combustioni avverrebbero quindi con sparizione di materia e con consistente diminuzione di peso. Anche in questo caso, l’apparenza viene presa come realtà; essa è infatti un’apparenza percettiva solida, consistente, reale, e comunque più convincente delle chiacchere nozionistiche scolastiche. [19]

Anche qui ci troviamo di fronte ad un significativo ostacolo epistemologico, legato probabilmente alla concezione fortemente radicata della natura non materiale dei corpi aeriformi, che non può essere aggirato con il solito approccio astratto, definitorio, frettoloso; può essere risolto con un salto nella comprensione, se viene affrontato nel biennio ( e non prima) mettendo in relazione le concezioni spontanee degli studenti con il contesto problematico che ha permesso il passaggio dalle concezioni prescientifiche a quelle attualmente accreditate. Vi è un anno, il 1772, che viene indicato come spartiacque tra la chimica prescientifica e quella scientifica: in quell’anno Lavoisier formulò l’idea che durante la combustione si ha la combinazione con l’aria. Sentiamo le sue parole: “Sono circa otto giorni che ho scoperto che lo zolfo, bruciando, invece di perdere peso, al contrario ne acquista (…) Questo aumento di peso deriva da una quantità prodigiosa di aria che si fissa durante la combustione (…) Questa scoperta m’ha fatto pensare che ciò che osservavo nella combustione dello zolfo e del fosforo avrebbe potuto aver luogo con tutte le sostanze che acquistano peso con la combustione e la calcinazione”.

Nei quindici anni successivi, Lavoisier si dedicò ad un programma di ricerca finalizzato alla conferma ed all’approfondimento di queste ipotesi, avendo egli fin dall’inizio intuito la loro portata rivoluzionaria. Il chimico francese, reinterpretando completamente, alla luce della sua ipotesi, le scoperte sperimentali di molti altri chimici (quali Priestley), elaborò i principi basilari della scienza chimica, tra i quali occupa un posto di grande rilievo il Principio di conservazione del peso. Lavoisier aveva intuito che doveva operare  in recipienti ermeticamente chiusi, che impedissero il passaggio dell’aria. Operare in questo modo era completamente innaturale, anche per il rischio di esplosione nel riscaldamento ad alte temperature di recipienti di vetro chiusi. Vediamo le considerazioni di Lavoisier: “Ecco il ragionamento che ho fatto a me stesso: se l’aumento di peso dei metalli calcinati nei recipienti chiusi è dovuto, come pensava Boyle, all’addizione delle sostanze della fiamma e del fuoco che penetrano attraverso i pori del vetro e che si combinano con il metallo, ne consegue che: se dopo aver introdotto una quantità conosciuta di metallo in un recipiente di vetro, ed averlo chiuso ermeticamente, se ne determina esattamente il peso; se si procede poi alla calcinazione per mezzo del fuoco dei carboni, come ha fatto Boyle; ed infine se si ripesa lo stesso recipiente dopo la calcinazione prima di aprirlo, il suo peso deve trovarsi aumentato di tutta la quantità della sostanza del fuoco che si è introdotta durante la calcinazione. Se, al contrario, mi sono detto ancora, l’aumento di peso della calce metallica non è dovuta alla sostanza del fuoco né di alcuna sostanza esterna, ma alla fissazione di una porzione di aria contenuta nel volume del recipiente, il recipiente non dovrà essere più pesante dopo la calcinazione di prima, dovrà solamente trovarsi in parte vuoto di aria, e non è che al momento in cui la porzione di aria mancante sarà entrata che l’aumento di peso del recipiente dovrà aver luogo”.

È con esperimenti di questo tipo, condotti in recipienti chiusi, che Lavoisier fu in grado di            iniziare a confermare due principi basilari della chimica:

1)               il principio della conservazione del peso nelle trasformazioni chimiche;

2)               la combustione e la calcinazione dei metalli sono due fenomeni che avvengono con combinazione con l’aria.

Dopo queste scoperte, il peso, che fino ad allora era stato considerato una proprietà della materia di scarsa rilevanza teorica per la chimica, diventò la variabile più importante della scienza chimica e la bilancia divenne lo strumento fondamentale.

Anche per la chimica, come già era avvenuto nel secolo precedente per la fisica, il superamento della fase prescientifica si realizzò con l’individuazione di concetti quantitativi, sulla base di un principio quantitativo, il principio di conservazione del peso. Anche per la chimica, la matematizzazione costituì il passaggio decisivo, ma fu una matematizzazione deludente per chi era ormai abituato ai sublimi vertici matematici cui era pervenuta la fisica con la meccanica razionale. Questa disciplina aveva, infatti, raggiunto una tale perfezione da essere considerata fino ad Enstein  la vera descrizione del mondo. Aveva conseguentemente assunto il ruolo di modello della razionalità scientifica, rispetto al quale giudicare le altre scienze. Il riduzionismo imperante non ha permesso per molto tempo di cogliere la sublime semplicità del inguaggio matematico della chimica classica, costituito essenzialmente dalle quattro operazioni e dalle proporzioni, e che ha, a nostro parere, implicazioni pedagogiche di grande rilevanza.

La chimica, come è usualmente insegnata, ossia facendo riferimento a teorie e modelli microscopici, è troppo complessa, ed esige dall’allievo il possesso di solide basi di tipo fisico. Di conseguenza, se il ruolo formativo della chimica coincidesse con le teorie chimiche del Novecento, nella disputa che dura da decenni tra chimici e fisici sullo spazio da attribuire all’una e all’altra nella scuola secondaria superiore, non ci potrebbero essere dubbi (a parte le richieste di tipo corporativo): alla fisica andrebbe assegnata una collocazione centrale, mentre alla chimica verrebbe attribuito un ruolo di secondo piano, relegandolo negli anni terminali della scuola secondaria superiore.

Se invece si attribuisce il giusto valore, epistemologico e culturale, alla chimica macroscopica, la situazione risulta radicalmente diversa. Si giustifica allora l’insegnamento della chimica nei primi anni della scuola secondaria superiore, in quanto i formalismi matematici necessari per comprendere le leggi classiche della chimica sono di un livello più che elementare rispetto a quelli della fisica. Infatti, la matematizzazione delle leggi classiche della chimica è sostanzialmente riconducibile, come si è detto, alle quattro operazioni ed alle proporzioni.

 A parere di Lavoisier, la teoria più importante ereditata dai chimici delle generazioni precedenti era la gerarchia composizionale esistente tra sali, acidi e basi

SALI

ACIDI                                          BASI

Conseguenza immediata della scoperta del 1772, che Lavoisier fu in grado di confermare negli anni successivi, fu il completamento di questo schema composizionale con l’aggiunta dei metalli e dei metalloidi:

SALI

ACIDI                                          BASI

                                     METALLOIDI                                     METALLI

I metalli e altre sostanze, quali lo zolfo, il fosforo ed il carbonio risultarono più semplici degli acidi, delle basi e dei sali. Anche quasi tutti i metalli non si trovano in natura sotto forma di sostanze semplici. Essi hanno svolto un ruolo importante nella vita degli uomini fin dall’antichità,  cioè fin da quando fu inventata la tecnica che permetteva di ricavarli in fornaci potenti, a partire da minerali opportuni e carbone. I metalli erano il risultato della combinazione di determinati minerali e carbone; apparentemente risultavano meno semplici dei minerali da cui erano ricavati. Però, con la teoria dell’ossigeno, Lavoisier  fu in grado di mostrare il contrario, mettendo in evidenza, ad esempio, che le calci metalliche erano composti di metallo ed ossigeno.

Trascorsero, tuttavia, circa altri dieci anni prima che essi assurgessero al ruolo di sostanze semplici. Lavoisier dovette, infatti, sia cercare di confermare il più possibile che essi non fossero ulteriormente decomponibili, sia, come abbiamo già detto, fare i conti con la teoria dei quattro elementi. Soltanto nel 1787 formulò l’ipotesi, allora rivoluzionaria, di elemento chimico come sostanza semplice. Da idea metafisica quale era per Aristotele ed i suoi epigoni, Il concetto di elemento chimico, inteso come sostanza semplice, diventava un concetto operativo: doveva essere considerato elemento ciò che resisteva all’analisi chimica, e, in principio, non avrebbe potuto mai esserci la certezza che si fosse individuata la tecnica di analisi sufficiente. Benché egli pensasse che non si trattasse di sostanze semplici, Lavoisier introdusse nella sua Tavola degli elementi chimici anche alcune sostanze (calci metalliche) che sarebbero poi state decomposte successivamente.

Il concetto di sostanza, quelli collegati di sostanza semplice e composta e il concetto di elemento non sono concetti autoevidenti, naturali, che possano essere assunti nell’insegnamento come assiomi. Sono concetti che devono essere costruiti a partire dalle conoscenze di senso comune degli studenti, connesse a fenomenologie chimiche elementari. È necessario un lungo percorso nella scuola di base e nel biennio, con un’impostazione prima di tipo fenomenologico e  operativo, poi di carattere problematico e contestuale. Nella scuola di base si può arrivare fino al concetto empirico di sostanza, che va poi ulteriormente approfondito; la distinzione, invece, tra sostanza semplice e composta va costruita nel biennio, perché con questi concetti si realizza un salto di tipo epistemologico: non sono, infatti, concetti di tipo categoriale, ma di tipo formale, elaborati con processi mentali relativi non ad oggetti, ma ad idee, e quindi la loro comprensione non è legata né a esperimenti ingenui, né a definizioni. Infine si potrà costruire il concetto di elemento nell’ambito dei modelli esplicativi che fanno riferimento alla teoria atomica.

I concetti di sostanza semplice e composta sono strettamente interrelati ad altri concetti chimici fondamentali, quali quelli di bagno pneumatico, gas, sistema chimico chiuso, principio di conservazione del peso, ruolo dell’ossigeno, e gerarchia composizionale del mondo inorganico. Si tratta di concetti che possono essere compresi soltanto se si ricostruisce la rete delle relazioni che li connette a tutti questi altri concetti. Questi ultimi si incontrano prima o poi anche nell’insegnamento usuale della chimica, ma in modo atomistico e acontestuale. Invece la comprensione degli uni e degli altri è solidale, e risiede nelle relazioni che li connettono. Un concetto potrà poi acquisire per lo studente un significato di carattere generale, ma questo è un punto d’arrivo e non di partenza: quest’ultimo sta sempre nell’elaborazione del concetto in situazioni specifiche, caratterizzate da contesti specifici.

BIBLIOGRAFIA

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Didascalia della figura

Figura 1 – Una mappa concettuale di alcuni concetti fondamentali della chimica