Identità e Memoria

Nei primi anni della scuola elementare, la memoria, intesa come ricordo autobiografico e familiare che parte dal bambino, costituisce una fonte primaria di straordinaria importanza. Non soltanto per un lavoro di ricostruzione della storia personale e familiare, ma per il rafforzamento dell’identità individuale.

La nostra memoria costruisce la nostra identità di persone viventi in un contesto sociale, stabilisce le coordinate di spazio e tempo che definiscono storicamente la nostra vita, ci consente di progettare il futuro.

La ricchezza della memoria è ricchezza di significati che utilizziamo nel presente, per essere in grado di pensare noi stessi nel futuro.

E’ anche per questo che la ricostruzione della propria autobiografia, inserita cronologicamente su una linea del tempo che rappresenta la vita di ciascun bambino, costituisce un lavoro che si basa su motivazioni affettivamente profonde, oltre a permettere un approccio corretto ai concetti di base della disciplina.

Raccontare le proprie storie e quelle dei propri familiari significa anche dare parole ad alcuni pezzetti della nostra vita: è una storia interiore che esce all’esterno, e rientra di nuovo dentro di noi con la coscienza delle parole. E’ la costruzione di un’autobiografia che manipola ed organizza i ricordi, componendoli, cancellandoli o modificandoli.

Col passare degli anni, da adulti, spesso la memoria si confonde con l’immaginario, anzi, ne diviene l’archivio dal quale estrarre le immagini da comporre. I ricordi vengono mescolati e costruiti per dar luogo, lentamente, ad una memoria che non è più totalmente fedele alla realtà che è stata, ma ai significati che ci spingono a ricordare, quelli che il tempo ha modellato dentro di noi. Così, il desiderio di significati si confonde con la memoria, ed è ciò che ricordiamo a conferire senso a ciò che viviamo.

Raccontare una porzione della nostra vita può deformare i personaggi, cambiare la successione delle immagini, collocarsi in una dimensione quasi senza tempo. Allora l’immaginario prevale sulla memoria, ed il ricordo diviene enunciazione di significati e desideri.

Questo accade a noi adulti in modi più o meno complessi e profondi; accade però anche ai ragazzi, sia per ciò che ricordano sia per quello che viene raccontato loro dai grandi. Quando i bambini tracciano sulla linea del tempo personale gli eventi che hanno caratterizzato la loro vita, non è infrequente che essi dimentichino la nascita del fratellino.

Non tralasciano niente, invece, di tutte le “disgrazie” capitate: cadute dai luoghi più disparati che hanno reso necessario l’intervento del pronto soccorso; l’essersi smarriti in boschi occasionali – il mercato ed i grandi magazzini sono i più frequenti – con conseguente affannosa ricerca da parte del babbo o della mamma. Queste disgrazie hanno, come comune denominatore, una certa dose di negligenza da parte dei genitori, i quali prima si distraggono e dopo, quando il bambino si è fatto male o si è perduto si preoccupano e si angosciano. E ciò che il bambino domanda, quando il genitore racconta questi fatti è: “E tu che facevi? Cosa pensavi?”

Per tutti noi esistono luoghi in cui abita il nostro immaginario, con dentro le paure e le sicurezze della nostra infanzia e adolescenza; quegli spazi dove abbiamo vissuto le nostre esperienze e costruito la nostra parte di memoria collettiva.

Veder cambiare quei luoghi è come non dar più una casa alla nostra memoria. Lei, variabile, ha bisogno di vivere in luoghi costanti.

Qualche volta, quando vediamo il mutamento dovuto al degrado urbano ed ambientale, diventa preferibile non guardare, non rivisitare. Allora la memoria abita dentro se stessa, ricostruendo nel ricordo il luogo stabile dove l’immaginario dimora.

Scriveva Georges Perec, uomo a cui la guerra ed il nazismo tolsero – bambino piccolissimo – radici e memoria: “vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti. Il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti…

Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo. (…) Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi”.[1]

Oggi i bambini hanno molti spazi che riempiono il loro tempo: la palestra, gli allenamenti del calcio, la scuola di danza, di musica, di inglese; la quantità giornaliera di televisione e di videogames.

Ma si è verificata una progressiva riduzione di quegli spazi che, nel quartiere, costituivano i luoghi dei giochi, il riferimento quotidiano degli incontri che consentivano ai bambini di fare esperienze insieme. Questi spazi sono stati ridotti e modificati dal tempo e da un modello di sviluppo; quelli rimasti sono sempre più pericolosi; la scuola di danza, il calcio, la palestra, sono i luoghi che li hanno sostituiti.

Ma sono spazi dove il tempo è organizzato da attività stabilite, ed i rapporti tra bambini, mediati dalle esigenze dell’adulto, non sono quelli costruiti dall’immaginario del gioco. E soprattutto l’aver troppo da fare, o il fare troppe cose, limita pian piano la capacità di fare esperienza, che è capacità di costruire una memoria condivisa con gli altri.

Oggi i bambini ricordano poco, ed i genitori si preoccupano poco di aiutarli a ricordare. La memoria sembra divenuta inattuale, accessoria, superflua.

Nella mia scuola, in più classi ed in più anni, abbiamo constatato che molti genitori non avevano conservato quasi niente degli oggetti (vestitini, giocattoli) appartenuti ai bambini; ed anche che i ragazzi conoscevano pochissime storie relative a se stessi da piccoli ed al passato della loro famiglia.

Insomma, avevano poco da ricordare e poco da raccontare.

La povertà della memoria, riducendo il passato, dilata il presente della nostra vita: il bisogno di significati che inevitabilmente abbiamo viene proiettato sulla quotidianità, sulle cose materiali o sulle cose da fare, sulla quantità di tutto ciò che riempie il nostro tempo ed il nostro spazio.

La visione del tempo e della vita che i bambini lentamente si costruiscono non ha mai solo aspetti soggettivi, è anche un fatto culturale ed educativo che dipende da come viviamo. In questo tempo, che dilata il presente e lo pianifica con cose, appuntamenti, avvenimenti, manca il tempo per raccontare, manca lo spazio per conservare i ricordi.

Noi insegnanti discutiamo spesso sul processo di accelerazione che caratterizza i comportamenti dei bambini che abbiamo a scuola oggi, rispetto a quelli dei cicli precedenti. Il bisogno che manifestano è quello di fare continuamente lavori differenti e brevi, insieme all’incapacità (al disagio) di stare molto tempo su uno stesso argomento per discuterlo ed analizzarlo, ascoltandosi reciprocamente.

E’ come se vivessero in un territorio sempre più ampio nell’estensione e sempre più sottile nella profondità.

La quantità delle informazioni che indubbiamente possiedono non si accompagna alla riflessione dell’approfondimento. Il ‘pieno’ e l’assenza di pause è ciò che li caratterizza.

Eppure sono proprio le pause che danno una scansione alla giornata; che permettono al pensiero di muoversi fra le cose che facciamo.

La scuola dovrebbe essere il luogo istituzionale in cui la lentezza e la profondità della riflessione si mettono accanto alla velocità e all’estensione del mondo in cui i bambini vivono, affinché sia reso intelligibile.

Oggi noi diciamo un po’ tutti che il tempo ha un’altra velocità, nelle trasformazioni che caratterizzano la nostra storia recente, rispetto alla generazione precedente la nostra (la generazione, per essere più precisi, dei nonni dei nostri allievi). Ciò vuole probabilmente dire che i modi di vivere consolidati, quelli che definiscono una struttura socioeconomica, hanno durate più brevi rispetto al passato.

Tutte queste brevi durate accostano, nelle città che viviamo, nelle nostre aree urbane e periferiche, innumerevoli segni ed innumerevoli possibilità di lettura dei cambiamenti: i segni del tempo. Il tempo di cui si dovrebbe acquisire il senso nella scuola elementare; i segni che si trovano nelle cose che ci circondano e che dovrebbero essere letti secondo determinate categorie.

I nostri semicentri e le nostre periferie sembrano sempre più somiglianti fra loro, anche se situati in luoghi molto distanti. Ce ne rendiamo conto quando ci spostiamo da una città all’altra, e guardiamo le cose alla velocità dell’automobile o del treno; tanto più somiglianti ci sembrano quanto più velocemente le percepiamo.

Occorre lentezza per riconoscere i dettagli, occorre fermarsi per osservare ciò che si è percepito; ma l’osservazione è il punto di partenza necessario alla riflessione.

Tuttavia la velocità non è solo quella, concreta, dei nostri spostamenti quotidiani o dei nostri impegni: diventa anche un modo di guardare alle cose. La sempre crescente difficoltà dei bambini a concentrarsi, a fermare l’attenzione su uno stesso contenuto per un tempo lungo, corre il rischio di divenire superficialità del pensiero, disabitudine alla fatica dell’approfondimento.

Il tempo a noi visibile non si sedimenta per strati verticali, i quali appartengono all’archeologia ed al passato remoto, ma, mi si passi il termine, per strati orizzontali. Questi non sono soltanto l’antico accanto al moderno, come avviene nei centri storici, nei vecchi borghi, o anche in ciò che costituiva il nucleo originario di un insediamento che poi si è espanso, ma che comunque resta riconoscibile come nucleo: questi luoghi sono in genere conservati e protetti. Nelle nostre periferie urbane, ma anche nei semicentri delle nostre città, il vecchio accanto al nuovo diventa molto spesso il residuo di qualcosa che si è logorato, che ha perso la sua funzione, che è anacronistico alle necessità del presente; ciò che per costruzione e funzione appartiene ad un altro modo di vivere, ad un’altra struttura socioeconomica.

La casa colonica in una zona protetta dalla speculazione edilizia viene ristrutturata, e diventa villa signorile. La casa colonica circondata da condomini dormitorio o capannoni industriali spesso viene demolita, perché perdendo la sua funzione, in quel contesto diventa qualcosa che ruba spazio, che è perciò meritevole di essere distrutta e sostituita.

Ci sono molti luoghi, nelle città in cui viviamo e lavoriamo, completamente modificati; luoghi in cui, in pochi decenni, niente è come era. I segni materiali non sono più visibili, sono irrimediabilmente cancellati.

Le nostre città ci raccontano comunque molte storie, anche se molto ci nascondono; ma perché  i segni visibili divengano fonti, occorre interrogarli: occorre che la riflessione muova a porre domande.

Quanto lontano arriva la nostra memoria familiare, costruita prevalentemente nell’infanzia e nell’adolescenza?

Quanto lontano arriva la memoria dei ragazzi che abbiamo oggi a scuola?

Passato individuale e passato collettivo sono vicini; la memoria familiare e sociale contiene quella personale.

Lo diceva esplicitamente Paul Fraisse, qualche decennio fa: “il nostro orizzonte temporale giunge a svilupparsi molto al di là delle dimensioni della nostra vita. Trattiamo gli eventi che ci fornisce il nostro gruppo sociale allo stesso modo in cui abbiamo trattato la nostra propria storia. L’una e l’altra peraltro si confondono: per esempio, la storia della nostra infanzia è quella dei nostri primi ricordi, ma anche quella dei nostri genitori, ed è a partire dagli uni e dagli altri che si sviluppa questa parte delle nostre prospettive temporali.”[2]

Questa idea arriva, in realtà, da molto lontano.

Jacques Le Goff, nel suo Storia e memoria, sottolinea come nel medioevo e nell’antichità, gli anziani fossero considerati uomini-memoria, chiamati anche a testimoniare sul passato, in controversie legali la cui origine risaliva a generazioni precedenti: la ‘memoria d’uomo’ andava quindi oltre la vita individuale; conteneva la memoria che padri e nonni avevano tramandato.

Le Goff riporta un brano di attualità straordinaria, che uno storico inglese scrive nel momento in cui termina il XII secolo: ciò che per noi è moderno, diceva Gautier Map giusto ottocento anni fa, è “la distesa di questi cento anni dei quali vediamo adesso il termine, e dei quali tutti gli eventi rilevanti sono ancora abbastanza freschi e presenti nelle nostre memorie, anzitutto perché i centenari sono ancora in vita, ma anche perché una quantità innumerevole di figli hanno, trasmessi loro dalla bocca dei loro padri e dei loro nonni, racconti certissimi di ciò che essi non han visto di persona.”[3]

Quanto questo è vero per noi, alla chiusura del XX secolo? Cosa appartiene a noi – noi che siamo sulla strada di considerare il fascismo ed il nazismo anacronismi senza più senso – di questi cento anni che ci hanno da poco lasciato?

Gli storici non amano definire un secolo in termini di pura cronologia:  lo caratterizzano a partire da interpretazioni sociopolitiche ed economiche. Ma una definizione di secolo a partire dall’idea di memoria l’ho trovata, bellissima, in un piccolo libro di Raymond Queneau, che storico non era.

Dice così: “Il secolo è per definizione la durata di un’esperienza umana collettiva. Concretamente, è il tempo (variabile) compreso tra un momento qualunque e il momento in cui muore l’ultimo degli uomini nati nel momento iniziale scelto.”[4]

Questa definizione l’ho compresa veramente solo un po’ di tempo fa, nel 1999, nel mese di febbraio. Provo a spiegare perché, anche se per farlo dovrò partire dalla mia memoria personale (ciascuno ha i propri riferimenti familiari e sociali così come ha un nome, un’identità).

Mio nonno Carlo, l’unico che ho conosciuto, era nato nel 1899, nel mese di febbraio (siamo nati lo stesso giorno, e questo per me bambina era un fatto molto speciale). Apparteneva all’ultima classe chiamata al fronte nella Grande Guerra. Ho ricevuto da lui, come diceva Gautier Map, ‘racconti certissimi di ciò che io non ho visto di persona’ (racconti che stridevano con la storia eroica e retorica che leggevo nel mio sussidiario degli anni ’60). La mia memoria oltrepassava di molti decenni la dimensione della mia vita individuale.

Dunque, nel febbraio del 1999 leggevo sul giornale che il Presidente della Repubblica aveva ricercato e rintracciato i ‘ragazzi del ‘99’ ancora in vita, per un omaggio di riconoscenza in vista della chiusura del secolo.

Erano rimasti quasi seicento.

Ed è allora che ho capito davvero il senso profondo della frase di Queneau.

Quando morirà l’ultimo di loro (e forse è già accaduto), l’ultimo di quegli uomini nati in quel “momento iniziale scelto”, sarà terminata la storia di un’esperienza umana collettiva: la convivenza di più generazioni come memoria che mantiene la possibilità di essere raccontata attraverso la parola.

Quanto lontano arriva la memoria dei bambini e dei ragazzi che stanno insieme a noi, oggi, a scuola?

Certo, la Storia non coincide con la memoria; la disciplina e le sue regole sono costruzioni organizzate in base a criteri e fondamenti di ordine epistemologico e metodologico. Ma questo costituisce il punto di arrivo, non di partenza, di un percorso che voglia dirsi formativo; un percorso in cui la riflessione pedagogica e la didattica gestiscano gradualmente i passaggi necessari tra campo d’esperienza, ambito disciplinare, disciplina.

Costruire memoria e identità deve rappresentare una finalità educativa sulla quale lavorare; la partenza di un percorso di formazione che renda consapevoli i ragazzi di stare dentro una Storia fatta di molte storie.

Sono formative le conoscenze che costruiscono, dentro di noi, qualcosa che ci farà dare senso e valore a ciò che ancora conosceremo. Questa ricerca parte dalla nostra storia, parte da chi siamo.

[1] Georges Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, 1989, pag. 110

[2] P. Fraisse, Psychologie du temps, P.U.F., Paris, 1967, p.170

[3] J. Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, TO, 1982, p. 372

[4] R. Queneau, Una storia modello, Einaudi, TO, 1988, p. 92