Categoria: Didattica delle Scienze
Perché le piante…
( Daniela Basosi )
Da diversi anni insegno matematica e scienze nella scuola media inferiore e nei frequenti contatti con colleghi delle medie e delle elementari ho verificato che tutto ciò che riguarda le piante è sempre meno considerato nella scuola di base e più si sale di età scolare, più la situazione peggiora.
L’unico argomento “verde” che gode di una certa popolarità a tutti i livelli scolari è la fotosintesi, che però, pur essendo un argomento importante, ha delle difficoltà oggettive per la sua comprensione non solo per i bambini della scuola dell’obbligo, ma anche per i ragazzi delle scuole superiori e sicuramente anche per molti adulti.(1)
Eppure i pochi studi sulle preconcezioni dei ragazzi sulle piante sono veramente sconfortanti.
Le piante spesso non sono considerate come esseri viventi, altrettanto frequentemente si crede che le piante non respirino o che non si riproducano. Se d’altra parte i ragazzi arrivano a credere che anche le piante per vivere respirano, esse lo fanno di notte, quando non avviene la fotosintesi.(2)
Gli alunni più grandi riescono spesso a dare una definizione lessicalmente corretta di fiore e ne conoscono le varie parti che lo formano, ma non lo collegano al frutto e al seme, ciò dimostra come essi non abbiano colto l’insieme pianta nella sua complessità e nel suo divenire, cioè la pianta come sistema complesso in cui abbiamo un insieme di parti che formano un tutt’uno, perché legate da relazioni . In altri casi fiore e frutto vengono apparentemente messi in connessione a parole in modo corretto, salvo poi ritenere che non hanno fiore piante di cui sicuramente si conosce il frutto, come l’olivo, la vite, il pomodoro o il grano.(3)
E su queste basi discutibili c’è chi pensa di costruire percorsi di educazione ambientale in cui le relazioni diventano ancora più complesse, in cui i sistemi, o meglio, gli ecosistemi si fanno assai più complicati per varietà degli organismi da considerare e per le connessioni che si determinano.
Naturalmente per noi docenti lavorare seriamente sulle piante presuppone di non essere legati alla scuola fatta solo sui libri, solo in questo modo possiamo sperimentare il loro profondo significato educativo come eccellente materiale di studio.
Liquidare le piante con poche esperienze sulla germinazione nella scuola elementare e con uno o due capitoli di sola teoria nella scuola media, dedicati spesso solo alle funzioni fogliari, poche ore di frettolosa spiegazione delle immagini presenti nel manuale, spesso prodotti al compiuter per simulare strutture cellulari microscopiche, per passare poi ad argomenti “più elevati” della biologia, non solo contribuisce a mantenere una profonda ignoranza su ciò che ci circonda e che è essenziale per la vita, ma priva anche i giovani di un terreno ricco di valore educativo fondamentale per la costruzione di conoscenze in biologia e non solo.
Ecco alcuni motivi per cui ritengo utile lavorare sulle piante in modo sperimentale, a più riprese e a lungo nella scuola dell’obbligo:
1) Esse offrono un ottimo materiale di studio, facile da reperire per condurre esperienze concrete di cui i giovani alunni fino a 14/15 anni hanno bisogno, per ancorare le conoscenze all’esperienza.
La miglior pedagogia degli ultimi venti anni ci dice che i ragazzi fino a 14-15 anni siano ancora molto ancorati al pensiero concreto e all’esperienza, d’altra parte “è fondamentale riuscire a collegare le strutture cognitive proprie dell’età con la struttura della disciplina”(4), dunque è fondamentale privilegiare nell’insegnamento una impostazione di tipo operativo, in cui il tempo di laboratorio e’ inteso soprattutto come attività significativa della mente che costruisce concetti all’interno di percorsi di ampio respiro.
Le piante soddisfano a tutte queste richieste, infatti sono presenti, visibili, disponibili pressochè ovunque e hanno cicli di crescita continui. Esse sono assai migliori per l’osservazione, per esempio, degli animali, per la semplicità con cui possono essere tenute anche a scuola, per la possibilità di osservarne parti anatomiche quali le gemme, i frutti ecc. senza causare mutilazioni “orrende”, possono essere toccate, spellate, tagliate, senza dare sensazioni di crudeltà o di raccapriccio, e, nello stesso tempo, possono creare un coinvolgimento emotivo positivo per l’apprendimento nella fascia d’età dell’obbligo.
Inoltre le piante hanno il grande pregio di avere una “architettura” relativamente semplice, perchè gli organi della loro anatomia ( foglie, gemme, fiori ecc.) sono per lo più esterni , eccetto le radici, mentre nell’uomo e negli animali sono per lo più interni.
Infine le osservazioni possono essere condotte con relativa facilità con l’aiuto di una buona lente, ma anche eventuali preparati microscopici sono semplici da comporre, perché visibili anche senza coloranti e senza complicate preparazioni. Osservare al microscopio con ragazzi delle medie qualche granulo di polline, un apice radicale o una fettina di foglia al naturale è sufficiente per mettere in evidenza cloroplasti, stomi , parete ecc.
Conoscere dunque gli organi di un albero, le loro funzioni e le trasformazioni in cui incorrono è il primo passo per affrontare successivamente la conoscenza di altri viventi.
2) Tutti concordano sull’importanza di sviluppare la capacità di osservare e di descrivere nei ragazzi della scuola dell’obbligo e sicuramente l’ambito scientifico può fare molto in tal senso.
Eppure per un ragazzino della media diventa assai improbabile sviluppare la capacità di osservazione guardando una qualsiasi cellula umana al microscopio ottico: avete mai provato? Non è poi molto ciò che vede e l’alunno deve fare un notevole sforzo di fantasia per trovarci tutte quelle cose che il libro gli racconta sulla struttura cellulare.
E invece le piante sono lì, a disposizione per essere osservate e descritte, si possono prendere varie gemme a diversi stadi di sviluppo, aprirle e osservarle, riordinarle secondo il grado di crescita, scoprire che esistono gemme che danno fiori e gemme che danno foglie ecc.; si possono osservare e descrivere vari tipi di radici, per scoprire che possiamo raggrupparle in categorie ben precise; così pure le foglie, i fiori, i frutti………………………
3) La sistematica delle piante non deve però essere affrontata in modo mnemonico, né, cosa ancora peggiore, ignorata. Lo studio delle forme è indispensabile, perché se affrontato in modo sperimentale, può essere determinante sia nella scuola elementare che nella scuola media per sviluppare la capacità di osservare e di descrivere, ma può contribuire anche notevolmente a sviluppare il linguaggio e, infine, sicuramente contribuisce a sviluppare uno dei temi portanti della biologia: la varietà dei viventi.
Per affrontare seriamente nella scuola superiore il tema dell’evoluzione dei viventi, bisogna conoscere almeno un pochino la ricchezza dei viventi, prodotto stesso dell’evoluzione e di questa ricchezza le piante occupano una buona parte.
Bisogna inoltre apprendere alcune chiavi di lettura del mondo dei viventi, il che non significa apprendere classificazioni in modo mnemonico, ma guardare per forme, osservare somiglianze e differenze, valutare forme e trasformazioni.
Val la pena dunque di perdere un po’ di tempo a osservare forme di foglie, fiori, radici ecc. per imparare a riconoscere qualche albero fra i più comuni nel nostro territorio, magari con l’aiuto di una guida di riconoscimento.
Tutto ciò diventerebbe assai utile per sviluppare con basi sicuramente più solide qualche tematica di educazione ambientale.
4) Normalmente noi docenti riteniamo di “fare” educazione ambientale se affrontiamo un qualche tema di degrado dell’ambiente.
Ebbene, ancora le piante ci possono venire in aiuto, ancora sono lì, visibili e ovunque.
Possiamo usarle assai meglio di altri indicatori biologici, assai più sofisticati e per addetti ai lavori.
Dice Longo, “non è facile per un profano (a maggior ragione per un bambino) controllare se i nostri polmoni sono neri o se i nostri fegati sono opachi a causa dell’inquinamento, ma chiunque può accorgersi dei colori autunnali delle foglie di un albero in luglio”; infatti gli alberi ci indicano chiaramente gli stati di sofferenza di un ambiente.(1)
Ingiallimento fuori stagione delle foglie, chiome diafane, quasi trasparenti, foglie che in autunno si accartocciano sulle piante anziché staccarsi e cadere al suolo sono tutti sintomi di sofferenza che si mettono in evidenza accanto a piante sane, che pure coesistono in uno stesso ambiente, per esempio un giardino o un filare di alberi lungo un viale……….e che quindi possiamo usare in modo del tutto naturale come standard di confronto.
5) Le esperienze sulle piante offrono la possibilità di fare matematica applicata e ragionata, di lavorare su concetti importanti come i rapporti, le superfici, la statistica, rendendoli più comprensibili ai ragazzi.
Ad esempio, si possono utilizzare le foglie per imparare a calcolare l’area approssimata di una
superficie irregolare con il metodo della quadrettatura.
I ragazzi sono abituati a calcolare aree di figure regolari attraverso formule, ma, di fronte a superfici irregolari non riescono a fare stime; eppure le forme in natura sono le più svariate.
Nel caso della superficie fogliare i ragazzi possono collegarla ad una funzione importante quale è la traspirazione, e successivamente collegarla all’ambiente in cui le piante vivono (latifoglie, piante grasse, aghifoglie)
Oppure si può rilevare la superficie approssimata di un lago o di una porzione di territorio irregolare ricavandole da una carta topografica, sempre con il metodo della quadrettatura, per poi riportarle secondo la scala a grandezza naturale.
Si possono fare statistiche di germinazione di semi, riportando i valori su grafici, oppure costruire curve di germinabilità.
Si possono fare entrambe le cose e operare confronti fra i grafici di germinazione e le curve di germinabilità in ambienti diversi.
Si possono ricostruire forme di chiome di alberi in proporzione su carta millimetrata per comprendere come si sono sviluppati in un certo ambiente oppure misurarne l’altezza usando la similitudine. Insomma gli esempi che potrei fare sono tantissimi e tutti concretamente realizzabili con gli alunni che operano, misurano, costruiscono e ragionano in prima persona.
1. Longo C., Didattica della biologia, La nuova italia 1998
- Young people’s ideas about plants, Studies in Science Education, 1991, pp.19
- Cavallini G., La formazione dei concetti scientifici, La Nuova Italia, 1995
4. Grimellini Tomasini N., Segrè G., Le concezioni degli studenti, La Nuova Italia, Firenze,1991.
Come e perché “fare” biologia
Paola Savini e Daniela Basosi
*
IL PROBLEMA DELL’INSEGNAMENTO DELLA BIOLOGIA
Per molti insegnanti non c’è problema nell’insegnare la biologia nel senso che
ritengono sia semplice far conoscere gli esseri viventi con le loro
peculiarità; ritengono che sia semplice in quanto possono raccontare,
aiutandosi con schemi e video, disegnando alla lavagna ciò che pensano sia
importante; raccontano delle caratteristiche degli esseri viventi dal più
semplice al più complesso, sottolineando le differenze e facendo
classificazioni, spiegano come funzionano organi ed apparati con
ricchezza di particolari, arrivando perfino a trattare delle reazioni chimiche
connesse.
Conosciamo parecchi docenti della scuola primaria e della secondaria che
preferiscono affrontare argomenti di biologia, piuttosto che di chimica o di
fisica, semplicemente perché possono descrivere, far fare ricerche, visitare
musei, proiettare filmati, ecc.
L’alunno ascolta, prende appunti, studia, ripete nell’interrogazione.
E’ l’insegnante che fa notare differenze e somiglianze, che mette in evidenza particolarità, che spiega come “stiano le cose”.
Lo studente in classe ascolta e memorizza, a casa legge e memorizza: non gli si chiede di fare altro. Se è abituato, da solo, a rielaborare, lo farà, se vive in un ambiente familiare che lo stimola e lo aiuta a riflettere, cercherà di comprendere i contenuti, ma se non dispone di tutto questo, imparerà a memoria e, dopo un po’ di tempo, avrà tutto dimenticato. L’insegnamento e l’apprendimento della biologia più diffusi nella scuola di base sono di questo tipo.
Il docente non
si pone la domanda se gli alunni abbiano compreso e che cosa abbiano
veramente compreso; pensa: “se sanno ripetere, hanno compreso”.
Qualche collega si giustifica dicendo che in fondo gli studenti della
scuola
dell’obbligo devono anche allenare la loro capacità di attenzione e di
memorizzazione e devono “sapere studiare” sul libro di testo.
Ma la scuola di base deve avere come scopo il far comprendere o meglio il
motivare
a
comprendere i contenuti che vuole trasmettere in tutte le sue
discipline e
quindi anche in biologia: per fare
questo deve creare situazioni e attivare strategie che
permettano di comprendere. Lo studente imparerà a memoria se non ha la
possibilità di esercitare le sue capacità percettive sul campo, se non ha la
possibilità di porsi delle domande e di cercare delle risposte motivate, se
non ha la possibilità di ascoltare quello che hanno capito i compagni, per
confrontarlo con ciò che egli stesso ha capito, giustificando la sua idea e
valutandone la correttezza; se non ha la possibilità di agganciare i nuovi
contenuti con quanto già conosce (1).
L’insegnante deve
quindi domandarsi che cosa gli alunni ai
vari livelli scolari possano apprendere
comprendendo, e come debba essere
l’approccio con la biologia, affinché sia compresa; si deve chiedere se vuole
che le conoscenze di biologia siano vere conoscenze, costruite, capaci di
entrare a far parte del bagaglio culturale dell’alunno ed essere anche,
all’occorrenza, da lui stesso utilizzate (2).
Se l’insegnante si pone queste domande, allora il problema dell’insegnamento della biologia è evidente: sta nello scegliere contenuti adatti allo sviluppo cognitivo nelle varie fasce d’età e nel creare situazioni operative che permettano di comprenderli.
* IL PROBLEMA DELLE SCELTE DI CONTENUTO E DI METODO.
Queste considerazioni rendono l’insegnamento della biologia nella scuola di base assai più complicato di quanto possa apparire ad un approccio più superficiale.
Si rende necessaria una riflessione forte sulla distinzione da fare fra il sapere biologico accademico e quello della scuola di base, se si vuole porre rimedio agli insuccessi ripetuti nell’insegnamento di tale disciplina.
Il rischio che corre l’insegnante è duplice: banalizzare molti aspetti della biologia nel tentativo di semplificarli, rendendoli aride descrizioni fini a se stesse, da memorizzare ( pensiamo alla sistematica, alle teorie dell’evoluzione, alla genetica….) oppure affrontare troppo precocemente concetti complessi della biofisica e della biochimica, che, accanto agli aspetti biologici, necessitano di conoscenze approfondite della fisica e della chimica (ad esempio la biologia molecolare) (3).
Lo studio degli
esseri viventi comporta una conoscenza descrittiva di come sono
strutturati, di come sono le parti (o sistemi) che li costituiscono, una
conoscenza
delle relazioni all’interno delle parti per la funzione che svolgono e delle
relazioni tra le parti per rendere vivente il tutto; comporta inoltre una
conoscenza di come gli esseri viventi si mettono in relazione con l’ambiente in
cui vivono e del ruolo che vi svolgono.
É quindi una conoscenza plurima in cui si riconoscono diversi livelli di difficoltà.
Quale gradualità dare dunque all’insegnamento?
Secondo noi nella scuola di base
si deve:
1) partire dal riconoscimento della
diversità in sé
2) correlare la diversità di
struttura-funzione all’ambiente di vita
3) interpretare la correlazione struttura-funzione-ambiente,
avviando al
concetto di evoluzione
Quali principi seguire nella proposta
didattica?
1) di connessione: le parti di un
individuo (organi, ossa,ecc) sono organizzate in sequenze che si ripetono
sempre uguali in individui appartenenti allo stesso gruppo, ma che cambiano in
individui di altri gruppi
2) di correlazione: la struttura si
rapporta alla funzione
3) di adattamento: l’individuo è in
relazione con l’ambiente.
Quale metodologia utilizzare?
Poiché a livelli scolari di base il riconoscimento attraverso la descrizione è da privilegiare rispetto all’interpretazione, l’osservazione-descrizione costituisce il primomomento del metodo, essenziale per un approccio corretto alla biologia, mentre comprendere lo scopo è successivo, perché più difficoltoso in quanto richiede ipotesi ed inferenze (4).
Pertanto la costruzione delle prime conoscenze sugli aspetti caratterizzanti gli individui considerati e sulle relazioni tra di loro e con l’ambiente dovrà essere il frutto di un lavoro individuale fatto direttamente sugli organismi, quanto più possibile, e indirettamente su immagini degli stessi; sarà un lavoro che si basa sull’osservazione-descrizione, ma anche sul confronto e sulla riflessione ragionata, perché è con il confronto, fatto sulle osservazioni descritte e socializzate, che i concetti prendono forma nella mente di ognuno e cominciano a delinearsi (5).
Con un’impostazione metodologica di questo tipo l’insegnante dovrà scegliere con molta cura ciò che intende sottoporre all’attenzione degli alunni, in quanto l’osservazione dovrà permettere di avviare un processo di conoscenza che si svilupperà attraverso fasi successive, e che l’alunno sarà in grado di controllare soltanto se concettualmente adeguato alle sue capacità cognitive; se invece “l’oggetto” osservato sarà troppo complesso, sfuggirà alla comprensione da parte dell’alunno e l’osservazione rimarrà fine a se stessa.
E dopo aver
descritto, sarà importante classificare per mettere ordine nell’immensa varietà
dei viventi; sarà essenziale riconoscere somiglianze e differenze a tutti i
livelli e raggruppare, avendo la consapevolezza che in biologia si incontrano
sempre eccezioni alle regole che si cerca di individuare nella natura.
E’ necessario non perdere di vista il tutto quando si analizza una parte perché
la parte caratterizza il tutto e ne giustifica il ruolo che l’organismo svolge
nell’ambiente; è un continuo lavoro di scomposizione e di ricomposizione.
Infine si dovranno scoprire le relazioni all’interno delle parti facendo
ipotesi motivate e poi le relazioni con l’ambiente esterno, dandone
un’interpretazione, cercando di comprendere
il perché.
Nello studio della biologia non si può tener fuori l’evoluzione; dice
Dobzhansky:” In biologia, nessuna cosa ha senso se non alla luce
dell’evoluzione”. Ma affrontare il concetto di evoluzione non significa
necessariamente parlarne in termini teorici complessi, è sufficiente, nella
scuola di base, riflettere in chiave evolutiva per esempio sulle relazioni
adattative. Il “perché” è l’ultimo livello a cui si deve tendere, da affrontare
secondo noi nel biennio di scuola superiore, perché troppo complesso per essere
compreso (6).
* IL PROBLEMA DELLA COSTRUZIONE DEL CURRICOLO VERTICALE.
Il curricolo serve a veicolare nel tempo un modo di accostarsi alla biologia
per comprensione e non per memorizzazione come accade se non si rispetta una
gradualità di approccio legata allo sviluppo dei concetti, ma anche allo
sviluppo mentale dei ragazzi ai vari livelli scolari.
Le linee guida che noi riteniamo fondanti per lo sviluppo di un curricolo sono:
1) il
riconoscimento della diversità
2) la comprensione e l’interpretazione della diversità
Anche storicamente lo studio degli esseri viventi si è sviluppato secondo
l’iter: osservazione–descrizione —–interpretazione.
Si descrivevano gli esseri viventi visti in ogni parte del mondo, si
raccoglievano campioni, si confrontavano, si classificavano; il grande lavoro
di descrizione e di
classificazione svolto dai Naturalisti ha costituito la base essenziale su cui si è sviluppata la biologia ( la classificazione di Linneo risale al 1700, mentre lo sviluppo della citologia si è avuto nella seconda metà del 1800, l’ereditarietà dei caratteri di Mendel è del 1866 ).
Anche storicamente il percorso di conoscenza si è sviluppato dal macroscopico al microscopico (7).
Quali esseri viventi nel mondo animale
prendere in considerazione?
Prima di tutto gli esseri pluricellulari che fanno parte dell’ambiente di vita degli alunni, partendo da quelli più simili all’uomo, poi quelli più lontani come organizzazione, fino agli unicellulari e alla cellula come unità fondante della vita; ma gli studi più specifici della microscopia si possono lasciare al biennio della scuola superiore, quando anche la capacità di astrazione dei ragazzi sarà più sviluppata.
D’altra parte
non si deve trascurare il fatto che Darwin ha compiuto, prima sui
Vertebrati e poi sui non Vertebrati, un massiccio lavoro di osservazione
soprattutto morfologica, di descrizione e di classificazione, lavoro che gli ha permesso di mettere a punto la sua
teoria e che ha dato poi un forte impulso a molte branche della biologia.
Il primo punto è quindi riconoscere la
diversità degli esseri viventi: a livelli scolari più bassi si affronterà
la diversità di forma, di comportamento sociale, di ambiente di vita, (tutto
ciò che si può osservare direttamente e a livello macroscopico) mentre nella
scuola media si potrà affrontare una diversità di scheletri da agganciare alla
funzione locomotoria, di apparati boccali da agganciare alla funzione trofica,.
una diversità di rivestimenti corporei da collegare agli ambienti di vita, per
arrivare ad individuare gli aspetti caratteristici delle più importanti classi
di Vertebrati. Non importa cercare tutte le differenze tra i gruppi, ma quelle
su cui si può lavorare con materiali concreti, che permettono un confronto che
l’alunno da solo può fare.
Il lavoro di osservazione e confronto è quello che porta al riconoscimento di alcuni aspetti (scelti dall’insegnante) caratterizzanti l’individuo e quindi al riconoscimento del suo gruppo di appartenenza; gli aspetti dovranno poi essere utilizzati come categorie di tabelle di classificazione che permetteranno di dare significato ai “nomi” a seconda dei diversi insiemi di aspetti essenziali riconosciuti.
L’attività logica sulle tabelle, con continui passaggi di andata e ritorno, è di fondamentale importanza, perché permette di costruire con progressione logica la generalizzazione: nella tabella si possono riconoscere gli attributi essenziali dell’individuo osservato e del suo gruppo di appartenenza, attributi che devono essere “visti” e “sintetizzati” nel nome dato al gruppo.
Per rinforzare i concetti è significativo poi “arricchire” le tabelle in tempi successivi, nel senso che si sottoporranno all’attenzione dell’alunno altri individui da analizzare ed inserire nei diversi raggruppamenti già evidenziati (8).
Il passaggio
alla generalizzazione è lento e difficile, ma soltanto questo graduale lavoro
di costruzione personale, di sistematizzazioni provvisorie sempre rivisitate e
sempre migliorate produce comprensione, conoscenza e infine competenza.
E’ importante partire dai viventi che fanno parte del quotidiano anche perché
su questi i ragazzi hanno già delle conoscenze e perché su questi hanno già
fatto numerose esperienze extrascolastiche che possono raccontare e che
comunque ritornano loro in mente ( il coinvolgimento emozionale è più forte
se il ragazzo può far riaffiorare il suo
vissuto).
Quali esseri viventi nel mondo vegetale prendere in considerazione?
Anche nel mondo delle piante si comincerà dal riconoscimento degli esseri pluricellulari che fanno parte dell’ambiente di vita degli alunni, come gli alberi e le piante superiori, per poi arrivare a quelli più lontani come organizzazione, fino alle alghe unicellulari e alla singola cellula vegetale.
Anche nel mondo vegetale è utile procedere dal macroscopico al microscopico.
Le piante possono soddisfare l’esigenza di un’impostazione, nell’insegnamento, di tipo operativo perché sono presenti ovunque, visibili, reperibili, facilmente usabili e hanno cicli di crescita continui e veloci. Esse hanno una morfologia ben chiara, un ciclo vitale osservabile, sono presenti nel senso comune e permettono di costruire la conoscenza della morfologia delle parti della pianta ( cioè di guardare per forme); permettono anche di collegare la morfologia alle trasformazioni e alle funzioni ( cogliere relazioni ), di dare una prima concreta sistemazione all’idea generale di ciclo vitale, contribuiscono in modo sostanziale alla costruzione di una visione globale, dinamica e sistemica dell’essere vivente (9).
La sistematica delle piante non può essere trattata in modo mnemonico, né può essere ignorata, perché contribuisce notevolmente a sviluppare il tema della varietà dei viventi, oltre che le capacità trasversali di osservazione, di descrizione e le capacità linguistiche indispensabili alla crescita dei concetti (10).
Come affrontare lo studio dell’uomo?
Lo studio del corpo umano ha da sempre affascinato i bambini e gli adolescenti in una fase della loro vita assai importante, in cui si sta costruendo la conoscenza di sé, in cui già si è formato un patrimonio di conoscenze accumulate fino dalla nascita in parte attraverso l’esperienza di vita e in parte attraverso il linguaggio degli adulti.
C’è un vero interesse nel ragazzo a conoscersi, a prendere coscienza delle trasformazioni fisiche e psicologiche a cui va incontro, che non è solo curiosità, ma anche un bisogno di dare significato ai cambiamenti fisici che vive in prima persona e, forse, di condividerli con gli altri, per rassicurarsi, inserendoli in un contesto di normalità. Ma come costruire percorsi su contenuti così complessi tenendo sempre presente ciò che realmente può essere compreso in base alle età? Secondo noi è necessario:
- partire sempre dagli aspetti evidenti e costruire il lavoro in classe basandosi su di essi. (Se, per esempio, parliamo di muscoli e ossa, partiamo dallo studio del movimento e quindi delle articolazioni come quella del braccio o quella della gamba, costruiamo modelli che cercano di spiegare che cosa succede, ecc.);
- costruire conoscenze di anatomia e fisiologia comparata, attraverso un lavoro continuo di confronto, per individuare somiglianze e differenze, tutte le volte che nello studio dei viventi se ne presenti la possibilità;
- affrontare lo studio delle funzioni del corpo umano senza addentrarsi “pesantemente” nello studio degli apparati, con i loro aspetti anatomici e fisiologici,
ma, piuttosto, correlare le funzioni alle caratteristiche morfologiche e
comportamentali.
Il secondo punto è interpretare. E’ più difficile perché richiede di rispondere a domande facendo perno sulle conoscenze descrittive, su tutto ciò che si è visto, è più difficile perché comporta un’ attività di estrapolazione.
Le domande giuste sono
essenziali.
Ci si deve chiedere perché c’è differenza senza aver fretta di darsi una
risposta; si deve collegare la differenza di struttura con la funzione svolta e
con l’ambiente di vita
senza, però, pretendere, nella scuola media, di arrivare al concetto di
selezione naturale: mancano le conoscenze di genetica ed il senso
religioso fa pensare ad una creazione di
individui perfettamente adattati.
Le risposte devono essere elaborate mettendo insieme informazioni tratte
dal manuale, da testi specialistici, dalla riflessione personale con il
contributo dell’esperienza vissuta e costruite durante una discussione
collettiva alla quale tutti partecipano (11).
E’ chiaro che si utilizzano anche informazioni, ma queste devono essere
strumenti usati per dissipare dubbi o per avere conferme su quanto una
riflessione ragionata e condivisa ha permesso di intuire ( l’informazione aiuta il processo di formazione, ma non può
sostituirsi ad esso).
In conclusione, per un curricolo verticale di biologia che abbia significato il problema della scelta dei contenuti è fondamentale e la scelta è obbligata; deve essere però una scelta coerente con la metodologia da adottare, tenuto conto delle strutture cognitive proprie dell’età degli alunni, ed anche coerente con la struttura complessa della disciplina stessa e con il suo sviluppo; per cui ha senso trattare quegli organismi su cui si può lavorare concretamente ma è importante anche capire fino a che punto è possibile stimolare una riflessione logica e consapevole su di essi cioè capire dove ci si deve fermare, perché la conoscenza sia frutto veramente di una costruzione personale.
Bibliografia di riferimento:
1) Grimellini Tomasini N., Segrè G., Le concezioni degli studenti, La Nuova Italia, Firenze,1991.
2) Basosi D. Lachina L., L’insegnamento della Biologia nella scuola dell’obbligo, Insegnare. – s. 4, n. 9,
set 2000, p. 43-46.
3) Ausubel D. P., Educazione e processi cognitivi, Milano, Angeli, 1983, p. 471.
4) Fiorentini C., Il ruolo del laboratorio nell’insegnamento scientifico : 1: Aspetti epistemologici,
psicopedagogici didattici – In Scuola e Didattica. – a. 50, n. 6, 15 nov 2004, p. 35-38.
5) Conti P., Un coniglio a scuola : Un’esperienza di osservazione scientifica nella Scuola dell’Infanzia. – In
Scuola Infanzia. – a. 8, n. 7, ott 1999, p. 1, 4-6.
6) Dobzhansky T., La genetica e l’origine delle specie, 1937.
7) Mayr E., Storia del pensiero biologico, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.
8) Cortellini, A. Mazzoni, L’insegnamento delle scienze verso un curricolo verticale. Volume
secondo. I fenomeni biologici, L’Aquila, IRRSAE Abruzzo, 2002.
9) Basosi D., Perché le piante, in Naturalmente, 2003, n. 2, pp. 29-31.
10) Aquilini E., Il ruolo del linguaggio nel passaggio dai concetti di senso comune ai concetti
scientifici- In Insegnare. – s. 4, n. 11/12, nov/dic 1999, p. 34-37.
11) Pontecorvo C., Ajello A. M., Zucchermaglio C., Discutendo si impara, Firenze, La Nuova Italia, 1991,
.
In finlandia sono bravi… perché?
Eleonora Aquilini
“La tendenza a non criticare le posizioni tradizionali definisce un atteggiamento conservatore, e il
conservatorismo ha i suoi inconvenienti. Pu?costare un prezzo piuttosto alto rimanere con lo
sguardo rivolto all’indietro, ai discorsi ricevuti, agli stereotipi e agli slogan facilmente ripercorsi,
alle autorit?carismatiche, a saggezze non verificate e mai contestate. Ben diverso ?quando si
mobiliti l’intelligenza indagatrice e quando il dibattito verta su nuove esplorazioni: la curiosit? il
senso critico e il piacere delle verifiche aprono la nostra mente.?/p>
(G. Jervis, Pensare dritto, pensare storto)
Quando si parla dell’inefficacia dell’insegnamento scientifico in Italia si citano sempre come
conferma i risultati deludenti ottenuti dall’Italia nell’indagine OCSE-PISA del 2003 e del 2006.
L’impressione ?che dare per scontato che la misura dell’ignoranza scientifica degli studenti sia un
dato dimostrabile da questi esiti disastrosi sia diventato ormai uno slogan. C’è il ragionevole dubbio
che molte persone in realt?non siano a conoscenza degli aspetti che caratterizzano questo tipo
d’indagine o che comunque non si pongano di fronte ad essi in modo critico e riflessivo.
La tendenza comune ?quella di considerare valida a priori l’idea di competenza scientifica che
dovrebbe avere un quindicenne di qualsiasi nazionalit?e di considerare indiscutibili le prove
somministrate e il tipo di insegnamento scientifico che veicolano.
Ci siamo precedentemente occupati dell’analisi delle premesse e delle prove riportate nei resoconti
del 20031 e del 20062, giungendo ad alcune conclusioni che riportiamo brevemente:
1) l’idea di competenza scientifica indicata nelle varie accezioni per i quindicenni non ?/p>
realmente commisurata all’et?degli alunni;
2) nel caso delle scienze manca un’idea implicita di curricolo. Gli studenti devono sapere un
po?di tutto e saperlo trasferire nei vari contesti. La stessa cosa non si pu?dire per le stesse
indagini fatte per la matematica;
3) i test migliori individuano competenze legate al saper leggere e comprendere un testo ed
essere capaci di ragionarci sopra in modo logico e coerente, non competenze derivabili da
1 E.Aquilini, L’indagine OCSE-PISA 2003 nelle Scienze: competenza o ignoranza pedagogica?, Insegnare, 2005,4, 33.
2 E.Aquilini, Le competenze scientifiche dei quindicenni nell’indagine OCSE-PISA 2006, Rivista dell’istruzione, 2008,
4, 78.
acquisizioni realmente raggiungibili dagli alunni. Il contenuto scientifico di questi test ?/p>
essenzialmente di tipo informativo.
Una riflessione ulteriore su questi aspetti fa ritenere che quest’ultimo punto sia il pi?rilevante.
Nonostante che nell’indagine OCSE-PISA si dichiari che le prove sono state elaborate non
tenendo conto dei curricoli di scienze dei singoli Paesi, ? interessante invece andare a vedere quale
tipo di insegnamento viene proposto nelle nazioni che raggiungono i risultati migliori in queste
prove. Ci sembra che un’attenzione particolare debba essere data al caso della Finlandia, al primo
posto nella classifica, e a suoi programmi di studio in campo scientifico.
Uno sguardo al sistema scolastico finlandese
Nel sistema educativo finlandese il primo livello d’istruzione ?obbligatorio, inizia a sette anni e si
conclude a sedici anni. In questo periodo l’istruzione ? gratuita e comprende anche il servizio
mensa. La maggior parte degli studenti frequentano anche la scuola secondaria potendo scegliere
fra scuola secondaria superiore (liceo) e scuola professionale. I diplomati di entrambe le tipologie di
scuola possono iscriversi all’Universit?o al Politecnico.
Il primo livello scolastico obbligatorio ?suddiviso in nove classi. In questi anni il Finnish National
Board of Education3 definisce gli obiettivi, il core curriculum, le performances attese per gli
studenti alla fine di ogni sottolivello (area di studio che prevede in determinate classi lo stesso tipo
d’insegnamento), che ogni scuola deve tenere presenti per programmare il curriculum locale e per
valutare gli alunni. Nel caso delle scienze, ad esempio, il primo sottolivello ?costituito dalle prime
quattro classi e l’insegnamento ?“Studi ambientali e naturali? il secondo ?rappresentato dalle
classi quinta e sesta con gli insegnamenti di “Biologia e Geografia?e “Chimica e Fisica? il terzo
comprende le classi settima, ottava e nona con Biologia, Geografia, Chimica e Fisica studiate
separatamente.
La valutazione degli alunni ?annuale e di fine corso e prevede un punteggio che ?insufficiente con
la votazione da 1 a 4; la valutazione positiva si ha con il punteggio da 5 a 10. Viene dato anche un
giudizio scritto che ?influente rispetto alla promozione all’anno successivo, in quanto l’alunno pu?/p>
essere ammesso alla frequenza dell’anno seguente se si ritiene che sia in grado comunque di
affrontarlo, anche con votazioni insufficienti in pi?materie. Pu?succedere anche che un alunno non
sia ritenuto idoneo alla promozione nonostante la votazione sufficiente nella maggior parte delle
discipline. Si sottolinea comunque che di queste decisioni devono essere informate preventivamente
le famiglie.
3 Prendiamo in esame in questo resoconto la parte del Finnish Board of Education del 16 Gennaio 2004 relativo
all’educazione scientifica (https://www.oph.fi/english/page asp?path=447,27598,37840,72101,72106)
Studi ambientali e naturali
Nei primi quattro anni di scuola si prevede un insegnamento integrato di biologia, geografia, fisica
ed educazione alla salute. L’obiettivo principale, enunciato nella premessa, ?la comprensione della
natura, degli ambienti artificiali, di se stessi e degli altri, della salute e della malattia. Il tutto nella
prospettiva dello sviluppo sostenibile. Si parla di insegnamento basato sulle conoscenze pregresse
dell’alunno e comunque basato sull’esperienza e sullo studio di fenomeni naturali.
Dagli obiettivi, i contenuti essenziali (“core contents? e la descrizione di competenze attese alla
fine della classe quarta (“description of good performance at the end of fourth grade? si comprende
che l’educazione alla salute non ha un ruolo marginale rispetto agli altri insegnamenti ma “conta?/p>
quanto gli altri “ingredienti?dell’insegnamento integrato. In questo caso per?si capisce che
l’insegnamento ?soprattutto informazione sui comportamenti che occorre tenere per rimanere in
buona salute o per prestare soccorso in caso di incidenti, sulle malattie tipiche dei bambini, sullo
sviluppo che accompagna la crescita del corpo umano. Nel paragrafo “Sicurezza?sono previste
anche modalit?comportamentali che prevengano il bullismo e la violenza, gli incidenti stradali e
domestici. La parte che riguarda gli organismi e gli ambienti di vita prevede un riconoscimento dei
viventi e non viventi, degli ambienti di vita (su cui si innestano nozioni di geografia) e delle pi?/p>
comuni specie di piante, funghi, e animali. Questi argomenti sono gli oggetti delle osservazioni,
delle classificazioni, delle procedure sperimentali esplicitate nelle competenze attese alla fine dei
quattro anni di corso. Le competenze (performances) sono descritte prevalentemente come un “un
sapere come…” (know how). La parte relativa ai “fenomeni naturali?riguarda fenomeni fisici
relativi al suono, alla luce, al calore, al magnetismo, all’elettricit?e si indaga il funzionamento di
semplici strumenti e le forze che agiscono in determinate strutture. L’ambito chimico (materiali
intorno a noi) riguarda le sostanze e i materiali della vita di tutti i giorni, la loro conservazione e il
riciclaggio, le propriet?dell’aria, le propriet?e i cambiamenti di stato dell’acqua (il ciclo
dell’acqua). Non si parla in questo caso di fenomeni chimici. Le competenze relative alle aree
fisiche e chimiche vengono prese in considerazione in un unico paragrafo e “il sapere come?non
riguarda pi?l’osservare, il classificare, ma l’usare (semplici strumenti di misura), lo spiegare (il
funzionamento di semplici strumenti, l’assemblare (un semplice circuito). Nelle voci che riguardano
i materiali prevale il comprendere (la trasformazione di una sostanza in un’altra), il conoscere (le
propriet?e l’utilizzo di varie sostanze e materiali, le sostanze pericolose come le medicine, i
prodotti per lavare, l’alcool, il tabacco). Le conoscenze indicate non sono acquisibili in modo
approfondito in questa fascia di et? sono nozioni date. Nelle aree fisica e chimica si iniziano
argomenti importanti dal punto di vista dello statuto epistemologico della disciplina, non facilmente
affrontabili dal punto di vista solo fenomenologico.
E?pur vero che gli argomenti scelti vengono approfonditi negli anni successivi, e questo fa
pensare al preciso intento di sviluppare un curricolo verticale. Tuttavia non ?specificato il livello
concettuale a cui questi argomenti vengono affrontati e non ? quindi chiaro in quale modo vengano
trattati e poi approfonditi nelle diverse fasce scolari.
Lo sviluppo dell’area biologica
Nelle classi quinta e sesta la Biologia viene insegnata insieme alla Geografia. La nostra attenzione
sar?rivolta agli aspetti biologici, anche se la geografia ? importante perch?approfondisce lo studio
degli ambienti di vita, gi?iniziati nei primi quattro anni. L’insegnamento ?organizzato in modo da
promuovere l’idea della biodiversit?e quindi dell’uomo come parte della natura. Si precisa che le
lezioni possono essere tenute in classe e all’aperto, per fare esperienze educative anche “sul
campo? L’educazione alla salute ?inglobata negli insegnamenti di Biologia e Geografia. Gli
argomenti biologici vengono raggruppati in “Organismi e ambienti di vita?e in “Anatomia,
funzioni vitali, crescita, sviluppo e salute dell’essere umano? Il primo gruppo prevede
l’identificazione della flora e della fauna individuabili negli ambienti circostanti, gli ambienti di
vita ( le foreste, le paludi, catene alimentari), la crescita delle piante e la loro riproduzione?/p>
Si esplicita nelle competenze che ?importante, ad esempio, conoscere la differenza fra vertebrati e
invertebrati e sapere come gli animali si adattano all’ambiente, sapere che le piante verdi producono
il loro cibo per assimilazione, spiegare i principi su cui si basa la catena alimentare, sapere come
preservare e proteggere gli ambienti naturali circostanti.
Il secondo gruppo di argomenti riguarda le principali funzioni del corpo umano, la riproduzione , i
cambiamenti (fisici, psicologici, sociali) che accompagnano la pubert? i fattori che entrano in gioco
nelle relazioni umane (controllo delle emozioni, tolleranza..), diritti e responsabilit?degli alunni in
quella determinata fascia di et? Qui l’educazione alla salute ha un grande ruolo.
La Biologia, come materia autonoma, viene studiata negli ultimi tre anni del ciclo d’istruzione
obbligatorio. I prerequisiti dell’insegnamento sono i fenomeni della vita e si prosegue nello studio
introducendo l’evoluzione, i fondamenti dell’ecologia, la struttura e le funzioni vitali dell’essere
umano. Troviamo fra i contenuti essenziali: la natura e gli ecosistemi, la vita e l’evoluzione, l?/p>
ambiente naturale. Le competenze alla fine dei tre anni hanno una denominazione diversa che ?la
stessa anche per Geografia, Chimica e Fisica: “Criteri per la valutazione finale per una votazione di
otto? Non si parla pi?di performances attese alla fine del triennio. In questa parte si capisce che
l’insegnamento della Biologia proposto nella fascia di et? 13-15 anni ?altamente specialistico. Gli
alunni infatti devono saper descrivere le principali caratteristiche della struttura della cellula, saper
spiegare la fotosintesi, descrivere la riproduzione di piante, animali, funghi e microbi, spiegare le
caratteristiche dell’evoluzione e la storia dell’evoluzione umana. Per ci?che riguarda il corpo
umano occorre saper descrivere organi e tessuti, saper spiegare la formazione di gameti, i rapporti
sessuali, la gravidanza e la nascita, nonch?i concetti chiave associati all’ereditariet? Le tematiche
trattate sono tantissime e ci si chiede come possano essere trattate in modo significativo dai dodici
ai quindici anni.
L’area Fisica e Chimica
Nelle classi quinta e sesta l’insegnamento di Fisica e Chimica prevede argomenti previsti nei
primi quattro anni con la variante fondamentale che vengono inseriti in ambiti disciplinari ben
precisi. Troviamo, ad esempio, calore, luce, movimento prodotti da fenomeni elettrici nel capitolo
“Energia e elettricità”; le forze responsabili di equilibrio e movimento prendono il nome di forza di
gravit?e di attrito, il moto ?anche quello della terra e della luna. L’aria e l’acqua vengono
nuovamente prese in esame dal punto di vista delle loro propriet?e i materiali classificati e separati
nei loro componenti.
In questi due anni l’obiettivo ?quello di passare dall’osservazione dei fenomeni, degli oggetti, dei
materiali ai concetti di base della Chimica e della Fisica. Ci sembra che questo sia un intento un po?/p>
troppo alto per alunni di 11 e 12 anni. L’analisi delle performances attese conferma anche l’idea che
ci sia molto nozionismo e una buona dose di informazione fine a se stessa. Per esempio a che serve
conoscere i simboli chimici dei gas presenti nell’atmosfera o degli elementi presenti nel suolo? In
una visione formativa dell’insegnamento scientifico i simboli hanno senso se ad essi sono connessi
significati costruiti. Ad un livello in cui si separa e si classifica, specificare che l’anidride carbonica
ha formula CO2 non aggiunge nulla in termini concettuali. E? inoltre solo informazione essere a
conoscenza della tossicit?del tabacco e di altre sostanze dannose.
A questa et?lo studio delle forze, come quella gravitazionale e di attrito e il tipo di moto che esse
generano ci sembra un’impresa piuttosto ardua, di difficile realizzazione in termini di acquisizione
consapevole di concetti. Gli aspetti di educazione ecologica e di educazione alla salute sono
presenti in modo costante in queste indicazioni: si specifica che le fonti energetiche da cui si pu?/p>
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ricavare calore ed elettricit?devono essere classificate in rinnovabili e non rinnovabili o, quando si
studia il moto, occorre saper descrivere situazioni pericolose nel traffico urbano e negli ambienti
naturali.
Quando nelle classi settima ottava e nona si passa allo studio della Fisica come materia autonoma,
ritroviamo ancora una volta, le forze e il movimento, il calore e l’elettricit?trattati da un punto di
vista strettamente disciplinare, nel senso che a questi temi si applicano le leggi e i principi
fondamentali della Fisica. Si affrontano le leggi del moto uniforme e uniformemente accelerato, il
lavoro prodotto da una forza, la potenza, l’energia meccanica. A proposito dell’elettricit?si
prendono in considerazione le forze magnetiche ed elettriche fra gli oggetti, la corrente continua e i
circuiti elettrici, l’induzione elettromagnetica. Il suono e la luce, gi?presi in considerazione negli
anni precedenti vengono nuovamente affrontati nel capitolo del moto dell’onda. Qui oltre ad
analizzare i fenomeni prodotti dal moto dell’onda (produzione, riflessione, riflessione e rifrazione)
si studiano anche i principi di funzionamento degli strumenti ottici. Nel capitolo che riguarda le
strutture naturali viene menzionato anche il decadimento radioattivo, la fissione e la fusione. La
lettura dei “criteri di valutazione per una votazione di 8? non attenua la rigidit?disciplinare di
queste indicazioni. Tutti questi argomenti sono complessi dal punto di vista concettuale e le teorie
che ne permettono la comprensione devono essere affrontate in modo graduale e con tempi lunghi.
Sono cos?tanti che non sembra possibile che possano essere insegnati e compresi in modo
significativo.
La situazione non ?migliore nel caso della Chimica che nel triennio in esame ?trattata ad un
livello francamente troppo elevato e senza i riferimenti storico epistemologici che danno senso e
significato allo studio di questa disciplina. La struttura della materia, le reazioni chimiche, il
linguaggio simbolico proprio della disciplina vengono “dati? senza problemi, senza cio?nessuna
acquisizione progressiva di questi concetti. Formule, bilanciamenti, rapporti di reazione vengono
indicati come argomenti da trattare in un modo che, si capisce, non possono essere che addestrativi,
dal momento che le leggi classiche della Chimica non vengono neanche nominate. Addirittura sono
argomento di studio le celle elettrochimiche, l’elettrolisi e le loro applicazioni. Nel gruppo di
argomenti che riguardano “La natura vivente e la società” si elencano oltre alla fotosintesi e la
combustione, le reazioni di ossidazione e i prodotti organici come alcoli e acidi carbossilici, gli
idrocarburi, i prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, i carboidrati, le proteine, i lipidi, i
prodotti per lavare e i cosmetici. E?impensabile che tutti questi temi possano essere insegnanti in
altro modo che non sia un elenco da imparare in modo addestrativo. La Chimica, ancora pi?della
Fisica viene considerata e trattata, in queste indicazioni, come disciplina di servizio, assolutamente
non formativa.
Considerazioni conclusive
Nel National curriculum finlandese del 2004, troviamo tutte le tematiche che incontriamo nelle
prove dell’OCSE PISA, tanto che viene il ragionevole dubbio che o le indicazioni siano state fatte
ad hoc per questa indagine internazionale o che, uno sguardo a questo curriculum sia stato dato
nella preparazione delle prove. Dal punto di vista di quello che pu?essere considerato adeguato alla
preparazione di base in campo scientifico ci sembra che possa essere considerata accettabile solo la
parte relativa ai primi quattro anni, basata prevalentemente sull’analisi dei fenomeni. per quanto
infarcita di “educazioni? Per il resto ci sembra che lo scopo sia quello di arrivare il prima possibile
alle trattazioni che implicano la formalizzazione disciplinare. Quest’ultima viene proposta con il
sistema consueto di fornire velocemente i risultati della scienza finita senza preoccuparsi delle
gradualit?necessarie per la comprensione. Un’analisi storico epistemologica manca per la Biologia,
per la Fisica ed in modo particolare per la Chimica. C’è da aggiungere che il monte l’orario
previsto in Finlandia nella scuola di base per l’insegnamento scientifico non ?superiore a quello
italiano. Vengono dedicate 9 ore complessive nelle prime quattro classi per “Studi ambientali e
naturali? tre ore fra la classe quinta e sesta per “Biologia e Geografia?, due ore per “Fisica e
Chimica? sette ore per Biologia e Geografia, sette ore per Fisica e Chimica insegnate
separatamente. Il monte ore orario complessivo ?di 31 ore nelle nove classi, con una media di circa
3,5 ore settimanali. Quindi la quantit?di tempo dedicata all’insegnamento scientifico non ?il fattore
determinante dei migliori risultati ottenuti dagli studenti finlandesi. I fattori determinanti che si
evincono dalla lettura di queste indicazioni sono i contenuti disciplinari, le educazioni alla salute ed
allo sviluppo sostenibile.
C’è da riflettere se sia la strada indicata dal National Curriculum finlandese quella da seguire per
migliorare l’insegnamento scientifico e se sia solo un modo per arrivare a buoni posti nelle
classifiche internazionali.
La gravitazione universale
Tania Pascucci, Liceo Scientifico “F. Enriques”, Livorno
Introduzione
La legge di gravitazione universale costituisce senza dubbio una delle più alte espressioni del pensiero umano. Si tratta infatti di una legge matematica estremamente semplice, intrinsecamente elegante, che sintetizza dentro di se un cammino durato quasi duemila anni (da Aristotele a Newton) e che ha il pregio di unificare i fenomeni celesti con quelli terrestri. Inoltre essa definisce una delle quattro interazioni fondamentali esistenti in natura ovvero la forza che l’uomo, in quanto “animale gravitazionale terrestre”, sperimenta quotidianamente, Ciò premesso, l’autrice ritiene che nell’ambito della scuola Secondaria un argomento fisico di tale rilevanza non possa essere “liquidato”, come spesso accade, in poco più di una lezione frontale, lezione che spesso ha come unico fine l’enunciazione dogmatica della legge, preparando il terreno per una sua successiva applicazione acritica. E’ ormai assodato che un insegnamento di questo tipo non sviluppa negli allievi alcun gusto del conoscere, ma anzi contribuisce ad infondere in loro l’idea di una scienza disumana, fredda, asettica e soprattutto noiosa; la successiva parte applicativa (ovvero l’applicazione della formula alla risoluzione di esercizi e problemi) rischierà di diventare un semplice mezzo per “inculcare”, anche in questo caso dogmaticamente, il principio precedentemente enunciato in modo frettoloso. Bene che vada, con un metodo di questo tipo, gli studenti si ritroveranno, nel loro bagaglio culturale, uno sterile “risultato finale”, ovvero una conoscenza dichiarativa trasmessa da un’autorità.
E’ quindi necessario un cambiamento “radicale” del modo di insegnare Scienza (e nello specifico Fisica). Come dice Bruner “L’immagine della Scienza come impresa umana e culturale migliorerebbe molto se la si concepisse anche come una storia degli esseri umani che superano le idee ricevute……Può darsi che abbiamo sbagliato staccando la scienza dalla narrazione della cultura. Una sintesi forse è necessaria. Un sistema educativo deve aiutare chi cresce in una cultura a trovare un’identità al suo interno. Se questa identità manca, l’individuo incespica nell’inseguimento di un significato1 ”.
In questo lavoro, per affrontare l’argomento in oggetto, si è voluto pertanto recepire le indicazioni di Bruner, dando ampio spazio alla riflessione storico-epistemologica, aiutandosi anche con la lettura di brevi brani tratti dai testi originali degli scienziati che hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione della teoria. La scienza in tal modo si riappropria della sua dimensione umana e culturale, diventa un processo vivo, che può essere narrato anche in forma drammatica, come “una serie di vicende quasi eroiche di soluzione di problemi 1”. Ovvero il contrario del modello di scienza finita, quale viene di solito presentato nel libro di testo. Il nuovo metodo invece contribuirà anche a sradicare la perversa convinzione antiscientifica che le teorie fisiche abbiano un significato assoluto e inalterabile, comprensibile da una comunità di iniziati e quindi inaccessibile agli studenti2,3. Lo studente verrà continuamente sollecitato a confrontare le proprie rappresentazioni mentali con gli schemi costruttivi che si sono realizzati nel corso della storia della scienza, cogliendone analogie, errori, trucchi per aggirare i problemi intricati. Per esperienza personale questo processo di umanizzazione della scienza riduce drasticamente la distanza tra il pensiero dello scienziato e la mente dello studente, crea un “noi” (lo scienziato e gli studenti) che favorisce il confronto, offrendo ai discenti la libertà di sbagliare e di imparare dai propri errori.
Obiettivi del modulo
E’ bene iniziare l’argomento con una lezione introduttiva che chiarisca alla classe la strada che ci accingiamo a intraprendere: arrivare alla formulazione della legge di gravitazione universale scoprendo come questa sia il risultato di un percorso scientifico lungo e tortuoso, talvolta anche contraddittorio ma senza dubbio appassionante, fatto di scoperte, uomini ed idee. La lezione può efficacemente iniziare dalla lettura del seguente brano, tratto dai “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica et i movimenti locali” di Galileo Galilei:
SIMPLICIO: La causa di quest’effetto (cosa è che muove verso il basso gli oggetti terrestri) è notissima, e ciaschedun sa che è la gravità.
SALVIATI: Voi errate, signor Simplicio: voi dovevi dire che ciaschedun sa ch’ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del nome, ma dell’essenza della cosa: della quale essenza voi non sapete punto più di quello che voi sappiate dell’essenza del movente le stelle in giro, eccettuatene il nome, che a questa è stato posto e fatto familiare e domestico per la frequente esperienza che mille volte il giorno ne veggiamo; ma non è veramente che noi intendiamo…. Che principio o che virtù sia quella che muove la pietra in giù…
La lettura di tale brano deve stimolare la discussione su due fronti:
1) La parola gravità di per se non ci dice assolutamente niente sul suo significato. Il significato di un concetto è qualcosa che deve essere costruito e condiviso: Galileo ci ricorda non certo inutilmente che la parola va caricata di significati e a questo concorrono
l’esperienza, la deduzione, l’intuizione attraverso un processo di perfezionamento per approssimazioni successive. Una riflessione di questo tipo contribuirà a scardinare l’eventuale visione dogmatica che lo studente si è fatto della scienza e del suo linguaggio, svilupperà il suo senso critico e lo metterà in guardia da chi introduce termini tecnici senza prima aver dato una certa definizione.
2) Il brano mette in relazione il moto dei corpi sulla terra con i moti delle stelle e dei pianeti e implicitamente preannuncia (nonostante il concetto di forza vada al di là della comprensione di Galileo) la sintesi che opererà elegantemente Newton, ovvero che i due tipi di moto sono regolati da un’unica legge di forza.
In questo contesto introduttivo può essere interessante leggere il versetto di Alexander Pope, contemporaneo di Newton:
“Nature and nature’s laws lay hid in night: God said, let Newton be! And all was light”, ovvero “La natura e le leggi della natura stanno nascoste nella notte; Dio disse “Newton sia!” e fu la luce “,
per sottolineare come la teoria di Newton venne accolta e celebrata con stupore e timore reverenziale anche in ambienti extra-scientifici. Ciò ad esempio non è più avvenuto in epoca moderna per scienziati del calibro di Newton quali ad esempio Maxwell e Einstein, che pure con le loro teorie hanno fatto altrettanta luce.
Che il contributo di Newton alla comprensione del moto dei pianeti sia considerato eccezionale è dovuto al fatto che il suo approccio si distacca dai canoni precedenti: prima di Newton si pensava che i pianeti si muovessero di moto circolare perché ciò corrispondeva al loro “moto naturale”. Ma nella concezione Newtoniana il moto naturale avviene in linea retta in modo uniforme (primo principio della dinamica). Egli capisce che in un moto circolare e più in generale curvilineo deve essere presente una forza che fa variare continuamente la direzione del pianeta stesso. Una riflessione sul cambiamento semantico della parola “naturale” è quasi d’obbligo.
Ma il nostro viaggio è appena iniziato. Conviene procedere per gradi e nelle lezioni successive soffermarsi sui due scienziati che hanno preceduto Newton in questa avventura: Thyco Brahe e Keplero.
Thycho Brahe (ovvero dell’importanza di osservazioni accurate).
Senza addentrarsi in ampie ed approfondite cronologie dell’astronomo danese Thycho Brahe (1546-1601) (per esperienza non appena la lezione prende una tale piega gli studenti assumono un’aria vagamente sonnacchiosa e visibilmente annoiata) sarà bene in ogni modo sottolineare la profonda passione dello scienziato per l’astronomia, che lo folgorò fin dalla tenera età: pur essendo studente di legge, lesse in gioventù le opere di Tolomeo (Almagesto) e di Copernico (De Revolutionibus), intuendo che le idee di entrambi erano basate su tavole astronomiche che davano la posizione dei pianeti con scarsa precisione. Ad esempio Copernico, convinto che le orbite dei pianeti fossero circolari e tenendo conto che per la determinazione di una circonferenza sono necessari e sufficienti tre punti non allineati, si era accontentato di poche decine di osservazioni personali per avvalorare la sua ipotesi. Al contrario Thycho dedicò la propria vita a raccogliere nuovi dati, sempre più precisi e misurati su un lungo arco di tempo, convinto che questa fosse le strada per elaborare una teoria del moto dei pianeti soddisfacente. La sua fama crebbe notevolmente nel 1572, quando riuscì ad osservare una nuova stella nella costellazione di Cassiopea. Questa osservazione, unita a quella di una cometa del 1577, contribuì ad un cambiamento di paradigma, ovvero all’idea che il cielo non fosse immutabile, come previsto dagli antichi. Per trattenere in patria il giovane scienziato nel 1576 Federico II di Danimarca offrì a Thyco l’isola di Hven in cui realizzare un osservatorio: Uraniborg, ovvero il castello dei cieli (fig.1), complesso e costoso quanto gli attuali laboratori di ricerca. Nella cittadella della scienza si raccolsero ben presto un gran numero di scienziati, tecnici e studenti di vari paesi: la loro cooperazione, orchestrata dall’intuito di Thycho, fece fare enormi passi in avanti alla ricerca astronomica, anche grazie alla costruzione di ingegnosissime macchine che permisero di arrivare al limite risolutivo dell’occhio umano (ricordiamo che all’epoca il telescopio non era stato ancora inventato).
A questo punto, se si vuole, si può stimolare una riflessione sullo stato della ricerca in Italia, in Europa, nel mondo. L’offerta del re di Danimarca è un tentativo riuscito di evitare la “fuga di cervelli” all’estero, fenomeno sempre più in crescita nel nostro paese (si pensi che, persino Carlo Rubbia, premio Nobel della Fisica nel 1982, ha ottenuto dalla Spagna ma non dall’ Italia i finanziamenti necessari per la sua ricerca sulle fonti alternative di energia).
Thycho lavorò ad Uraniborg fino al 1597, in quanto dopo la morte di Federico II il governo danese non dimostrò molto entusiasmo nel sovvenzionare ulteriormente le sue ricerche. Fu così che accettò di trasferirsi, portando con se i suoi archivi e numerosi strumenti, a Praga, su invito dell’imperatore Rodolfo di Boemia. Nel 1600, Giovanni Keplero, giovane scienziato già noto nel mondo scientifico per la sua ingegnosità e la sua grande abilità matematica, si unì alla squadra degli assistenti di Brahe, e gli venne assegnato un compito che fino ad allora si era mostrato insolubile: determinare, sulla base dei dati ottenuti ad Uraniborg e a Praga, le caratteristiche geometriche dell’orbita di Marte. Vedremo successivamente come questo compito ingrato sia stato fondamentale per lo sviluppo della teoria di Keplero sulle orbite dei pianeti.
Va detto infine che Thycho restò sempre convinto che la terra fosse ferma, secondo un modello cosmologico che egli stesso aveva ideato, mentre Keplero abbracciò sin dall’inizio l’ipotesi copernicana, tanto che non riuscì a tacere le sue convinzioni neppure durante l’orazione funebre di commemorazione del suo maestro (24 ottobre1601).
Giovanni Keplero (ovvero la cinematica e i prodromi della dinamica del moto dei pianeti)
Giovanni Keplero è noto al vasto pubblico per le sue celebri tre leggi, che danno un’elegante descrizione cinematica del moto dei pianeti e saranno successivamente lo spunto principale da cui Newton trarrà la sua legge di gravitazione universale. Non vanno in ogni modo sottovalutate le sue considerazioni di carattere dinamico. Innanzi tutto egli è il primo scienziato a tentare di ottenere, pur non riuscendovi, una formulazione matematica della forza (ovvero a darne una definizione quantitativa). E’ inoltre sua l’idea che quando una pietra viene attratta dalla terra, è anche la terra che viene attratta dalla pietra: è sua quindi l’idea della forza intesa come interazione, che corrisponde al moderno concetto di forza esplicitato successivamente da Newton nel terzo principio della dinamica. Va dato poi a Keplero il merito di aver spogliato la forza da ogni visione animistica e di avergli conferito qualità squisitamente meccaniche. A conferma di ciò egli scriveva: “Un tempo avevo creduto che la causa del moto planetario fosse un’anima….ma quando capii che queste cause motrici si indebolivano con la distanza dal sole, venni alla conclusione che questa forza è qualcosa di corporeo”.
E’ sempre Keplero a porre l’accento sul fatto che l’attrazione lunare operi in modo analogo alla gravità (e in questo senso lo possiamo senz’altro considerare un precursore di Newton). Egli infatti nella sua opera Mysterium Cosmographicum (1596) arriva a dire: “il comportamento familiare dei corpi cadenti e la curva maestosa tracciata dalla luna lungo la propria orbita sono parti di un medesimo schema grandioso”.
Ma torniamo adesso al problema dell’orbita di Marte. Inizialmente Keplero vi lavorò seguendo le tecniche matematiche convenzionali di Copernico, Tolomeo e Platone, cioè cercando di descrivere il moto attraverso una combinazione di traiettorie circolari.
L’accesso completo ai dati di Thyco Brahe relativi all’orbita di Marte avvenne solo dopo la morte del maestro. L’impresa di rendere coerenti i dati sperimentali con il modello cosmologico tradizionale si rivelò pressoché drammatica e Keplero vi rinunciò al settantesimo tentativo. Egli scriverà in seguito nel suo rivoluzionario lavoro “Astronomia nova”: “Poiché la bontà divina ci ha dato in Thyco Brahe un diligentissimo osservatore, e poiché i suoi dati ci indicano che nei calcoli vi è un errore di 8 minuti, dobbiamo riconoscere e onorare questo favore divino….Non potendo essere ignorati, questi otto minuti hanno, da soli, aperto la strada del cambiamento dell’intera astronomia:su essi è costruita la maggior parte di questo lavoro”. Questo pensiero sintetizza la svolta di Keplero che consiste nell’abbracciare definitivamente l’ipotesi copernicana (oggi diremo di prendere come sistema di riferimento il Sole) e contemporaneamente abbandonare il dogma della circolarità dei moti planetari. Va detto a questo proposito che il disaccordo tra le previsioni e le osservazioni di Thyco, otto minuti di grado, è un risultato che sarebbe stato accettabile per tutti gli astronomi dell’epoca: non lo fu invece per Keplero, che, confidando nell’estrema accuratezza dei dati ottenuti dal suo maestro, prevedeva di trovare un accordo migliore tra teoria ed osservazione. Egli quindi si mise alla faticosa ma appassionante interpretazione dei risultati sperimentali a sua disposizione nell’ambito del nuovo modello cosmologico adottato, senza alcun preconcetto nei confronti della forma delle orbite dei pianeti. Lo scienziato si rese a questo punto conto che i dati a sua disposizione dovevano essere corretti tenendo conto del moto della terra, la cui orbita non era conosciuta con precisione. Il metodo che Keplero utilizzò per studiare la forma dell’orbita terreste consisteva nel considerare innanzitutto una situazione in cui Sole, Terra e Marte risultavano allineati (fig.2). Dopo 687 giorni, ovvero dopo un anno marziano, Marte, a differenza della Terra, tornava ad occupare la stessa posizione (fig. 3). Il punto di intersezione tra le due rette che forniscono la direzione del Sole e di Marte rispetto alla Terra appartiene all’orbita terrestre. Utilizzando diverse osservazioni di questo tipo, Keplero scoprì che l’orbita terrestre risultava quasi circolare, con il sole in posizione leggermente eccentrica. Riuscendo a determinare la posizione della terra ad un dato istante lo scienziato ricavò la sua velocità, scoprendo che la terra si muoveva più velocemente in vicinanza del Sole. Ciò lo convinse ad ipotizzare che il Sole esercitasse sulla Terra (e in generale su tutti i pianeti) una forza di trascinamento che la spingesse lungo l’orbita stessa (ipotesi che naturalmente si rivelerà errata). Va ricordato inoltre che Keplero pose il Sole al centro guidato soprattutto da una visione mistica dell’universo: il Sole, in qualità di fonte di vita e di luce, era più vicino a Dio più dell’indegna Terra, e quindi meritevole di riverenze. Ma questa “nuova” posizione del Sole permise allo scienziato di scoprire che, sebbene il moto della terra attorno al Sole non avvenga velocità costante, tuttavia l’area DA descritta dal segmento che unisce il Sole con la Terra è proporzionale al tempo Dt che occorre per descriverla (vedi fig.4). In formule ciò significa:

(1)
L’espressione a primo membro, ovvero la rapidità con cui l’area descritta varia nel tempo, viene detta velocità areolare. La (1) costituisce la forma matematica della seconda legge di Keplero; lo scienziato successivamente scoprirà che essa è valida per tutti i pianeti.
A questo punto, nota la posizione della Terra ad ogni istante, Keplero poté determinare con precisione la forma e le dimensioni dell’orbita di Marte: ogni punto di tale orbita poteva infatti essere ottenuto dall’intersezione delle congiungenti Terra-Marte ottenute all’inizio e alla fine di un anno marziano (fig.5). Egli pertanto scoprì che l’orbita era un’ellisse e che il sole occupava uno dei due fuochi. A tale scoperta si dà il nome di prima legge di Keplero. Lo stesso accadeva anche per gli altri pianeti di cui si avevano all’epoca dati astronomici a disposizione, ovvero Venere, Terra, Giove, Saturno, anche se l’orbita di Marte era la più eccentrica, in altre parole quella la cui forma si distaccava maggiormente da quella circolare. Sorge allora spontanea la domanda del perché le orbite debbano essere proprio delle ellissi: mentre si può giustificare esteticamente la scelta di Platone per orbite circolari, risulta sorprendente che la natura abbia privilegiato una forma ellittica. Per rispondere a questa domanda non ci si può limitare ad un’analisi cinematica del moto, bensì occorre indagare sulle cause che lo provocano. I tentativi di Keplero di fornire una spiegazione dinamica delle sue leggi non condussero a risultati apprezzabili, anche se la sua ipotesi che i pianeti fossero guidati lungo le orbite da una forza proveniente dal Sole risultò corretta. E’ infatti Newton che dimostrerà la necessità di orbite ellittiche.
Una volta pubblicate le due leggi nel già citato Astronomia Nova, Keplero sentì l’esigenza di mettere i pianeti in relazione tra loro e per parecchi anni tentò varie combinazioni di parametri diversi, allo scopo di determinare una terza legge che leghi tra loro tutte le orbite planetarie. Dopo innumerevoli sforzi, in cui lo scienziato dovette anche patire povertà e malattie, egli giunse finalmente al risultato sperato, in altre parole alla formulazione della legge dei periodi: “I quadrati dei periodi di rivoluzione T sono direttamente proporzionali ai cubi delle distanze medie R dal Sole”, che espressa in formule matematiche diventa:

(2)
Il cerchio si è chiuso. La descrizione cinematica è completa: essa è racchiusa in tre leggi estremamente semplici ed eleganti, frutto di un’attività di ricerca lunga una vita.
Newton (ovvero il trionfo della sintesi attraverso la dinamica).
Ma perché le leggi di Keplero sono così importanti nella storia della gravitazione universale? In questo paragrafo cercheremo di far vedere come le considerazioni cinematiche di Keplero siano servite in qualche modo da trampolino di lancio per Newton, padre indiscusso della dinamica, per arrivare alla formulazione della sua elegante legge: la formula della gravitazione universale.
Dando uno sguardo ai lavori giovanili4 (1675) sul moto dei corpi dello scienziato inglese, si evince che all’inizio della sua carriera Newton abbraccia la fisica di Cartesio e quindi in un secondo tempo dovrà rivedere radicalmente le sue posizioni; nello specifico:
a) Concepisce il moto circolare e più in generale quello curvilineo come soggetto a due tendenze (conati): una tendenza a muoversi lungo la tangente e una tendenza a recedere dal centro. Per cui se i pianeti sono soggetti a un conato centrifugo, deve esserci una forza che, controbilanciando questa tendenza, li trattiene nell’orbita (vedi fig. 6). Sembra che, come Keplero, anche Newton pensi che questa forza sia esercitata dal Sole, ma non menziona mai la parola gravità.
b) Il concetto di forza di gravità in embrione non è concepito come un’azione a distanza (come ad esempio pensava già Keplero, che aveva abbracciato la filosofia magnetica), bensì come una forza che scaturisce a causa di un non ben precisato meccanismo di impatto o azione di contatto, da parte di una sostanza presente nello spazio interplanetario.


L’abbandono del paradigma cartesiano fu senza dubbio stimolato dall’analisi che il fisico Hooke propose nel 1679 a Newton sul moto dei pianeti: egli pensava che i pianeti si muovessero in uno spazio vuoto, privo di resistenza e che su di essi si esercitasse una forza diretta verso il Sole, senza la quale i pianeti avrebbero proceduto in linea retta, secondo il principio di inerzia (fig. 7). A testimonianza di tale influenza vi è il fatto che all’epoca della pubblicazione dei “Principia” (1687) Hooke ritenne che Newton dovesse riconoscergli un contributo nella scoperta della gravitazione universale. Secondo alcuni storici della scienza invece Newton avrebbe maturato autonomamente le sue convinzioni già prima dello scambio di idee con Hooke e in ogni modo spetta solo e soltanto a Newton il merito di aver fornito il modello matematico per la forza di gravitazione universale. E lo sviluppo di tale modello matematico partì proprio dalle leggi di Keplero, in particolare dalla legge delle aree. Newton dimostrò infatti che se la forza che agisce su un pianeta è diretta verso il Sole, allora vale la legge delle aree (è vero anche il viceversa); la dimostrazione è puramente geometrica e può essere proposta anche a studenti del biennio (è auspicabile che in tal caso si possa coinvolgere l’insegnante di Matematica). In riferimento alla fig. 8 (nel punto S dobbiamo immaginare risieda il Sole), si considera una serie di intervalli di tempo Dt in cui alla fine di ognuno di essi agisca istantaneamente, ovvero per un tempo piccolo rispetto a Dt, una forza diretta verso S, che faccia variare istantaneamente la velocità del pianeta, il quale si trova inizialmente in A con velocità iniziale diretta come AB. La misura del segmento AB rappresenta lo spazio percorso dal pianeta nel tempo Dt. Se la forza impulsiva non agisse, il pianeta, una volta giunto in B, continuerebbe a muoversi in linea retta a velocità costante, per il principio di inerzia, raggiungendo nel tempo Dt il punto C’, con AB=BC’. L’effetto della forza fa sì che la traiettoria sia rappresentata dalla poligonale ABCDEF; vediamo come è possibile ricavarsi le posizioni dei punti C, D, E, F. Se nel punto B il pianeta fosse fermo, la forza impulsiva lo farebbe accelerare verso il punto S, in base al secondo principio della dinamica, nel brevissimo intervallo di tempo in cui agisce; il corpo poi procederebbe per inerzia a velocità costante e nel tempo Dt raggiungerebbe ad esempio il punto V. Il moto risultante sarà quindi dato dalla composizione dei due moti descritti e avverrà lungo la diagonale del parallelogramma di lati BV e BC’. Nella dimostrazione Newton infatti invocò il famoso Corollario 1 contenuto nei Principia: “ Un corpo soggetto a due forze simultanee, descrive la diagonale di un parallelogramma, nello stesso tempo in cui descriverebbe i lati di questo parallelogramma se le forze agissero separatamente.” Tale corollario non è altro che la regola del parallelogramma per sommare due grandezze vettoriali e va sottolineato che nel caso in questione viene applicata ai vettori spostamento e . A questo punto passiamo a considerare i triangoli SAB, SBC’ e SBC. I primi due sono equivalenti perché hanno basi uguali (AB=BC’) e stessa altezza (distanza di S dalla retta AC’). Ma sono equivalenti anche i triangoli SBC’ e SBC in quanto hanno la base SB in comune e stessa altezza (ricordiamo che CC’ è parallelo a VB). Per la proprietà transitiva, di cui le relazioni di equivalenza godono, si ha che anche SAB e SBC sono equivalenti, il che dimostra che il segmento che unisce il Sole con i pianeti descrive aree uguali in tempi Dt uguali, che è un modo alternativo per enunciare la seconda legge di Keplero. Se poi si fanno diventare sempre più piccoli gli intervalli di tempo Dt in modo che le forze impulsive si succedano con continuità, il ragionamento continua ad essere valido, basta fare un passaggio al limite; il che significò per Newton doversi inventare una nuova matematica: ma questa è un’altra storia. La congettura di Hooke, ovvero che la forza che agisce sui pianeti sia diretta verso il Sole, è dunque matematicamente ed elegantemente dimostrata!….Ma niente ancora sappiamo dire sulla sua formalizzazione matematica. A questo proposito è bene soffermarsi sul fatto che contemporanei di Newton, quali Il matematico Christopher Wren e l’astronomo Halley, avevano intuito che tale forza dovesse seguire l’inverso del quadrato della distanza dal Sole, tant’è che Wren aveva offerto un premio (un libro di 40 scellini) al primo scienziato che ne avesse dato una dimostrazione soddisfacente. Una legge dell’inverso del quadrato era infatti ragionevole in quanto:
– tale risultato, come vedremo in seguito, è semplice da dimostrare se si considerano orbite circolari; probabilmente Wren e Halliday conoscevano tale dimostrazione. Ma Keplero aveva dato prove inequivocabili che erano delle ellissi e non se ne poteva non tenere conto; in questo caso le difficoltà matematiche erano al di là della portata di Wren e Hallyday.
– Qualunque cosa che irradia all’esterno uniformemente in tutte le direzioni (come ad esempio la luce) si trasmetterà su una superficie che cresce con il quadrato della distanza, quindi dovrà diminuire proporzionalmente in intensità.
Fu necessaria tutta l’abilità matematica di Newton per mostrare che la traiettoria di un corpo è un’ellisse (o più in generale una conica) e il centro di forza occupa un fuoco se e solo se la forza è centrale ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Di per se l’impresa fu notevole e sicuramente sarà stata ammirata da matematici discepoli di Newton, ma non fu certo questo che provocò un grande impatto emotivo sul pubblico. Ciò che invece consacrò Newton al gran successo fu l’aver trovato un “link” tra questa forza e la forza di attrazione gravitazionale che sperimentiamo sulla Terra. Non potendoci quindi cimentare nella dimostrazione originale di Newton approssimiamo le orbite dei pianeti con delle circonferenze (mettiamoci nei panni di Halley e Wren) ed applichiamo ad un pianeta di massa m il secondo principio della dinamica:

(3)


dove v è la velocità, R il raggio della traiettoria e , l’espressione della accelerazione centripeta. Ricordando che con T periodo del moto ed utilizzando la (2) (la circonferenza è una particolare ellisse) si ottiene:

(4)

che mostra come la forza agente sul pianeta sia inversamente proporzionale alla distanza. Inoltre l’accelerazione centripeta non dipende dalla massa del pianeta: ricordiamo che k non può dipendervi perché è la costante di proporzionalità che compare nella terza legge di Keplero ed è la stessa per tutti i pianeti. Le misure compiute in precedenza da Galileo avevano mostrato che anche l’accelerazione di gravità g è indipendente dalla massa del corpo e a Newton certo non sfuggì questa analogia.

Attraverso osservazioni telescopiche, che all’epoca di Keplero non potevano essere effettuate, Newton dimostrò che anche i satelliti di Giove e Saturno obbedivano alle leggi di Keplero, ovvero riuscì a stabilire che tutte le interazioni osservabili tra corpi celesti obbedivano alla (4). Se ora applichiamo il terzo principio della dinamica deduciamo che anche il sole subisce una forza uguale e contraria alla (4). F deve essere pertanto essere proporzionale alla massa del sole ms. Possiamo quindi porre , con G costante ed ottenere:

(5)
che, pur essendo equivalente alla (4) è formalmente più elegante. Fino a questo punto Newton non poteva che limitarsi ad apprezzare la sua formula matematica da un punto di vista estetico, visto che le masse del Sole e dei pianeti non erano noti e che quindi egli non poteva in nessun modo ricavare un valore numerico per G. E quindi decise di spingersi oltre utilizzando il suo ingegno e i dati dell’epoca. Per la misura di G dovremo aspettare circa cento anni: le tecniche sperimentali dovettero un bel po’ affinarsi prima che Cavendish (1731-1810) riuscisse a valutare G attraverso misure di interazioni gravitazionali tra corpi di massa ordinaria. Gli studenti ne verranno consapevoli alla fine del percorso quando assisteranno alla misura di G e vedranno che persino ai giorni nostri non è uno scherzo. Ma allora in che cosa sta la grandiosità di Newton, visto che fino ad ora siamo arrivati ad una formula elegante ma inutile? Ci sono troppe incognite nella (5) per essere risolta. Non si doveva più prudentemente aspettare le risposte numeriche di Cavendish prima di attribuire tutti questi onori a Newton?


Il fatto inequivocabile è che Cavendish non avrebbe misurato un bel nulla senza l’intuizione geniale di Newton, che è quella di aver reso universale la (5). E in questo la luna gioca il ruolo cruciale di mediatrice tra i cieli e la terra. Sfruttando l’analogia precedentemente citata Newton voleva dimostrare che la forza che attira i pianeti è la stessa di quella che fa cadere i corpi sulla Terra e per prima cosa mise alla prova la sua congettura considerando l’interazione Terra-Luna. Poiché la distanza tra Terra e Luna è circa 60 raggi terrestri, l’accelerazione che la Terra esercita sulla luna dovrebbe essere, in base alla (5) di quella che sempre la Terra esercita su un corpo sulla sua superficie, che ha valore 9,8 m/s2. Da questo calcolo si ottiene il valore a=2,7 10-3m/s2. Il valore di a poteva però essere ricavato anche dalla formula , visto che il periodo lunare, circa 27,3 giorni, era noto con una certa precisione. Newton ottenne in pratica lo stesso valore. Il risultato fu a dir poco elettrizzante: era stato trovato un legame quantitativo tra un fenomeno terrestre (l’accelerazione di gravità) e uno celeste (l’accelerazione centripeta della luna). Stava nascendo una vera scienza nuova, universale, che rompeva definitivamente con la concezione aristotelica e realizzava la sintesi: ogni corpo di massa m1 attrae ogni altro corpo m2 con una forza del tipo:

(6)
qualunque sia la distanza tra di essi e in qualunque punto dell’universo essi si trovino! La costante G, impossibile da determinare per Newton, è detta costante di gravitazione universale in quanto Newton suppose dovesse avere lo stesso valore in tutti i casi di interazione gravitazionale. La sua determinazione è basata sull’assunzione che la (6) sia corretta. Solo se è nota G la (6) consente di ricavarsi la massa di un corpo celeste e questo significa che anche attualmente, l’unico modo per ricavare la massa di un corpo celeste è assumere che la (6) sia corretta.
Non si può certo dire che Newton si sia limitato a dedurre la (6); nel terzo libro dei “Principia” egli mostrò come partendo dalla legge di gravitazione universale potessero essere spiegati fenomeni complessi quali le maree, le traiettorie delle comete; lo scienziato pose anche le basi per l’analisi matematica di nuovi problemi teorici, come ad esempio l’influenza di ciascun pianeta sul moto degli altri, che condurrà al noto problema dei tre corpi, che per tutto il settecento impegnerà matematici del calibro di Lagrange, Eulero, Laplace e che rimane ancora oggi un problema aperto oggetto di studio. Convinto sostenitore della validità della sua legge, la applicò in profondità a numerosi problemi celesti e terrestri, con il risultato di farla accettare dalla comunità scientifica e non solo da quella , su larga scala. Non si lasciò certo influenzare negativamente dall’impossibilità di misurare G!
Eppure non mancano dei lati oscuri. Come è possibile che due corpi si attraggano a distanza, senza l’intervento di un agente esterno? Come fanno a scambiarsi le forze d’interazione? Come può tutto ciò avvenire istantaneamente? Sono queste le critiche rivolte a Newton da scienziati del calibro di Huygens e Leibniz. L’attrazione gravitazionale venne vista dai critici di Newton come un miracolo e una qualità occulta. Una teoria veramente meccanica avrebbe dovuto prevedere una trasmissione di forze per contatto diretto. Se nel privato Newton prese molto seriamente queste obiezioni, tant’è che dedicò l’ultima parte della sua vita alla ricerca delle cause della gravità, in pubblico egli si trincerò dietro il famoso hypotheses non fingo, ovvero ignorò le critiche, ponendo più o meno consapevolmente le basi per la nascita della metodologia scientifica moderna: compito della Scienza non è quello di ricercare le cause ultime, bensì quello di fornire formulazioni matematiche giustificate da generalizzazioni induttive. E’ questo in sostanza il paradigma Newtoniano che tanta influenza continua ad esercitare anche ai giorni nostri. Diventa così naturale accettare tale modello che, come ebbe da dire Mach agli inizi del ‘900, “l’inconsueta incomprensibilità divenne una comune incomprensibilità”.
Il percorso può infine concludersi con la misura di G tramite la bilancia di torsione (esperimento di Cavendish), non mancando di aggiungere che tale esperimento è considerato tra le dieci esperienze più “belle” che si siano effettuate nel campo della Fisica, tant’è che molti laboratori di musei scientifici e universitari, includono questa esperienza nella loro offerta didattica. L’illustrazione e l’esecuzione dell’esperienza sono particolarmente significativi per i seguenti motivi:
– non si tratta semplicemente di una verifica a posteriori della legge di gravitazione universale, ma di un esperimento atto alla determinazione di un parametro G che nel paradigma newtoniano è universale. La sua misura correda quantitativamente quell’ardita sintesi tra cielo e terra e apre la strada alla valutazione delle masse dei corpi celesti, primo tra tutti la Terra; non a caso Cavendish stesso chiamò il suo esperimento “pesare la Terra”,
– si tratta di un esperimento molto sofisticato, di non facile esecuzione anche ai nostri giorni: molti sono i fattori di disturbo che possono influenzare la misura (correnti d’aria, temperatura) e che rendono essa stessa intrinsecamente poco precisa; si pensi che la costante G è, tra le fondamentali, quella che è conosciuta con minor precisione. Lo studente ha quindi modo di comprendere come tale esperimento non potesse essere effettuato all’epoca di Newton.
Conclusioni
Alla fine di questo percorso, cui dovranno seguire lezioni più o meno tradizionali sulle applicazioni della legge di gravitazione, con verifiche quantitative in cui lo studente si cimenterà nella soluzione di esercizi e problemi, come possiamo esser sicuri di aver raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissi, ovvero che i nostri studenti abbiano acquisito conoscenze operative e non solo dichiarative, come sicuramente sarebbe successo se fossimo partiti direttamente dall’equazione (6)? Come facciamo a capire che abbiamo contribuito ad una loro formazione scientifica più ampia? Per rispondere a questa domanda possiamo analizzare il pensiero di Arons3, secondo cui, per avere una certa cultura scientifica è indispensabile che:
– si riconosca che i concetti scientifici (ad esempio quello di interazione gravitazionale nel nostro caso) sono frutto dell’immaginazione e dell’intelligenza umana, non sono tangibili e la loro scoperta non avviene come si scopre un fossile o un minerale.
– Si riconosca che, per essere utilizzati, i concetti scientifici richiedono una definizione operativa accurata, che affonda le radici nell’esperienza condivisa e in parole più semplici definite in precedenza; ovvero è necessario che prima ci sia un’idea e poi un nome. La comprensione non risiede nei termini tecnici in se.
– Si comprenda la distinzione tra osservazione (le accuratissime osservazioni di Thyco) e deduzione (le leggi di Keplero), sapendo distinguere tra i due processi in ogni contesto.
– Si sappia distinguere, nella ricerca scientifica, tra il ruolo occasionale della scoperta accidentale (l’eccentricità dell’orbita di Marte) e la strategia meditata del formare ipotesi e del verificarle (la centralità della forza gravitazionale, la sua dipendenza dalla distanza),
– Si capisca il significato della parola teoria nell’ambito scientifico e si abbia un’idea di come queste si formino, si sottopongano a verifica e di come venga concessa loro un’accettazione provvisoria. Si riconosca inoltre che il termine teoria non si riferisce ad una qualsiasi opinione personale, idea non provata od articolo di fede. (il percorso proposto è imperniato sul raggiungimento di questa finalità)
– Si sappia distinguere tra l’accettazione di modelli non sottoposti a verifica (nel nostro caso che nell’era pre-Cavendish l’interazione gravitazionale agisca anche tra due corpi di massa ordinaria) e i presupposti sui cui tali modelli poggiano (equivalenza tra interazione Terra-Luna e forza peso di un corpo sulla superficie terrestre).
– Si capisca in che senso i concetti scientifici e le teorie sono provvisori e non definitivi. Si percepisca il modo attraverso cui tali strutture vengano continuamente rifinite attraverso un processo per approssimazioni successive. (anche questo obiettivo risulta centrale nel nostro percorso).
– Si capiscano i limiti intrinseci della ricerca scientifica, ovvero delle molte domande a cui la scienza non può dare risposta (perché la gravità agisce proprio in questo modo, qual è la sua causa?).
A giudizio dell’autrice è un po’ difficile per un’insegnante di buon senso non essere d’accordo con queste considerazioni; non è altrettanto facile progettare moduli che abbiano tali intenti; questo lavoro ne rivendica la fattibilità. L’argomento qui trattato si presta particolarmente bene a questo proposito, ma ormai sono diversi anni che l’autrice è consapevole che ogni percorso didattico non può prescindere da questi ragionevoli dettami.
Per esperienza personale, se si ha bene in mente tutto ciò, con lo studio e la pratica diventerà naturale affrontare ogni argomento in modo metodologicamente nuovo (a condizione che anche il nostro studio e le nostre ricerche diventino “un modo naturale di lavorare”). Le verifiche potranno comprendere tipologie di domande prevalentemente a risposta aperta, in cui lo studente sarà invitato ad esprimere il proprio pensiero in forma chiara. Riportiamo, per completezza, alcune delle possibili domande:
– Quali miglioramenti, in termini di metodo, apportò Thyco Brahe rispetto ai suoi predecessori? Quali invece sono dovuti a Keplero?
– In che senso le leggi di Keplero sono empiriche?
– Perché la seconda legge di Keplero è così importante nell’ambito della teoria della gravitazione universale?
– Enuncia la legge di gravitazione universale, a parole e in formule e spiega il significato dell’aggettivo universale in questo contesto.
– Discuti le seguenti affermazioni : “le leggi di Keplero danno una descrizione cinematica del moto dei pianeti” “la legge di gravitazione di Newton fornisce una descrizione dinamica del moto dei pianeti”.
Si è voluto riportare questo elenco, breve per motivi di spazio e quindi non esaustivo, per sottolineare come d’altra parte sia indispensabile un tipo di verifica che vada a sondare le competenze acquisite su tutto il percorso e non solo sui risultati finali. I nostri sforzi per un miglioramento della qualità dell’insegnamento potrebbero risultare quasi del tutto vani se non sottoponessimo a valutazione questi aspetti che abbiamo detto irrinunciabili per un ampliamento delle conoscenze scientifiche dei nostri studenti. Gli studenti in generale sono portati ad economizzare i propri sforzi e tendono ad impegnarsi solo su ciò che ha peso ai fini della loro valutazione.
Questo lavoro è stato in parte svolto nell’ambito del progetto “educazione scientifica”, dell’IRRE Toscana, coordinato dal Prof. Carlo Fiorentini, a cui va un particolare ringraziamento.
Bibliografia
1J. Bruner, “la cultura dell’educazione”, Milano, Feltrinelli 1997.
2 T. Pascucci “Il concetto di forza”, percorso didattico pubblicato nel volume “Formare alla Scienza nella Scuola Secondaria Superiore”, a cura di F. Cambi, L. Barsantini, D. Polverini, Armando Editore 2007.
3 A. B. Arons “Guida all’insegnamento della fisica”, Bologna, Zanichelli, 1992.
4. N. Guicciardini, “Newton: un filosofo della natura e il sistema del mondo”, i grandi della scienza, n.2, aprile 1998.
Le leggi della dinamica e la gravitazione universale
Percorso didattico per la classe terza del Liceo Scientifico PNI
Progetto: prof.ssa Paola Falsini (Fisica)
Liceo Scientifico “A.M.E. Agnoletti” Sesto Fiorentino
a.s. 2005/2006
Introduzione
Il percorso didattico qui descritto è stato elaborato, nell’ambito del progetto dell’IRRE Toscana “Educazione scientifica e innovazione didattica-curricolare nelle scuole secondarie”, all’interno del gruppo coordinato dal prof. Carlo Fiorentini; la riflessione introduttiva, cui si rimanda, sul mito della misura nella scienza e sul mito del “metodo scientifico” nell’insegnamento, ha condotto a elaborare e realizzare un percorso didattico che cercasse di affrontare un tema fondamentale, quale quello della dinamica, secondo un approccio diverso da quello usualmente offerto dalla prassi didattica tradizionale, incoraggiata e rinforzata dai manuali scolastici.
In particolare, si è voluta proporre una paziente costruzione di concetti scientifici, invece che una rapida presentazione di definizioni e leggi quale è quella offerta dai manuali; in essi, ben inteso, le leggi sono sempre giustificate attraverso l’esperimento di laboratorio al fine di “rispettare” le tappe di quel metodo scientifico che non manca mai di essere presentato nel primo capitolo di ogni manuale. Ma il tutto si risolve frettolosamente: fornite leggi e definizioni si passa alla fase addestrativa, che ha come unico effetto quello di far memorizzare nozioni e procedure, utili al buon esito delle verifiche scolastiche ma poco significative al fine di un autentica comprensione e dunque di un apprendimento significativo. L’insistenza, poi, sull’uso di un lessico specifico, non accompagnata da una adeguata riflessione sui significati dei termini specialistici, può rafforzare negli studenti la convinzione, più o meno consapevole, che per fornire una spiegazione scientifica di un fenomeno sia sufficiente usare i termini scientifici [Barsantini, 2003]. Lo studio della Fisica, per molti dei nostri studenti, si riduce così a una sterile memorizzazione e manipolazione di formule, invece che rappresentare un’occasione per conoscere i processi vivi del fare scienza [Bruner, 1997: 140], per far sì che le discipline scientifiche contribuiscano, al pari di quelle umanistiche, alla formazione dei nostri studenti.
Queste considerazioni sull’insignificanza dell’insegnamento tradizionale delle discipline scientifiche, e della Fisica in particolare, sono ampiamente supportate dai risultati di diverse ricerche su studenti italiani e stranieri, descritte in letteratura [Arons, 1992; Grimellini, 1991].
L’approccio innovativo che si è voluto mettere in atto (per certi aspetti già sperimentato e documentato dall’insegnante in altre occasioni [Cambi, 2005]) ha cercato di utilizzare la storia della Scienza: non con l’intento di sostituire allo studio della Fisica quello della sua storia, ma cercando altresì di far ripercorrere agli studenti quelle tappe fondamentali che hanno condotto alla costruzione dei concetti e delle leggi che costituiscono il fondamento della Fisica classica. Questo punto di vista sulla storia della scienza si trova espresso con chiarezza ed efficacia in questo brano di J. Bruner [1997:140]: “Non sto proponendo di sostituire alla scienza la storia della scienza. Sostengo invece che la nostra istruzione scientifica dovrebbe tener conto in ogni sua parte dei processi vivi del fare scienza, e non essere un resoconto della “scienza finita” quale viene presentata nel libro di testo, nel manuale e nel comune e spesso noiosissimo esperimento di dimostrazione”. Venendo proprio alla legge fondamentale della dinamica, che è anche il cuore del nostro percorso, l’insegnante ritiene che la prassi didattica tradizionale, secondo la quale la legge è solitamente verificata in una lezione di laboratorio (sostanzialmente attraverso misure di spazi e tempi per un corpo che si muove su una rotaia senza attrito trascinato da un peso), oltre che essere noioso, come afferma Bruner, rappresenti una banalizzazione e, in qualche modo, una mistificazione. Arons [1992: 63]. sostiene che: “Nello studio della fisica, il principio d’inerzia e il concetto di forza sono stati, storicamente, due degli scogli più duri per gli studenti[…]. Non è sorprendente che il problema didattico in questo campo sia così difficile da risolvere, se si tiene conto di quanto tempo fu necessario all’inizio alla mente umana per chiarire questi aspetti dei fenomeni naturali. Coloro che affrontano tale studio per la prima volta devono sempre esaminare di nuovo almeno alcuni degli ostacoli e delle difficoltà originali”. Come vedremo in modo approfondito nella descrizione del percorso, non si tratta solo di verificare una legge ma di costruire concetti chiari e distinti, quali il concetto di forza in un contesto dinamico e quelli di velocità e accelerazione come grandezze vettoriali, attraverso le loro relazioni reciproche.
“Esaminare almeno alcuni degli ostacoli e delle difficoltà originali”, afferma dunque Arons; è proprio ciò che si è cercato di fare: presentare le leggi della dinamica e la legge della gravitazione universale nel loro prodursi storico, soffermandosi con attenzione su alcuni passaggi cruciali, offrendo agli studenti la possibilità di sbagliare, evidenziando come i loro errori siano gli stessi di coloro che nel corso della rivoluzione scientifica del XVII secolo si erano misurati con gli stessi problemi; mostrare come certe idee siano giunte a maturazione attraverso il contributo di diverse menti, con diverse sensibilità, anche attraverso approcci che oggi noi non giudicheremmo rigorosamente scientifici; evidenziare il ruolo decisivo della matematica e quello del confronto tra previsioni teoriche e dati sperimentali. Tutto questo cercando sempre di rendere gli studenti protagonisti, chiedendo sempre il loro intervento, sollecitando la formulazione di ipotesi e la discussione collettiva di esse; lasciandoli, come si è già detto, liberi di sbagliare in modo che il passaggio dalle concezioni di senso comune a quelle scientificamente accreditate avvenisse con piena consapevolezza di ognuno.
La validità di questo approccio, in cui le leggi della dinamica sono presentate contestualmente al tema della gravitazione, trova, ci sembra, particolare conferma in questa affermazione di M. Jammer [1979: 129] secondo cui “Il concetto di forza in Newton è intimamente connesso, storicamente oltre che metodologicamente, al suo profondo studio della gravitazione. (…) Le considerazioni generali di Newton sulla forza sono correlate ai suoi studi sulla gravitazione, in quanto il problema di una spiegazione dinamica dei moti planetari per render ragione delle tre leggi di Keplero era all’ordine del giorno”. Proprio questo dovrebbe essere il filo conduttore di un approccio narrativo allo studio della Fisica: raccontare i problemi che erano all’ordine del giorno per gli scienziati del passato e il dibattito, sempre complesso, vivace, articolato, che ha condotto alla loro soluzione.
DESCRIZIONE DEL PERCORSO DIDATTICO
Il percorso è stato svolto in una classe terza (24 studenti) di un liceo scientifico, corso PNI (le ore settimanali di Fisica sono tre fin dal primo anno); esso ha impegnato la classe per tutto il primo quadrimestre e non si tratta dunque di un approfondimento o di un ampliamento o di una soluzione diversa alla trattazione di un tema particolare del programma…. Si tratta di un ripensamento e di un cambiamento profondo rispetto all’usuale prassi didattica, che interessa un tema fondamentale tra quelli previsti per la classe terza. La scelta del libro di testo operata dall’insegnante è coerente con questo tentativo di innovazione: il manuale in adozione è il “PPC – Project Physics Course” (vol A per la classe terza) la cui versione italiana è edita da Zanichelli. Si tratta, a giudizio dell’insegnante, di un ottimo testo, forse l’unico che non relega gli aspetti storici a mere curiosità o abbellimenti ma ne fa veramente un elemento fondante della trattazione dei diversi temi; e si è in effetti rivelato un strumento funzionale al lavoro che si intendeva svolgere, pur con qualche importante riserva sull’ordine di presentazione dei temi.
Il percorso si è connesso strettamente con il lavoro svolto nell’anno scolastico precedente; nel corso dell’anno 2004/05 la classe era stata impegnata, per circa sei mesi, nello studio del movimento secondo una trattazione originale elaborata dall’insegnante. In sintesi, esso si era così articolato:
- Dall’osservazione del cielo alle rappresentazioni cosmologiche dell’antichità; il moto dei pianeti
- La concezione del movimento nel cosmo aristotelico
- Il problema dei pianeti: la soluzione degli antichi, il sistema copernicano
- Il moto della Terra e l’esigenza di fondare una nuova fisica: Galileo sviluppa una nuova concezione del movimento
- Lo studio del moto di caduta, definizione di accelerazione
- Moto dei proiettili, applicazione della nuova concezione del movimento.
All’interno del percorso si è formulato esplicitamente il Principio di Relatività, proprio come fondamento della nuova Fisica, e vi si possono rintracciare formulazioni implicite del Principio d’Inerzia e della II legge della dinamica, (il percorso rappresenta una modifica e un adattamento alla classe seconda di quello progettato all’interno di Trasversalia cui ci siamo già riferiti [Cambi, 2005]). Come già precisato e come si capirà meglio nel seguito, quanto svolto in seconda è prerequisito fondamentale per il lavoro della classe terza qui presentato.
Il percorso può essere così suddiviso in modo sintetico:
- Le osservazioni di Galileo al cannocchiale e l’affermarsi dell’ipotesi copernicana.
- Keplero, la ricerca dell’Armonia, la determinazione dell’orbita di Marte, la formulazione delle tre leggi.
- “A quo moventur planetae?” Il Principio d’inerzia, la necessità di un’azione per i moti curvilinei, l’idea di attrazione universale di Hooke e Borelli, la ricerca di una spiegazione unica per moti celesti e terrestri.
- Newton: il concetto di accelerazione nei moti curvilinei, l’identità dinamica tra moto circolare uniforme e moto uniformemente accelerato.
- Il concetto di forza impressa, la massa inerziale, la seconda legge del moto; il concetto di forza come interazione e la terza legge del moto.
- Dalle leggi del moto dei pianeti alla legge della gravitazione universale.
1. LE OSSERVAZIONI DI GALILEO AL CANNOCCHIALE E L’AFFERMARSI DELL’IPOTESI COPERNICANA.
Lo svolgimento del percorso ha impegnato la classe fin dall’inizio dell’anno scolastico 2005/06; c’era stata anche una sorta di “anteprima” negli ultimi giorni di scuola dell’anno precedente: poiché agli studenti è stata assegnata, durante l’estate, la lettura di alcuni brani del Sidereus Nuncius di Galileo, si è organizzata una serata di osservazione del cielo con un telescopio disponibile presso la nostra scuola (l’ultimo tema svolto in seconda era stato, tra l’altro proprio l’ottica e lo studio degli strumenti ottici. Si è trattato di una serata particolarmente fortunata in cui è stato possibile osservare nelle condizioni ottimali i satelliti di Giove; l’anno scolastico 04/05 era iniziato con la revisione di un lavoro estivo di osservazione del cielo a occhio nudo e anche per questo l’insegnante ha ritenuto particolarmente significativo e motivante per gli studenti concludere l’anno con questa nuova esperienza di osservazione del cielo.
Dunque, quando ci siamo ritrovati a settembre, siamo partiti dalle osservazioni svolte da Galileo al cannocchiale; l’insegnante aveva assegnato la lettura di alcune parti del Sidereus Nuncius: l’inizio, in cui l’autore descrive in sintesi ciò che ha potuto osservare con il nuovo strumento e le caratteristiche dello strumento stesso; le pagine in cui è descritto l’aspetto “della faccia lunare che è rivolta al nostro sguardo” [Galilei, 1993: 91]e le sue somiglianze con la superficie della Terra; i brani in cui è descritto il diverso comportamento di stelle fisse e pianeti osservati con il cannocchiale, il gran numero di stelle visibili con lo strumento e non osservabili a occhio nudo, ad esempio nella costellazione di Orione; e infine le pagine contenenti la descrizione degli Astri Medicei. Pur non rileggendo tutto in classe, si è voluto soffermarsi abbastanza a lungo su questo testo che gli studenti avevano, comunque, mostrato di aver apprezzato e compreso. L’insegnante ha aggiunto alcune notizie sulla grande popolarità acquistata da Galileo dopo la pubblicazione di questo libro (tradotto, nell’arco di qualche decennio, in Russia, India, Giappone, Cina); di Galileo gli studenti sapevano già molto avendo letto tanti brani nel precedente anno scolastico sia dal Dialogo che dai Discorsi. Come esempi concreti di questa popolarità e di come il cannocchiale abbia contribuito a costruire e diffondere una nuova visione del cielo si è chiesto agli studenti di ricercare il dipinto di Elsheimer La fuga in Egitto e dell’Assunzione della Vergine di L. Cigoli in Santa Maria Maggiore a Roma, cercando di individuarvi gli elementi legati alle scoperte galileiane; compito che è stato assolto con interesse.
In aula d’Informatica si sono cercate alcune foto della faccia della Luna (disponibili ampiamente anche sul libro di testo) e si sono confrontate con i disegni di Galileo; l’osservazione di queste immagini era guidata dalla lettura delle descrizioni di Galileo . Così si è riconosciuto che “il termine che divide la parte oscura dalla luminosa … è segnato da una linea disuguale, aspra e notevolmente sinuosa”; che “un gran numero di piccole macchie nericce … cospargono dovunque quasi tutta la plaga già illuminata dal Sole”, mentre “nella parte tenebrosa della Luna appaiono moltissime punte lucenti, totalmente divise e staccate dalla regione illuminata” [Galilei, 1993: 91-93][i].
FOTO LUNA
Gli studenti non hanno avuto difficoltà a comprendere come questi elementi e il loro mutare d’aspetto con il trascorrere delle ore conducano alla conclusione, che già l’autore ci aveva anticipato, che “la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra” [ib, 91]
E’ stata assegnata come compito a casa la determinazione dell’altezza di una montagna lunare presentata nel libro di testo (si trattava del monte denominato Pitone), secondo un metodo che non si discosta nella sostanza da quello che lo stesso Galileo impiega nel testo; i risultati ottenuti, o in alcuni casi i tentativi svolti, sono stati oggetto di revisione e discussione in classe. In particolare, non si è mancato di far osservare come Galileo non si sia limitato ad aspetti qualitativi ma abbia fornito elementi quantitativi a sostegno delle novità introdotte. Delle credenze di un gran numero di filosofi sulla perfezione dei cieli si era ampiamente letto nel precedente anno scolastico; dunque è stato chiaro come le osservazioni della Luna potessero contribuire a quella sovversion di tutta la filosofia naturale così temuta da Simplicio.
Il libro di testo ci ha offerto molto materiale anche sulle altre scoperte, comprese quelle non descritte nel Sidereus Nuncius; per i satelliti di Giove si sono richiamate le osservazioni fatte a giugno nel prato della scuola (che non è stato possibile ripetere in quel periodo dell’anno scolastico: a metà ottobre, verso le 21, non erano visibili né la Luna né Giove) e si sono ripetute virtualmente mediante un software di simulazione in aula d’Informatica (si è anche provato a impostare la data dei disegni riportati da Galileo nella sua opera, ma le posizioni sono molto variabili al trascorrere delle ore e queste non sempre sono indicate nel testo; inoltre sarebbe stato necessario anche fissare l’ingrandimento uguale a quello delle osservazioni galileiane). Gli studenti hanno compreso bene le implicazioni della scoperta degli Astri Medicei nella disputa cosmologica, ricordando in particolare come uno degli assiomi di Copernico negasse proprio l’esistenza di un solo centro dell’Universo. In relazione alla vicenda umana di Galileo si è anche giustificato il nome attribuito a queste “stelline”, collegandolo alla volontà di lasciare la Repubblica Veneta e tornare in Toscana.
Per quanto più complessa rispetto alle altre analizzate, si è voluto soffermarsi anche sulla scoperta delle fasi di Venere in quanto veramente cruciale per la disputa cosmologica. Attraverso un disegno ben fatto trovato sul web[ii] si è mostrato come si interpreta il diverso aspetto di questo pianeta nel sistema eliocentrico; ma altrettanto importante è stato far osservare, utilizzando disegni presenti nel libro di testo, come nel sistema tolemaico l’aspetto mutevole di Venere non sia giustificabile, in particolare mostrando come Venere non sarebbe mai piena. I diversi aspetti del pianeta sono anche stati osservati in aula d’Informatica utilizzando il solito software di simulazione. Ha divertito gli studenti la lettura dell’anagramma con cui Galileo comunica a Keplero, tramite l’ambasciatore di Toscana a Praga, la scoperta delle fasi di Venere : “Haec immatura a me jam frustra leguntur o.y.” ; le lettere riordinate danno “Cynthia figuras aemulatur mater amorum”che tradotto risulta: “Venere imita le figure della Luna” [Drake, 1988: 234].
La descrizione delle macchie solari, che gli studenti hanno riconosciuto come ulteriore elemento contro l’idea della perfezione nei cieli, ci ha offerto l’occasione per soffermarsi sull’intervento di Galileo nella disputa cosmologica; in particolare si è cercato sul web, letto e commentato un brano della Lettera a Cristina di Lorena [Galilei, 1953]:
“Ma che senza ventilare e discutere minutissimamente tutte le ragioni dell’una e dell’altra parte, e che senza venire in certezza del fatto si sia per prendere una tanta resoluzione, non è da sperarsi da quelli che non si curerebbono d’arrisicar la maestà e dignità delle Sacre Lettere per sostentamento della reputazione di lor vane immaginazioni, né da temersi da quelli che non ricercano altro se non che si vadia con somma attenzione ponderando quali sieno i fondamenti di questa dottrina, e questo solo per zelo stantissimo del vero e delle Sacre Lettere, e della maestà, dignità ed autorità nella quale ogni cristiano deve procurare che esse sieno mantenute”
Pur non essendo il corso di Fisica la sede più adatta per sviluppare questo tema, l’insegnante ha ritenuto buona cosa cogliere l’occasione per presentare la vicenda di Galileo in modo non banale ed eccessivamente semplificato. Si è anche chiesto di cercare in rete l’abiura pronunciata da Galileo, settantenne, il 22 giugno 1633 nel convento della Minerva a Roma. E si è voluto concludere questa fase del percorso leggendo un passaggio di una lettera di Galileo a Keplero, di un anno successiva alle scoperte astronomiche, presente nel libro di testo [AA VV, 1986: 3-28] :
“Ti ringrazio perché per primo e quasi solo, senza aver eseguito osservazioni sperimentali hai dato piena fiducia alle mie osservazioni […] Che cosa dirai dei primari filosofi di questo ginnasio, che pieni della pertinacia del serpente, mai, per quanto io mi offrissi mille volte di mettermi a loro disposizione, vollero vedere, né i pianeti, né la Luna, né il cannocchiale?”
Questo ci ha dato l’occasione per presentare la fase successiva del percorso.
2. KEPLERO, LA RICERCA DELL’ARMONIA, LA DETERMINAZIONE DELL’ORBITA DI MARTE, LA FORMULAZIONE DELLE TRE LEGGI.
2a. L’adesione al copernicanesimo
Si sono introdotte prima di tutto alcune notizie biografiche, avvalendosi sia del libro di testo sia della pubblicazione dedicata a Keplero nella collana “I Grandi della Scienza”; in particolare si è sottolineata l’infanzia difficile, i gravi problemi familiari, l’interesse per i fenomeni astronomici risalente a due episodi felici dell’infanzia: il passaggio di una cometa nel 1577 e l’eclissi di Luna del 31 gennaio 1580, durante la quale egli vide la Luna stessa farsi tutta rossa [Lombardi, 2000: 5]. Di questo fenomeno è stato possibile fornire una spiegazione; dato che l’ultimo tema dell’anno scolastico precedente era stato proprio l’ottica, è sembrato all’insegnante che fosse giusto mostrare come ciò che si è studiato ci permette di interpretare un fenomeno interessante e che molti avevano avuto occasione di osservare. Questi episodi sono anche serviti a descrivere e giustificare la grande importanza attribuita da Keplero all’influenza degli astri, con la quale giustificava tutto ciò che di negativo aveva segnato la sua vita familiare. E’ stata per gli studenti un’occasione per riflettere sull’astrologia, sul perché avesse senso praticarla a quell’epoca. Tra gli aspetti biografici di rilievo è il periodo della formazione, dal 1586, presso il seminario di Maulbronn prima e di Tubinga poi: si è esaminato con gli studenti, commentandolo in modo divertente, l’orario didattico settimanale per una classe di seminario superiore; ma soprattutto si è sottolineato il ruolo fondamentale nella formazione del giovane astronomo di uno degli insegnanti, Michael Maestlin. Costui è oggi annoverato tra le sole 9 persone che hanno realmente letto e compreso il De Revolutionibus di Copernico nei cento anni successivi alla sua pubblicazione (e tra queste vi sono anche lo stesso Keplero e Galileo!); e dunque si capisce come abbia potuto educare Keplero “a immaginare i fenomeni celesti” sotto i due punti di vista tolemaico e copernicano. Gli studenti hanno espresso sorpresa per questo dato, che sottolinea la grande complicazione della descrizione dei moti celesti, anche nella visione copernicana, e prepara a comprendere quanto rilevante sia dunque stato il ruolo di Keplero.
Gli aspetti biografici fin qui trattati ci hanno introdotti ad affrontare i contenuti dell’opera di Keplero; si è scelto di cominciare con la lettura di un brano tratto dall’inizio del Mysterium cosmographicum [Rossi, 1984: 159]. Si è capito subito che non avremmo potuto leggere Keplero come nell’anno precedente avevamo letto Galileo, e anche, a giustificazione delle difficoltà incontrate, il perché quest’ultimo non l’abbia letto! Nel brano in questione Keplero parla di come, grazie al “celeberrimo Michael Maestlin, mosso dall’insufficienza della comune concezione del mondo” avesse concepito “un tale entusiasmo per Copernico” da difendere in molte occasioni la sua concezione del mondo. Keplero vuole rispondere a tre domande:
– Perché i pianeti sono proprio in quel numero?
– Perché le estensioni degli orbi sono proprio quelle?
– Perché i tempi di rivoluzione sono proprio quelli?
A questo punto si sono dovuti recuperare alcuni elementi relativi al lavoro dell’anno precedente; in particolare si è dovuto precisare che la parola orbe presente nel titolo dell’opera di Copernico, significa sfera; si è cercata su Internet un’immagine dell’universo copernicano, facendo notare quanto, a una prima occhiata, sia simile all’universo tolemaico. L’insegnante ha ritenuto necessario esaminare alcuni aspetti tecnici dei due sistemi, tolemaico e copernicano; in particolare gli eccentrici e gli equanti, che furono introdotti per spiegare le irregolarità del moto dei pianeti (evidenti dalla registrazione, presente sul libro di testo, delle retrogradazioni del pianeta Marte). Lo si è fatto basandosi sulle descrizioni presenti nel libro di testo e anche ricorrendo alle animazioni molto efficaci presenti sul sito internet dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza[iii] (nel seguito IMSS).
Ricordiamo che, in Tolomeo, l’eccentrico (D nella figura) è il centro della circonferenza (deferente) percorsa uniformemente dal centro dell’epiciclo (C nella figura, l’epiciclo è la circonferenza su cui si muove il pianeta); l’equante (E nella figura) è il punto rispetto al quale la velocità angolare del centro C dell’epiciclo è uniforme.
Rappresentazione grafica
Per la comprensione dell’idea dell’equante è stato necessario costruire insieme agli studenti la definizione di velocità angolare; non si è chiesto di andare sul libro di testo a studiarsi una definizione, ma si sono invece invitati gli studenti a fare qualche esempio concreto di moto circolare; chi ha pensato a una ruota, chi a disco di vinile, chi a qualcos’altro ancora. I vecchi dischi di vinile sono oggetti che gli studenti appassionati di musica conoscono bene; e proprio ricordando che esistono i 33 giri e i 45 giri si è cercato di capire cosa significassero questi numeri. Così, anche ricordando la parola periodo letta in Keplero, si è giunti alla definizione. Come consolidamento si sono assegnati esercizi per casa e si chiesto di cercare qualche esempio di velocità angolare in dispositivi domestici e di trasformarla in radianti al secondo.
Si sottolinea la validità di questo procedimento che ci ha portato a introdurre una nuova grandezza legandola ad un preciso contesto; dunque, prima un significato, poi un nome, una definizione
E’ stato necessario questo approfondimento su equanti ed eccentrici per fornire gli elementi su cui ha lavorato Keplero e poter comprendere appieno, successivamente, la rilevanza del cambiamento da lui apportato. Proprio la fatica a star dietro a un simile schema geometrico, e il fatto che lo stesso Copernico non abbia potuto rinunciare ad alcuni di questi elementi, ha preparato il terreno per apprezzare la grande novità dell’opera di Keplero.
Proseguendo la lettura del brano del Mysterium abbiamo appreso come Keplero giustificasse la ragione del numero dei pianeti: i pianeti sono sei perché 5 sono i solidi regolari, o solidi platonici. Nelle sue parole [Rossi, 1984: 161]:
“L’orbe della Terra è la misura di tutti gli orbi. Circoscrivi ad essa un dodecaedro, la sfera che a sua volta lo circoscrive è quella di Marte. Alla sfera di Marte circoscrivi un tetraedro, la sfera che lo contiene è quella di Giove. Alla sfera di Giove circoscrivi un cubo, la sfera che lo racchiude sarà quella di Saturno. Nell’orbe della Terra inscrivi un icosaedro, la sfera inscritta in esso è quella di Venere. A Venere inscrivi un ottaedro, in esso sarà inscritta la sfera di Mercurio.”
Disegno solidi Keplero
Gli studenti non conoscevano i solidi regolari e se ne è data una trattazione essenziale, soprattutto spiegando perché essi possono essere solo cinque. Dopo aver cercato in Internet una presentazione adatta, l’insegnante ha deciso di proporre alla classe quella di Wikipedia, l’enciclopedia libera in rete[iv]; è stata anche un’occasione per riflettere sulla disponibilità di informazioni in Internet e per invitare gli studenti a essere critici e attenti rispetto a ciò che con estrema facilità si può trovare.
Il sito dell’IMSS anche su questo argomento ci ha offerto un’animazione ben fatta, fedele alla descrizione di Keplero che si era letta; inoltre, in quel periodo era allestita al Museo la mostra Il numero e le sue forme, ove si trovava esposta una ricostruzione in legno del modello cosmologico del Mysterium e una studentessa ha deciso di visitare la mostra una domenica mattina, riferendone con entusiasmo all’insegnante.
Si è scelto di soffermarci sulla questione dei solidi platonici per evidenziare un modo di pensare che sembra aver poco a che fare con criteri scientifici, la convinzione che guidava Keplero che fosse possibile scoprire nella natura leggi scritte da Dio, che l’indagine sui fenomeni naturali si traducesse in una ricerca dell’Armonia; gli studenti hanno colto con interesse questo aspetto e l’insegnante ha fatto presente che anche oggi molti scienziati, pur non parlando di leggi di Dio, sono guidati nella loro ricerca dalla fiducia nella semplicità, bellezza, eleganza delle leggi della natura.
2b. La formulazione delle prime due leggi
L’adesione al copernicanesimo di Keplero è rafforzata da questa “scoperta” relativa ai solidi regolari; ma la partita tra sistema eliocentrico e geocentrico non si giocava certo su un singolo dettaglio. Il libro di testo offre a questo proposito un’ottima analisi del dibattito sul sistema copernicano, che è stata letta in classe e discussa con gli studenti. Diversi elementi erano già conosciuti (in particolare le obiezioni fisiche al moto della Terra), altri erano nuovi e gli studenti vi hanno colto dei collegamenti con altri temi di Fisica studiati; di particolare rilievo l’intervento di uno studente che ha ricordato la teoria dell’horror vacui in relazione alla necessità di “riempire” gli spazi tra le orbite che erano state calcolate da Copernico come lontanissime tra loro.
Seguendo la biografia di Keplero siamo giunti all’anno 1600 in cui Keplero lascia Graz, dove aveva insegnato matematica dal 1594, per recarsi presso l’astronomo Tycho Brahe che era matematico imperiale a Praga; Keplero era divenuto famoso e stimato grazie al Mysterium e la prospettiva di diventare assistente di Tycho era estremamente allettante per lui.
La figura di Tycho era stata in parte presentata nell’anno precedente soprattutto per la convinzione dell’immobilità della Terra. Qui si sono presentati più in dettaglio l’opera di Tycho e il suo modello cosmologico, evidenziando gli elementi innovativi; analizzando il sistema del mondo proposto da Tycho gli studenti hanno colto l’impossibilità dell’esistenza delle sfere celesti, gli orbi di Copernico. Esse infatti si sarebbero dovute intersecare e questa impossibilità condusse Tycho a credere nella fluidità dei cieli e a introdurre il moderno concetto di orbita. Anche in questa occasione si è mostrata l’animazione presente sull’argomento sul sito IMSS.
Disegno universo secondo Tycho
Ancora più importante per lo svolgersi del nostro percorso è il contributo dato dall’astronomo danese a migliorare la precisione delle osservazioni nei cieli. Far comprendere cosa significhi dato osservativo in astronomia ha rappresentato una difficoltà non da poco, di cui gli studenti non erano neppure consapevoli. Se è vero che nella nostra scuola gli studenti hanno poche occasioni per fare misure, nel caso di misure astronomiche le occasioni non ci sono proprio e non è neppure chiaro che cosa rappresentino i numeri che risultano dalle misure. D’altra parte il ruolo dell’anomalia quantitativa in questo contesto è stato cruciale [Kuhn, 1985: 226] e dunque era necessario fornire almeno qualche esempio concreto per dare un significato all’espressione disaccordo con i dati osservativi in campo astronomico o miglioramento nella precisione delle osservazioni. A questo scopo si è ritenuto indispensabile introdurre le coordinate alto-azimutali di un astro. Il libro di testo ne fornisce una definizione chiara, contestualmente ad alcune tabelle recanti dati di osservazioni del Sole e della Luna. Per esercitarsi sulla definizione fornita si è utilizzato un pacchetto software di simulazione del cielo, chiedendo agli studenti di verificare, come primo esempio, quali fossero le coordinate alto-azimutali del Sole in quel momento (erano le 12,20 dell’11/10, l’altezza era circa 39° e l’azimut circa 165°). Si è chiesto poi di verificare le coordinate alto-azimutali in alcuni casi particolari: quanto sarebbe diventato l’azimut del sole da lì a pochi minuti, qual è l’altezza della Polare vista dal Polo Nord e dall’equatore, etc.
Si sono anche mostrate una tavola astronomica relativa ai passaggi della cometa di Halley (l’unica che è stato possibile reperire in Internet e che fosse “decifrabile”: si leggono anni, segni zodiacali, fasi di moto retrogrado o diretto, … ; si può notare il miglioramento nella precisione dei dati nel corso dei decenni …) e alcune tavole presenti sul libro di testo.
A questo punto si sono descritti alcuni miglioramenti tecnici apportati da Tycho Brahe nell’osservazione del cielo, sottolineando che si trattava comunque di osservazione ad occhio nudo; in particolare, oltre all’importanza di costruire strumenti più grandi, ci è soffermati sulla correzione che è necessario apportare per tener conto della rifrazione dell’atmosfera terrestre, applicando una conoscenza di ottica del precedente anno scolastico. La precisione che può dunque vantare Tycho, per i dati da lui raccolti, risulta essere di 4’; si è confrontata con quella del nostro pacchetto di simulazione, che fornisce fino al millesimo di grado, e con quella dei sistemi tolemaico e copernicano che prevedevano le posizioni degli oggetti celesti con uno scarto di 2°. Dunque per Keplero recarsi a Praga significa, data la morte di Tycho dopo neanche due anni dal suo arrivo, entrare in possesso dei preziosi dati del danese; gli era stato chiesto di lavorare intorno al problema dell’orbita di Marte, che, con le irregolarità del suo moto, da sempre aveva messo alla prova l’ingegno degli astronomi matematici di ogni epoca, così come aveva impegnato senza successo un aiutante di Tycho, Longomontano. Keplero è convinto che Tycho abbia fatto cattivo uso dei dati preziosi da lui stesso ottenuti, a causa della sua adesione all’idea dell’immobilità della Terra, ma ha grande rispetto e ammirazione per lui, come esprime nel brano dell’Astronomia Nova, l’opera pubblicata nel 1609 in cui sono enunciate le prime due leggi, in cui ne parla come di diligentissimo osservatore. Attraverso il libro di testo ed altre letture [Kuhn, 1972: 269-271; Rossi, 1984: 164-165] si è presentato il lavoro di Keplero intorno al problema dell’orbita di Marte; in particolare si è sottolineato l’immane impegno profuso nei 70 tentativi di calcolo da lui operati, nel corso di quasi 10 anni, per giustificare i dati a disposizione con le tecniche dell’astronomia copernicana; l’ostinata ricerca di combinazioni opportune di moti circolari uniformi, fino alla resa, potremmo dire, all’abbandono del dogma della circolarità. Infatti, egli giudica inaccettabile lo scarto di 8’ ottenuto tra la posizione di Marte prevista dai suoi calcoli e quella fornita dal diligentissimo Tycho, come viene dichiarato nell’Astronomia nova [AA VV, 1986: 6-8]:
“Poiché la bontà divina ci ha dato in Tycho Brahe un diligentissimo osservatore, e poiché i suoi dati ci indicano che nei suoi calcoli vi è un errore di 8 minuti, dobbiamo riconoscere e onorare con gratitudine questo favore divino […]. Non potendo essere ignorati, questi 8 minuti hanno, da soli, aperto la strada al cambiamento dell’intera astronomia”
Anche se non era proprio possibile avventurarsi nei tecnicismi dei suoi tentativi, si è cercato di dare grande enfasi a questo passaggio dell’opera di Keplero, a questo momento fondamentale della storia dell’astronomia in cui si abbandona l’idea, espressa già da Platone, che gli oggetti celesti debbano muoversi secondo una qualche combinazione di moti circolari per giungere all’orbita ellittica. Se alcuni punti dell’opera di Keplero, come si è già visto e come si vedrà anche più avanti, ce lo fanno apparire come uno studioso lontano dalla figura del moderno scienziato, qui l’importanza da lui attribuita ai dati osservativi, che lo conduce ad affrontare il problema senza ipotesi preliminari, ne fanno un personaggio decisamente moderno.
Come si è già avuto occasione di osservare, il manuale in adozione si è rivelato uno strumento particolarmente funzionale al percorso; così, anche nella descrizione della determinazione delle prime due leggi da parte di Keplero ci si è potuti senz’altro affidare alla trattazione presentata. Gli studenti hanno mostrato di apprezzare il procedimento ingegnoso di Keplero, attraverso cui egli ha determinato, per punti, prima l’orbita della Terra e la legge delle aree e poi l’orbita di Marte. L’insegnante ha anche voluto proporre una trattazione del problema presentato in un testo di A. Einstein [1975: 48-51] in cui l’autore sottolinea la genialità di Keplero (“dobbiamo ammirarlo e onorarlo per questo”) e descrive il metodo di triangolazione da lui usato in termini molto efficaci. Gli studenti, che già conoscevano questo metodo, hanno apprezzato il procedimento di Keplero, come si è potuto capire dalle descrizioni puntuali che ne hanno fornito nelle verifiche scritte e dall’impegno con cui si sono sforzati di comprenderne a fondo i dettagli.
Dunque l’orbita dei pianeti è un’ellisse, “il problema dei pianeti era stato infine risolto”; di fronte a questo risultato di Keplero si è cercato di suscitare negli studenti quell’emozione che suscitano nel lettore le parole di Kuhn [1972: 272]. E anche a questo scopo si è approfondito la conoscenza di questa curva. Gli studenti ricordavano molto bene che si tratta di una delle possibili sezioni coniche (argomento trattato nel precedente anno scolastico, quando si è studiata la traiettoria parabolica dei proiettili); se ne è data la definizione come luogo geometrico (lasciando all’insegnante di matematica la dimostrazione che si tratta della stessa curva) e se n’è fatta la costruzione con CABRI, evidenziando i casi limite e assegnando per casa la costruzione sul quaderno. Sono anche state suggerite alcune situazioni in cui osservare un’ellisse (ad esempio, inclinando un calice di forma conica contenente del liquido). Di particolare importanza la definizione di eccentricità, che, come sempre, si è cercato di costruire insieme agli studenti; a questo proposito si sono prima presi in esami alcuni disegni dell’astronomia tolemaica e copernicana, osservando che l’eccentricità era definita come la distanza tra il centro del deferente e la Terra o il Sole, rispettivamente.
Si è voluto, a questo punto, dedicare un approfondimento alle proprietà ottiche delle coniche, la cui conoscenza dobbiamo proprio a Keplero; questi si era dedicato allo studio dell’ottica perché aveva capito l’importanza di conoscerne le leggi al fine di apportare correzioni alle osservazioni astronomiche. Le domande a cui voleva rispondere erano del tipo: Da dove viene la luce rossa sulla Luna nelle eclissi totali? A cosa è dovuta la corona luminosa intorno al Sole durante le eclissi totali di Sole? Perché la Luna diminuisce di diametro durante le eclissi di Sole? [Lombardi, 2000: 37] Gli studenti ricordavano il contributo importante di Keplero per una corretta descrizione del fenomeno della visione (il cosiddetto ribaltamento della piramide ottica). Collegarsi al tema dell’ottica studiato nella classe seconda ha offerto l’occasione per mostrare come gli stessi strumenti geometrici e matematici siano utili a descrivere diversi aspetti della realtà; l’insegnante ha giudicato interessante, inoltre, far notare come il cerchio e la sfera non risultassero in ottica “le figure perfette a cui la fisica avrebbe dovuto dogmaticamente rifarsi”. [Lombardi, 2000: 43] (uno studente ha osservato che “così come le coniche hanno proprietà ottiche migliori, l’ellisse in astronomia risolve il problema dei pianeti, cosa che il cerchio non consentiva”). Infine, è sembrato importante far conoscere l’origine della parola fuoco, che sappiamo introdotta proprio da Keplero, così importante nella definizione dell’ellisse come luogo geometrico e nella formulazione della legge delle orbite (nel fuoco sta il Sole).
La proprietà dello specchio ellittico di riflettere in un fuoco un raggio di luce proveniente dall’altro fuoco è stata ottenuta con CABRI e poi dimostrata rigorosamente (la stessa cosa si è ripetuta con lo specchio parabolico, per il quale il secondo fuoco non cè, hanno detto gli studenti, o meglio è lontanissimo), Grande interesse e curiosità, com’era da aspettarsi, ha suscitato la visualizzazione di questa proprietà con uno specchio ellittico disponibile in laboratorio su cui si fa incidere la luce di un laser in modo che provenga da un fuoco. Il nostro Istituto ha il privilegio di custodire i materiali didattici di Emma Castelnuovo; tra questi, oltre allo specchio ellittico, abbiamo osservato alcuni pannelli recanti costruzioni grafiche e fotografie sulle proprietà delle coniche; di particolare interesse la foto di un specchio parabolico in Niger così grande che la temperatura nel fuoco raggiunge i 400°C.
FOTO SPECCHI ELLITTICI E PARABOLICI
E’ stata anche un’occasione per riflettere sul significato dei modelli matematici nella descrizione della realtà; si capisce che lo specchio che abbiamo non è un’ellisse! Ci si è ricollegati con la discussione, letta lo scorso anno nei Discorsi, sulle traiettorie dei proiettili (se siano davvero parabole). Aristotele non pensava che la matematica fosse adatta a descrivere la realtà, e questo ha segnato profondamente la storia dell’indagine dell’uomo sulla natura.
2c. L’Armonia del mondo, la legge dei periodi
La formulazione della terza legge di Keplero ci ha avvicinato a un tema, a un’idea che è un filo conduttore di tutta l’opera di Keplero, il Sole come anima motrix; in effetti questa era già presente nel percorso che lo aveva condotto alla legge delle aree: la virtù motrice emanata dal Sole è ciò che fa muovere il pianeta più rapidamente in vicinanza del Sole, che è quanto Keplero ha trovato in relazione ad alcune porzioni dell’orbita della Terra, prima, e poi di Marte. Un’idea affascinante, una legge semplice, quella delle aree, che dunque viene estesa a tutte le posizioni lungo l’orbita e a tutti i pianeti; tanto che essa servirà per determinare quella che viene denominata prima legge. Anche la presentazione di questa fase del percorso di Keplero verso le sue leggi è stato svolto basandosi sul libro di testo.
Ancora di più che per le prime due, l’idea del Sole come anima motrix ha guidato Keplero alla formulazione della terza legge; egli afferma che “il Sole è la causa prima del moto dei pianeti” [Rossi, 1984: 167], e proprio la preoccupazione per la ricerca di una causa fisica per tale moto rappresenta un mutamento notevole nel modo di considerare il moto nei cieli. Le sue leggi sono ancora leggi empiriche ma si capisce che egli è alla ricerca di un principio. A questo proposito si è colto l’occasione per ricordare che anche Galileo, per il moto di caduta dei gravi, ha proceduto in modo simile: diversamente da ciò che ci racconta nei Discorsi, prima ha stabilito empiricamente una legge (quella della dipendenza quadratica tra spazio e tempo di caduta) e poi è andato alla ricerca di un principio e l’ha trovato nella dipendenza lineare della velocità dal tempo.
Questa ricerca della causa del moto s’impone, gli studenti l’hanno capito bene, dal momento che l’orbita è un’ellisse; come vedremo più avanti, il moto circolare, per millenni, è stato considerato un moto naturale, che non necessita di una causa. Ma perché un’ellisse?
Come abbiamo già avuto occasione di osservare, leggere direttamente i testi di Keplero è difficile; così dall’antologia già citata di P. Rossi ci si è limitati a qualche passaggio per suggerire il modo di concepire l’azione del Sole da parte di Keplero, e cogliere, più avanti, il mutamento importante, da lui stesso preparato, che troviamo in Newton, ma anche in altri suoi contemporanei. Keplero scrive che “Il Sole è il corpo più bello … l’occhio del mondo … la lanterna … il focolare del mondo … il primo motore dell’universo” [Rossi, 1984: 166-167]. Gli studenti hanno ricordato, per contrasto, il primo mobile dell’universo aristotelico-tolemaico e il modello, visto l’anno precedente all’IMSS, della Sfera di Santucci (con la manovella che permetteva di metterla in rotazione!). Si è fatto appena un cenno all’affermazione che la virtù motrice fosse magnetica e a come Keplero fosse stato influenzato dall’opera di William Gilbert De Magnete, pubblicata nel 1600; per presentare questa idea si è utilizzata l’animazione relativa alle leggi di Keplero sul sito IMSS.
La ricerca dell’Armonia nel moto dei pianeti, la convinzione che, dato che ruotano tutti intorno al Sole, dovesse esistere una regola semplice, ha infine condotto Keplero alla formulazione della sua terza legge: “Keplero cercava l’armonia e non si sarebbe mai fermato” [Cohen, 1974: 162] ; l’annuncio di questa scoperta lo abbiamo letto direttamente dalle sue parole, riportate sia nel libro di testo che in una citazione più ampia [Koyré, 1966: 288] in un brano di una delle sue ultime opere, l’Harmonices Mundi:
“ … una volta trovate le vere distanze degli orbi con l’aiuto delle osservazioni di Brahe e con un lavoro continuo durato moltissimo tempo, finalmente la vera proporzione dei tempi periodici alla proporzione degli orbi
sera quidam respexit inertem,
respexit tamen et longo post tempore venit.
E se vuoi sapere il tempo esatto di questa scoperta, la concepii l’8 marzo di quest’anno 1618, ma non essendo stata confermata dai calcoli la respinsi come falsa. Il 15 maggio, tornando con nuovo impeto, l’idea dissolse le tenebre della mia mente, con tanta pienezza e accordo tra le mie fatiche di diciassette anni sulle osservazioni di Brahe e i miei studi presenti, che in un primo tempo pensavo di sognare e di assumere erroneamente come un principio ciò che invece si doveva dimostrare. Ma è cosa cortissima ed esattissima che i tempi periodici di due pianeti qualunque sono precisamente in proporzione sesquialtera delle loro distanze medie, ossia dei loro orbi.”
Questo brano ci descrive un momento di grande emozione e solo per questo meritava di essere letto: lo scienziato, al pari di un artista, coglie il frutto di una fatica, di un travaglio e ne gioisce; è un aspetto della ricerca scientifica che è importante far conoscere agli studenti. Inoltre, proprio perché si parla di un lavoro durato moltissimo, si capisce come il legame tra dati sperimentali e legge non sia così immediato come appare attraverso i manuali scolastici, se si leggono certe descrizioni di esperienze di laboratorio; e quanto, invece, il ruolo dell’intelligenza creativa dello scienziato sia fondamentale.
Keplero cita un testo delle Egogle di Virgilio (Egl I, vv 27/29) che gli studenti hanno tradotto con l’aiuto dell’insegnante di lettere: “ … benché in ritardo, certo, degnò di uno sguardo me che me ne stavo inerte: tuttavia mi guardò e venne a me dopo lungo tempo”.Per il poeta il soggetto era la libertà, per Keplero è la verità. E anche l’enunciato della legge ci ha impegnati in un lavoro di tipo linguistico, la ricerca del significato dell’aggettivo sesquialtera. Sul vocabolario della lingua italiana abbiamo trovato che significa una volta e mezzo l’altra, e l’insegnante ha poi fatto presente che nella Giornata prima dei Discorsi Galileo utilizza spesso questo aggettivo parlando di armonie musicali (ancor oggi è termine usato in matematica per indicare un relazione a metà tra lineare e quadratica, sesquilinear).Dunque, con parole nostre, abbiamo enunciato la terza legge: “i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti stanno tra loro come i cubi delle loro distanze medie dal Sole”. Questa è dunque la legge che ha affascinato Keplero, che lo ha fatto gioire; si è fatto presente che la Musica, l’Aritmetica, la Geometria e l’Astronomia erano insegnate insieme (e infatti alcuni hanno ricordato che nell’orario scolastico di Keplero c’era teoria musicale e aritmetica). Si è rammentato che anche per Galileo la formazione musicale fu molto importante: gli studenti ricordavano bene che la musica aveva a che fare con la questione della misura del tempo per la discesa sul piano inclinato. Senza poter approfondire troppo, si è presentata, leggendo, con un po’ di fatica, un brano dei Discorsi, l’idea di Galileo che la tonalità di un suono sia determinata dalla frequenza della vibrazione che lo produce e la sua constatazione che il nostro orecchio riceve alcune combinazioni di note con diletto e altre con molestia; fino alla conclusione che uno degli accordi migliori si ha proprio quando tra le frequenze delle note suonate c’è un rapporto di 3 a 2 (quello che, tanti lo sapevano, si chiama accordo di quinta).
Questa convinzione di Keplero che si dovesse trovare un’armonia musicale nel Sistema del Mondo ha fatto un po’ sorridere; ma come anche afferma Kuhn [1972: 280]: “L’applicazione pratica che Kepler fa della fede nelle armonie può apparire ingenua, ma questa stessa fede non è sostanzialmente diversa da ciò che stimola certe fasi della miglior ricerca contemporanea”; occasione importante, dunque, per far conoscere ai nostri studenti le diverse strade della ricerca scientifica.
3. “A QUO MOVENTUR PLANETAE?” … LA RICERCA DI UNA SPIEGAZIONE UNICA PER MOTI CELESTI E TERRESTRI.
3a. Le concezione sul movimento in Galileo e Cartesio
Abbiamo visto che con Keplero comincia a delinearsi il problema delle cause fisiche del moto dei pianeti; anche se l’anima motrix di Keplero, per cui il Sole doveva in qualche modo trascinare continuamente i pianeti intorno a sé, è ancora ben lontana dalla concezione che stiamo andando a costruire. Per affrontare questo tema delle cause fisiche abbiamo ripreso alcune concezioni del movimento in Aristotele e in Galileo. L’insegnante, ha posto alcune domande agli studenti proprio per richiamare quanto appreso nel corso del precedente anno scolastico; quella che segue è una sintesi della conversazione svolta.
“Chi ricorda la distinzione tra moti naturali e violenti?” Sono naturali quelli intrapresi spontaneamente e violenti quelli che hanno bisogno di un’azione. “Chi ricorda perché è così secondo Aristotele?” Il moto naturale è quello che fa raggiungere a un oggetto il suo luogo. “Il moto di un proiettile è naturale o violento?” Violento, ma … “Come veniva concepito da Tycho il moto di un proiettile? Dapprima nessuno risponde; poi, dopo qualche cenno dell’insegnante, qualcuno ricorda l’esempio di Wyle Coyote: non cade finché non ha esaurito la spinta. L’insegnante precisa che l’idea era che non si intraprendesse il moto naturale fino a che non si fosse esaurito quello violento. “E invece che cosa pensava Galileo di questo moto?” Tutti ricordano che la traiettoria è una parabola. “Sì, ma coma arriva Galileo a questo risultato? Ricordano bene che il moto orizzontale resta nell’oggetto: è insito, dice qualcuno, è indelebilmente impresso; e, alcuni, ricordano anche che è un moto composto. Uno studente cita un brano di Galileo in cui il lettore è invitato a immaginare un piano perfettamente liscio, su cui un oggetto può essere mosso con un soffio. Altri aggiungono che il moto non cambia finché qualcosa non lo fa cambiare. “In particolare che cosa non cambia?”Rispondono la velocità. “E poi ?” La direzione del moto.
Questa conversazione si è svolta in laboratorio di fisica; mentre l’insegnante poneva le domande e gli studenti rispondevano si teneva in funzione una rotaia a cuscino d’aria facendovi muovere un carrello, e inoltre si facevano rotolare delle sferette d’acciaio su un tavolo liscio; le sferette qualche volta si scontravano cambiando la direzione di moto. Si sono letti a questo punto alcuni brani di Descartes, scelti da un’antologia [Rossi, 1984: 307-312], al fine di rafforzare e chiarire meglio le idee sul movimento espresse dagli studenti e di introdurre nuovi elementi nella comprensione del rapporto tra il moto e le sue cause. Di Descartes si sono dati brevi cenni biografici: il titolo dell’opera e l’anno di pubblicazione, il fatto che fu scritta in latino, l’importanza del personaggio in Matematica e in Filosofia. Dopo la lettura si sono sottolineati alcuni passaggi:
“Non è richiesta maggiore azione per il movimento che per il riposo”.
Descartes ci spiega attraverso degli esempi concreti che mettere in moto un corpo non richiede più fatica di quanta non sia necessaria per fermarlo.
“Dio è la causa del movimento e la quantità di questo si conserva”.
Si costruisce con gli studenti la definizione di quantità di moto, non senza difficoltà: queste intervengono ogni volta che il linguaggio diventa quello della matematica. Ci si sofferma poi sulla
“Prima legge della natura: che ogni cosa resta nello stato in cui è, fino a che nulla cambia”.
E’ un testo molto importante; Cartesio osserva che i corpi non hanno da sé la natura di cessare il proprio moto ed è per ragioni nascoste ai nostri sensi che cessano. Questo è il motivo per cui noi “abbiamo molta inclinazione a credere” che il movimento abbia di per sé la natura di cessare; gli studenti aggiungono che, in effetti, l’attrito che fa fermare i corpi non è un’azione visibile, ma proprio nascosta ai nostri sensi, come dice Cartesio. Sembra per il momento chiaro a tutti che il moto non ha bisogno di essere mantenuto (ma vedremo che in realtà molti la pensano così perché sono convinti che ci sia sempre qualcosa che lo mantiene!); su un’espressione di Cartesio l’insegnante ha ritenuto necessario soffermarsi: egli dice che quando un corpo ha cominciato a muoversi non cesserà di muoversi “con la stessa forza”, a meno che qualcosa non intervenga a ritardarlo o arrestarlo. Con quale significato è qui usata la parola forza? È stata la domanda posta dall’insegnante agli studenti; e loro hanno risposto prontamente che avrebbe dovuto dire velocità. Nonostante questa risposta corretta si vedrà quanto sarà ancora lungo il percorso che porterà a tenere ben distinti i due concetti di forza e velocità.
Il brano successivo ci porta a un nodo fondamentale, forse al tema centrale e più importante di tutto il percorso:
“La seconda legge della natura: che ogni corpo che si muove tende a continuare il suo movimento in linea retta … e non già secondo una circolare”.
Dunque il moto circolare non si mantiene da sé (ed è notevole il fatto che Cartesio, nell’enunciare una legge, senta la necessità di negare qualcosa; come per mettere in guardia contro un modo comune di percepire il moto circolare uniforme). Il brano è stato letto in laboratorio e se ne è così potuto mostrare il significato attraverso un espediente semplice: su un tavolo si è sparso un po’ di borotalco (ma andrebbe bene qualunque altra polvere abbastanza fine, purché sparsa il più uniformemente possibile e in uno strato sottile); si è appoggiata sul tavolo una “guida circolare interrotta”: si trattava di un cerchio di legno, del diametro di circa mezzo metro, da cui era stato tagliato un arco di una ventina di centimetri.
Dopo qualche tentativo, si fa muovere una sferetta d’acciaio lungo la guida e si osserva bene che, laddove questa s’interrompe, il moto diventa rettilineo: si osservano le tracce lasciate sul borotalco[v].
Gli studenti notano che se non è proprio in linea retta è perché abbiamo messo troppo borotalco e dunque l’attrito non è trascurabile; altri aggiungono che la sferetta ripercorre sempre lo stesso segmento di retta. Dunque, e questa è la conclusione espressa dagli studenti, il moto circolare ha bisogno di qualcosa che lo provochi; a maggior ragione quello su un’orbita ellittica. E così torniamo alla domanda che dà il titolo a questa sezione: A quo moventur planetae? L’insegnante chiede Cosa risponderebbe Cartesio? Gli studenti rispondono che è Dio che muove i pianeti, secondo Cartesio. Ma quale domanda sarebbe più corretta? Alcuni provano a formulare la nuova domanda “Cosa influenza i pianeti?”, altri precisano ancora meglio: “Che cosa fa deviare continuamente i pianeti dal moto uniforme in linea retta?” Anche se non tutti sono in grado di esprimersi con la stessa chiarezza nel formulare le nuove domande, tutti mostrano presto di aver compreso che ci vuole un’azione sul pianeta; qualcuno aggiunge ancora che il moto del pianeta non è naturale.
Come si capisce dalla descrizione, in questa fase del percorso gli studenti hanno cominciato a essere più attivi, a partecipare con più vivacità; è importante valorizzare ogni intervento positivo, soprattutto degli studenti che di solito sono più in ombra perchè più insicuri.
3b. Unificazione tra cielo e terra, una forza per deviare pianeti
Per trovare risposte alle domande formulate dagli studenti si è letto un brano [Kuhn, 1972: 318-322] in cui abbiamo incontrato un nuovo protagonista della nostra storia, Robert Hooke; non era un nome nuovo per gli studenti, che già conoscevano il suo contributo in biologia alla costruzione del microscopio e alla formulazione di una teoria cellulare, e ricordavano la legge dell’allungamento delle molle studiata in prima. In questo testo si sottolinea come Hooke avesse adottato “integralmente il concetto del moto inerziale e dell’identità tra leggi terrestri e celesti”; per Hooke deve esistere un principio d’attrazione tra il Sole e ciascun pianeta. Il testo di Kuhn illustra con un disegno un’idea intuitiva di Hooke (in una forma più esplicita, dice l’autore, di tutte quelle presentate in realtà da Hooke): il moto del pianeta sull’orbita circolare può essere concepito, con buona approssimazione, come il risultato di un moto uniforme in linea retta su cui interviene periodicamente una brusca spinta in direzione del Sole; l’approssimazione sarà tanto migliore quanto più frequenti, vicine tra loro saranno le spinte. E’ evidente, dice Kuhn, che è solo una suggestione: Hooke non precisa quantitativamente la sua idea, e non risulta che lo abbia mai fatto; ma si è ritenuto che fosse giusto far ripercorrere agli studenti questa strada, proprio con l’obiettivo di una piena comprensione di ciò che sarà la gravitazione universale in Newton, per ottenere un affinamento progressivo di un’idea, di un concetto, con il contributo di diverse menti, e non una definizione completa e già pronta data tutta in una volta.
Disegno Spinte Su traiettoria poligonale
Kuhn riferisce che Hooke presentò la sua idea in una conferenza della Royal Society del 1666, che fu da lui conclusa mostrando un modello meccanico che visualizzasse l’azione del Sole sul pianeta appena presentata: un pendolo conico. Così anche noi, in laboratorio, abbiamo realizzato questo modello, semplicemente appendendo un pesetto a un filo di nylon fissato al soffitto del laboratorio; abbiamo cercato di realizzare ciò che descrive Kuhn: “Quando partiva in direzione opportuna con l’opportuna velocità, il corpo si muoveva lungo un circolo orizzontale” [ib: 321]. In effetti l’efficacia di questo modello è notevole: dopo un po’ di tentativi gli studenti hanno potuto osservare un corpo muoversi in aria su una circonferenza (il filo di nylon si vede appena), e per quanto certamente ciascuno avesse già potuto osservare qualcosa di simile, l’occasione di riflettere su di esso, di esaminarlo in questo contesto è senz’altro nuova (oltretutto, non avendo in un primo momento fissato bene il filo al soffitto, abbiamo potuto constatare insieme l’effetto della mancanza di una forza verso il centro …). Abbiamo parlato di efficacia di un modello, ma c’è di più, osserva Kuhn [ib: 321]: “Nell’opera di Hooke […] la spiegazione del moto planetario era diventata un problema di meccanica applicata, identico in linea di principio ai problemi terrestri del pendolo e del proiettile. Sperimentazioni terrestri producono una conoscenza diretta dei cieli e osservazioni celesti danno informazioni applicabili direttamente sulla Terra”. E conclude parlando di sfacelo della dicotomia terrestre-celeste.
Dopo l’osservazione del moto del pendolo conico, si è assegnato come compito a casa di disegnare il diagramma delle forze presenti sull’oggetto; nel corso della classe prima si era introdotto il concetto di forza in situazioni di equilibrio, gli studenti si erano molto esercitati nel riconoscimento delle forze in un data situazione. Nella revisione di quanto svolto a casa è tuttavia emersa una difficoltà: diversi studenti avevano riconosciuto che le forze sono due e che quella del filo va scomposta nelle sue componenti, ma altri apparivano incerti. Percependo questa perplessità, l’insegnante ha posto la domanda se le forze sono diverse quando il pendolo è in equilibrio in posizione verticale e quando si muove come pendolo conico. A questa richiesta esplicita alcuni rispondono che nel caso del movimento è presente anche la spinta impressa all’oggetto. Altri hanno subito osservato, citando Cartesio, che i corpi non hanno bisogno di spinte per stare in moto, ma l’insegnante ha ritenuto a questo punto che fosse necessario dedicare ampio spazio alla questione, convinta, anche per la propria esperienza didattica, che sia un nodo cruciale nel passaggio dalle concezioni di senso comune a quelle scientificamente corrette [Falsini, 2004] . Dunque, saper riconoscere forze in situazioni d’equilibrio è cosa ben diversa dall’esame delle forze su un oggetto che si muove; poiché la situazione del pendolo conico si era dimostrata troppo complessa, si è scelto di riesaminare una situazione molto più semplice che gli studenti avevano osservato, sia direttamente che in un film didattico, e si è posta questa richiesta : Disegnate le forze su un disco a ghiaccio secco dopo che è stato messo in moto[vi]. Si sono esaminate le risposte: alcuni mostrano di avere acquisito già lo schema corretto e non disegnano niente in direzione orizzontale; ma parecchi altri si mostrano dubbiosi e ammettono di aver disegnato una freccia orizzontale nella direzione del moto. Se interpellati su cosa rappresenti questa freccia rispondono, in modo per lo più vago, che rappresenta il moto, la forza della spinta … La discussione tra gli studenti è stata vivace; tra i pochi che avevano già le idee ben chiare (non più di cinque o sei) uno è intervenuto proponendo ai compagni in difficoltà di distinguere tra la fase del moto accelerato, in cui la spinta c’è, e quella del moto uniforme, senza spinta. L’insegnante fa presente come la visione che i più mostrano di avere somigli a una teoria ben strutturata risalente al Medioevo, la teoria dell’impetus, che aveva trasferito all’interno dell’oggetto la causa esterna aristotelica; diversi studenti ammettono di essere medievali: per loro è difficile non disegnare quella freccia nella direzione del moto[vii]. L’insegnante osserva come il nostro senso comune sia basato su un’esperienza quotidiana in cui è sempre necessaria una forza per tenere in movimento gli oggetti; non siamo tutti Galileo e Cartesio! Forse avremmo bisogno di rieducare il nostro senso comune attraverso molte esperienze di moto in assenza d’attrito, per convincerci di ciò che questi grandi hanno saputo affermare solo con il discorso, laddove il senso condurrebbe a conclusioni opposte.
Dopo questa ampia discussione, dopo aver richiamato la necessità di un’azione per ottenere un moto circolare, si è tornati a considerare il caso del pendolo conico; l’insegnante ha posto questa domanda Quale forza tiene il pendolo sulla traiettoria circolare? La risposta più comune è che ovviamente sia la forza dovuta al filo; l’insegnante sollecita una maggiore precisione e si arriva riconoscere che sarà la componente orizzontale di tale forza, mentre quella verticale “serve” a equilibrare la gravità. Ricordiamo che questo era il modello meccanico proposto da Hooke per il moto dei pianeti.
3c. L’attrazione universale secondo Barelli e Hooke
Prima di considerare di nuovo le idee di Hooke leggiamo qualche stralcio da un altro autore, Alfonso Borelli, da un testo di A. Koyré [1966: 404]:
“In primo luogo ci si chiede per quale necessità i pianeti non abbandonino mai i cerchi da loro una volta descritti, o allontanandosi dal globo intorno al quale ruotano per percorrere l’universo in differenti direzioni, o muovendosi verso il globo intorno a cui ruotano fino a unirsi con esso. […] Otterremo tale risultato supponendo […] che i pianeti abbiano un appetito naturale ad unirsi al globo attorno a cui ruotano, e che tendano con tutte le loro forze ad approssimarsi ad esso, i pianeti al Sole e gli astri a Giove.”
Alcuni studenti hanno colto subito la novità espressa in questo testo, un ulteriore passo verso l’unificazione delle leggi della natura, nel tentativo di dare una spiegazione comune al moto dei pianeti intorno al Sole e dei satelliti di Giove intorno a Giove. E’ evidente che ci si sta avviando verso l’idea di gravitazione universale; Kuhn [1972: 324] afferma che un passo ulteriore, ricco di enormi conseguenze, fu fatto da Hooke e Newton, suggerendo che la forza che guidava i pianeti verso il Sole, gli astri medicei verso Giove, la Luna verso la Terra fosse anche quella responsabile della caduta delle pietre e delle mele sulla Terra. Kuhn afferma che “ non riusciremo mai a scoprire chi dei due abbia concepito per primo quest’idea”[viii] e cita un testo del 1674 in cui sono espresse con chiarezza da Hooke le tre ipotesi su cui si fonda il sistema del mondo [ib: 324-325]:
“In primo luogo, tutti assolutamente i corpi celesti possiedono un’attrazione o forza gravitazionale verso i loro propri centri, per mezzo della quale attirano non solo le loro stesse parti ed impediscono a queste di allontanarsi da essi, come possiamo osservare far la Terra, ma […] essi attirano in effetti anche tutti gli altri corpi celesti che si trovano nella sfera della loro attività; e di conseguenza che, non solo il Sole e la Luna hanno un’influenza sul corpo e sul moto della Terra e la Terra su di essi, ma anche Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno, con il loro potere d’attrazione, esercitano una considerevole influenza sul suo moto così come il corrispondente potere d’attrazione della Terra esercita una considerevole influenza anche su ognuno dei loro moti. La seconda ipotesi è questa: che tutti assolutamente i corpi dotati di un moto semplice e rettilineo continueranno ad avanzare in linea retta, finché, da qualche altra forza efficace, non vengono fatti deviare e curvare in un moto descrivente un circolo, un’ellisse o qualche altra curva composta. La terza ipotesi è: queste forze d’attrazione hanno un effetto tanto più potente, quanto più il corpo su cui agiscono è vicino al loro centro.”
Dopo la lettura personale o a piccoli gruppi, si commenta il brano collettivamente; l’insegnante sottolinea che la seconda ipotesi di Hooke è un’affermazione che ormai abbiamo trovato in tanti studiosi a cui è giunto il momento di dare un nome, Principio d’Inerzia; questo, dunque, è andato definendosi all’interno di un percorso che ci ha impegnati, già dall’anno precedente con Galileo, in riflessioni approfondite e distese nel tempo. Si vuole qui sottolineare questa scelta metodologica in contrasto con le trattazioni affrettate di tanti manuali, condivise da troppa prassi didattica, che arrivano a banalizzare completamente una conquista concettuale di rilevanza enorme, alla base della Fisica classica.
Ancora in riferimento al brano di Hooke si è preso atto dell’ammissione dello scienziato di non essere ancora riuscito a verificare se la forza abbia veramente l’andamento con la distanza da lui ipotizzato; Kuhn [1972:326], sottolineando i limiti di Hooke come matematico, afferma che egli, nel tentativo di procedere a una verifica sperimentale della legge da lui intuita, disponeva peraltro di strumenti troppo poco sensibili per rilevare differenze di peso tra la sommità della cattedrale di St Paul a Londra e il fondo delle miniere.
L’idea dell’attrazione gravitazionale come unica forza che regola il sistema del mondo è stata a questo punto presentata anche attraverso il famoso disegno di Newton, presente sul libro di testo, in cui è suggerita l’idea che una palla di cannone, sparata con velocità sufficientemente elevata, possa diventare un satellite della Terra.
Disegno dI Newton: lancio da una montagna e orbite
4. NEWTON: IL CONCETTO DI ACCELERAZIONE NEI MOTI CURVILINEI, L’IDENTITÀ DINAMICA TRA MOTO CIRCOLARE UNIFORME E MOTO UNIFORMEMENTE ACCELERATO.
4a. La stesura dei Principia
Isaac Newton, che già diverse volte abbiamo avuto occasione di citare, è diventato a questo punto, per così dire, il protagonista della nostra storia; di lui è ricca già nel libro di testo la parte biografica, che è comunque stata presentata anche attraverso la pagina di sintesi presente nel numero de “I grandi della Scienza” di N. Guicciardini [1998] a lui dedicato. In essa è citata una lettera a Hooke del 1679 che è stata scelta dall’insegnante proprio per continuità con la trattazione svolta fino a questo punto e anche perché, come in altre occasioni, la testimonianza della comunicazione di idee tra studiosi, del dibattito vivace su di esse è utile a costruire quell’immagine corretta del modo di operare della scienza che abbiamo dichiarato fin dall’inizio come obiettivo di questa esperienza didattica. Il contenuto della lettera è stato presentato agli studenti attraverso la lettura di un brano di R.S. Westfall [1984: 182-185] in cui si trovano in sintesi i temi del carteggio; tra questi l’esperimento proposto da Newton per dimostrare la rotazione terrestre. Anche se non aveva a che fare in senso stretto con lo sviluppo del percorso, ci è sembrato comunque opportuno soffermarci su questo tema, giudicandolo particolarmente motivante per gli studenti; infatti nell’anno scolastico precedente si era trattato ampiamente, attraverso i brani di Galileo, dell’impossibilità di rivelare un moto uniforme in linea retta (principio di Relatività), e dunque di stabilire, stando sulla Terra, se questa è ferma o in moto[ix].
Westfall ci riferisce di un errore di Newton, documentato anche da un disegno, riguardo alla traiettoria percorsa da un oggetto in caduta su una Terra in rotazione, errore rilevato e corretto da Hooke[x]; Newton riconobbe in seguito che la lettera di Hooke l’aveva spinto a dimostrare la relazione tra orbita ellittica e dipendenza della forza dall’inverso del quadrato della distanza[xi]. La visita dell’astronomo Edmond Halley a Newton, avvenuta a Cambridge nell’agosto del 1684, sappiamo essere stata l’episodio a cui si deve la stesura dei Principia: Halley convince Newton a pubblicare i risultati cui è giunto riguardo al sistema del mondo e si sobbarca l’onere finanziario dell’impresa. Westfall [1989: 421] afferma che Halley amava definirsi “l’Ulisse che aveva tirato fuori un simile Achille”. Newton, infatti, aveva trascorso gli ultimi cinque anni isolato dalla comunità scientifica, rifuggendo ogni possibile occasione di confronto o di dibattito (un capitolo della fondamentale biografia di Westfall [1989] s’intitola proprio Anni di silenzio); il problema posto da Halley “s’impadronì di lui come nessun’altra cosa prima di allora, con un’intensità tale che egli non potè resistervi” [1989: 421]. Si è letta con gli studenti una delle numerose testimonianze di Humphrey Newton [Westfall, 1989: 200, 422], che fu amanuense di Isaac a Cambridge tra il 1680 e il 1690, in cui è descritto un Newton che per i due anni della stesura dei Principia è così intento e assorto nei suoi studi da dimenticarsi di mangiare, distratto e completamente indifferente a qualunque occasione di divertimento, ricreazione o passatempo.
4b. La prima legge del moto
A questo punto veniamo al contenuto dei Principia; il libro di testo, che tratta separatamente le leggi della dinamica e la gravitazione, ci presenta il frontespizio dell’opera: si osserva che è scritta in latino e ci si sofferma sul titolo, Philosophiae Naturalis Principia Matematica; l’aggettivo matematica esprime una convinzione nuova sull’indagine della natura, già conosciuta dagli studenti attraverso Galileo, in contrasto voluto con il titolo dell’opera di Cartesio Principia Philosophiae. La continuità con l’opera degli studiosi che lo hanno preceduto è testimoniata dal frontespizio del Dialogo di Galilei tradotto in inglese, letto da Newton nel 1666 ed espressa attraverso una citazione di Lord Rutherford, letta in classe con gli studenti, che afferma che “Non è nella natura delle cose che una persona, chiunque essa sia, possa fare una scoperta estremamente inaspettata; la scienza procede passo a passo, e il lavoro di ogni persona dipende dal lavoro dei suoi predecessori […] Gli scienziati non traggono i loro risultati dalle idee dei singoli ma dalla sintesi del lavoro intellettuale di migliaia di uomini.” [AA VV,1986: 4-4]
Si è letta la prima legge del moto, prima in latino sul libro di testo e poi in italiano, nella traduzione presente nell’antologia di Paolo Rossi. L’insegnante ha proposto la lettura di un brano di A. Koyré [1972: 74] in cui l’autore sottolinea l’importanza delle parole usate da Newton, in particolare status e in directum. La prima ci serve a capire che, diversamente da quanto creduto da Aristotele in poi, il movimento non è un processo di mutamento opposto allo status vero e proprio che sarebbe la quiete. E’ un tema già conosciuto agli studenti dallo studio del moto secondo Galileo (e infatti Koyré [1976: 161] afferma che Newton attribuisce a Galileo la prima legge). Ma bisogna precisare che non ogni tipo di moto è uno status, una situazione, cioè, che non ha bisogno di cause per sussistere; solo il moto in directum lo è. Gli studenti sono stati invitati a leggere personalmente e con particolare attenzione il seguito del brano; in esso l’autore ci avverte:
“Nessun altro tipo di movimento, né quello circolare né quello rotatorio, anche quando fosse uniforme, può esser considerato uno status, per quanto il movimento rotatorio sembri capace di conservarsi addirittura più a lungo di quello rettilineo, che, almeno nella nostra esperienza si estingue sempre piuttosto rapidamente. In realtà, come già molti secoli prima i Greci avevano osservato, l’unico moto perpetuo che si incontra in questo mondo è il moto circolare del cielo. […] Sbagliavano, naturalmente, ma non come a prima vista potrebbe sembrare. In fondo si deve riconoscere che per il loro mondo, un mondo finito, avevano ragione: la legge d’inerzia postula infatti un mondo infinito. E questo non va dimenticato se non si vuole correre il rischio di essere ingiusti verso quanti non riuscirono a liberarsi dal fascino della circolarità.”
Come si vede si tratta di una riflessione molto ricca, non certo facile dato che si tratta di studenti che hanno appena iniziato lo studio della filosofia; tuttavia la consuetudine con la concezione aristotelico-medievale di un universo sferico, pieno, finito, acquisita con il percorso dell’anno precedente, ha fornito i prerequisiti per comprendere l’affermazione che il principio d’inerzia postula un universo infinito. Di grande rilievo anche il riferimento a un punto di vista diffuso nel senso comune, “quello di percepire la rotazione uniforme come uno stato di equilibrio” [Westfall, 1989: 435], o uno status, appunto, qualcosa che si mantiene da sé (di più, l’unico moto che si mantiene da sé). Newton ci impone invece di cercare una causa per il moto circolare; e gli studenti avevano ben presente il moto della sferetta lungo la guida circolare interrotta, in cui tale causa era ben identificabile nella guida.
4c. Un nuovo concetto di accelerazione
E’ venuto il momento di analizzare a fondo il moto circolare uniforme; dapprima si precisa che cosa significa uniforme, proponendo di adattare la definizione di Galileo di moto equabile in linea retta: saranno dunque percorsi archi uguali in tempi uguali, comunque presi. Avevamo già definito la velocità come rapporto tra circonferenza e periodo e la velocità angolare come rapporto tra angolo giro e periodo. L’insegnante pone la domanda: E’ presente accelerazione nel moto circolare uniforme? E chiede che gli studenti provino a riflettere e rispondere personalmente a casa. Gli studenti, in base alle loro risposte, si sono divisi in due gruppi:
– quelli che hanno affermato che essendo la velocità definita come Dv/Dt, e non essendoci per definizione Dv, l’accelerazione non può che essere nulla;
– quelli che si sono convinti che c’è accelerazione, altrimenti il moto sarebbe rettilineo e uniforme; tra questi, alcuni hanno anche precisato che il moto circolare uniforme è il risultato di un moto rettilineo uniforme su cui interviene una forza verso il centro.
A questo punto si poteva sbrigativamente dare ragione agli studenti del secondo gruppo, che hanno mostrato di cogliere il concetto nuovo e fondamentale di accelerazione in un moto curvilineo. L’insegnante, tuttavia, ha preferito lasciare ancora aperta la discussione e procedere verso la soluzione della questione analizzando i moti già conosciuti (sottolineando che la nostra conoscenza dovrebbe sempre procedere così, la novità dovrebbe essere introdotta agganciandosi saldamente a ciò che già conosciamo): moto rettilineo uniforme, moto uniformemente accelerato e moto parabolico. In ciascun caso l’insegnante ha cercato di condurre gli studenti a descrivere nel modo più completo possibile il moto; in particolare, nel caso del moto parabolico, che gli studenti ricordano essere la composizione di un moto uniforme e di un moto uniformemente accelerato su direzioni perpendicolari, si conclude che c’è un cambiamento nella direzione del moto. Qualcuno suggerisce che si potrebbe tentare di ottenere anche il moto circolare uniforme come composizione di due movimenti; l’insegnante osserva che è un’ottima idea e che verrà sviluppata tra breve. Per evidenziare il cambiamento di direzione si chiede di disegnare la velocità in diversi punti della traiettoria parabolica; il concetto di velocità come vettore era già stato introdotto e qui si è trattato di consolidarlo per prepararsi ad applicarlo ad un nuovo caso. Non è stato immediato e semplice per tutti disegnare il vettore velocità nel moto circolare uniforme; alcuni, in analogia con il moto dei proiettili, hanno in effetti tentato di ottenere il vettore velocità come composizione di vettori su direzioni diverse, ma non hanno saputo sviluppare fino in fondo la costruzione. Una volta disegnati correttamente i vettori è stato invece immediato affermare che c’è un cambiamento di direzione del vettore velocità. E’ stato importante sottolineare che le parole velocità e accelerazione sono definite in fisica con significati diversi da quelli del senso comune; e questo serve a incoraggiare coloro che con disagio sono arrivati ad affermare che sì, nel moto circolare è presente accelerazione.
Per trovare l’entità, la misura di questa accelerazione si riprende l’idea, avanzata già da alcuni, della composizione dei movimenti; è un procedimento semplificato riconducibile a quello di Huygens (che in verità per questa via intese determinare il conato centrifugo [Westfall, 1984: 159]), riportato nel libro di testo.
Disegno
Esso fa uso ampiamente di quanto ci ha insegnato Galileo; uno studente ha ricordato lo scienziato pisano, quando nei Discorsiaffermava che altri ingegni più acuti del suo avrebbero penetrato i più ascosi recessi della nuova scienza da lui fondata. I due movimenti che si compongono sono rettilineo uniforme lungo la tangente e uniformemente accelerato verso il centro, e qui sta la differenza con la traiettoria parabolica in cui il moto accelerato avviene lungo una direzione fissa.
Per sottolineare maggiormente che l’accelerazione nel moto circolare uniforme è un vettore, derivante dal cambiamento del vettore velocità, si è voluta offrire agli studenti la possibilità di eseguire con il software CABRI la costruzione della variazione del vettore velocità. Dapprima si è costruito il vettore velocità in un punto e con la funzione animazione lo si è visto spostarsi intorno alla circonferenza; poi se ne è costruito un altro di uguale lunghezza in un punto vicino e si è costruito il vettore differenza. Si è cercato, come sempre, di non impartire ricette e istruzioni ma di far trovare agli studenti il procedimento: questo comporta certamente tempi più lunghi ma il fatto che gli studenti cerchino personalmente la strategia che risolverà il problema produce un’appropriazione del significato di ciò che si va costruendo difficilmente conseguibile con una didattica puramente trasmissiva. Si osserva inoltre che la definizione di differenza tra vettori è stata costruita insieme agli studenti nel momento in cui se ne è presentata la necessità, diversamente da ciò che si trova in molti manuali in cui si trattano i vettori in generale in un capitolo introduttivo, senza alcun riferimento a situazioni fisiche concrete (allo stesso modo si era definita la somma tra vettori trattando della sovrapposizione delle forze, e allo stesso modo si procederà per i due tipi di prodotto tra vettori).
Disegni da Cabri


Una volta ottenuto il vettore gli studenti si sono accorti che, quando i due punti in cui sono disegnati i vettori si avvicinano, il vettore differenza, oltre ovviamente ad accorciarsi, assume la direzione del raggio. Si è data la necessaria enfasi a questa conclusione affermando che il vettore accelerazione ha la direzione del raggio, cioè è diretto verso il centro, quando riferito a un brevissimo intervallo di tempo. La figura poi ci è servita a ricavare, attraverso una similitudine fra triangoli, l’espressione per la grandezza del vettore che abbiamo constatato essere la stessa ricavata con il precedente procedimento.

Sia qui che in precedenza sono stati evidenziati quei passaggi al limite e quelle approssimazioni che sono necessarie per giungere al risultato, senza la pretesa di una trattazione rigorosa da un punto di vista matematico. Del resto gli studenti avevano già affrontato il concetto di velocità istantanea, come velocità calcolata su un brevissimo intervallo di tempo; e già avevano trattato settori circolari come triangoli quando l’angolo al centro è piccolissimo. Certamente è stato necessario dedicare tempo a queste considerazioni; al fatto che il rapporto tra due grandezze molto piccole può anche essere un numero grande, al fatto che il vettore accelerazione si può disegnare di qualunque lunghezza, indipendentemente dalla lunghezza del vettore , al fatto che un vettore resta se stesso quando si trasla, al fatto che la lunghezza del vettore accelerazione sarà la stessa per qualunque punto della circonferenza … tutte questioni rispetto alle quali gli studenti avevano espresso perplessità.
“Se c’è accelerazione allora ci dev’essere una forza”: questa è stata l’osservazione di uno studente dopo tutto questo lavoro sulla costruzione dell’accelerazione nel moto circolare uniforme. E, d’altra parte, qualcuno si era convinto che c’è accelerazione nel moto circolare uniforme proprio perché ci vuole una forza, un’azione per produrlo. Siamo pronti per andare a leggere la seconda legge del moto.
5. IL CONCETTO DI FORZA IMPRESSA, LA MASSA INERZIALE, LA SECONDA LEGGE DEL MOTO. IL CONCETTO DI FORZA COME INTERAZIONE E LA TERZA LEGGE DEL MOTO.
5a. Il concetto di forza impressa
Come si era fatto per la prima, anche la seconda legge viene prima letta in latino, un po’ per gioco; poi nella traduzione italiana nell’antologia di P. Rossi [1984: 314-315]:
“Il cambiamento del moto è proporzionale alla forza motrice impressa ed avviene nella direzione della linea retta secondo la quale quella forza è stata impressa”
E altrettanto importante in connessione con la seconda legge, la definizione di forza impressa, letta da uno degli studenti (che si era definito un medievale):
“Una forza impressa è un’azione esercitata su un corpo che gli fa cambiare il suo stato di quiete o di moto uniforme lungo una linea retta. Questa forza consiste soltanto nell’azione e, cessata l’azione, non rimane nel corpo.”
Newton sembra proprio rivolgersi ai nostri studenti, quando precisa che la forza non rimane nel corpo; traspare da questa precisazione la consapevolezza della necessità di un cambiamento concettuale profondo che conduca, appunto, a definire la forza in modo radicalmente diverso da ciò che il senso comune suggerisce. Il concetto di forza, secondo M. Jammer [1979], è centrale nella storia della Fisica e la sua definizione esatta, come quella di qualunque altro concetto in ambito scientifico, costituisce uno stadio avanzato dello sviluppo del concetto; da queste considerazioni discende la necessità di offrire molteplici occasioni di riflessione agli studenti, su tempi distesi, per cogliere consapevolmente il senso della definizione, qui per il caso della forza, così come per altri concetti fisici. Per enfatizzare il cambiamento concettuale insito in questa definizione l’insegnante ha proposto che fosse affissa in classe su un cartellone, proposta accolta e realizzata dagli studenti (con la premessa: per tutti i medievali!).
L’analisi della seconda legge ci ha trovato preparati; infatti gli studenti sapevano abbastanza bene cosa Newton intendesse con cambiamento del moto. Certo, abbiamo commentato che l’espressione è un po’ ambigua, che lascerebbe intendere sia un cambiamento di velocità sia di quantità di moto (di questa grandezza si era letta la definizione di Newton, dopo quella di quantità di materia). Si è chiesto di sintetizzare il contenuto della seconda legge nel moderno linguaggio simbolico cui gli studenti sono ormai abituati (anche se non sempre a loro agio…); dopo l’analisi dei contributi e delle perplessità dei singoli siamo giunti all’espressione:

e non semplicemente aµF, come qualcuno si era limitato a scrivere.
Per acquisire pienamente e consolidare il significato della seconda legge l’insegnante ha proposto di analizzare le situazioni già conosciute in cui si ha un cambiamento del moto e riconoscere in ciascuna di esse forza impressa e accelerazione. Nessuna difficoltà per il moto di caduta verticale; molto più problematico, invece, è stato individuare il vettore accelerazione nel moto di un proiettile: in effetti solo pochissimi (tre o quattro) non hanno avuto perplessità nell’individuare la forza di gravità come forza impressa e nel disegnare, fidandosi della seconda legge, l’accelerazione verticale verso il basso[xii]. Del moto parabolico, tutti gli altri, avevano presente la descrizione cinematica di Galileo, in cui il vettore velocità è la composizione di due vettori orizzontale e verticale; la costruzione dell’accelerazione dai vettori velocità, che alcuni hanno cercato di percorrere sulla traccia di quello che ci aveva portato all’accelerazione centripeta, si presentava tutt’altro che semplice; è stato necessario l’intervento dell’insegnante per far riconoscere che forza impressa e accelerazione sono entrambe verticali, coerentemente con la seconda legge. Passando al moto circolare uniforme, di nuovo, non ci sono state difficoltà, anche se qualcuno mostrava di intendere come unico tipo di moto circolare quello dei corpi celesti sottoposti alla gravità. Per questo motivo si è chiesto di produrre altri esempi e di individuare ogni volta la forza impressa, che qualcuno, in perfetta coerenza con la seconda legge, ha cominciato spontaneamente a chiamare centripeta, anche se fino a questo momento questo aggettivo era stato introdotto solo per l’accelerazione.
In questa ricerca delle forze nei vari esempi proposti di moto circolare, immancabilmente, è emersa la questione della forza centrifuga; gli studenti hanno capito che non si tratta di una forza impressa e vi hanno saputo riconoscere un modo per identificare la tendenza dei corpi a muoversi di moto rettilineo uniforme. In effetti, nelle verifiche successive, quasi mai è riemersa questa rappresentazione ingenua. In questa occasione si è anche letta la definizione di Newton “Chiamo forza centripeta la forza in virtù della quale un corpo è spinto o attratto verso un determinato punto considerato come centro” [Westfall, 1989: 428]; si è anche precisatoche Newton dichiarò di aver coniato quella parola (“che cerca il centro”) proprio in parallelo con il termine coniato da Huygens (“che fugge il centro”). E Westfall, osserva che “nessun altra parola poteva caratterizzare meglio i Principia che costituiscono per eccellenza un’indagine sulle forze centripete come determinanti del moto orbitale”.
Sappiamo che Newton nei Principia non dà alcuna dimostrazione, alcuna prova sperimentale della seconda legge, limitandosi ad attribuirla, insieme alla prima legge, a Galileo e Huygens [Jammer, 1979: 136; Koyré, 1976: 80; Geymonat, 1988: 168]; Cohen [1974: 181] osserva che Newton è molto generoso in questa attribuzione e che “se è vero che si può sostenere che Galileo fosse in possesso della legge d’inerzia […] è necessario un grande sforzo d’immaginazione per far risalire a Galileo anche la seconda legge”. Per cercare di giustificare, almeno in parte, questa attribuzione si sono invitati gli studenti a riflettere sul fatto che la scoperta di Galileo che il moto sotto l’azione della forza di gravità avviene con accelerazione costante è certamente coerente con la seconda legge di Newton; si sono poi riproposte agli studenti due situazioni dinamiche esaminate da Galileo nei Discorsi: nella Giornata prima l’analisi del moto di caduta in un mezzo e nella Giornata terza la caduta lungo un piano inclinato; in entrambi i casi Galileo, pur non parlando esplicitamente di forza nel senso Newtoniano, ricava dalle azioni presenti sul corpo il suo modo di muoversi. Leggiamo infatti, per il primo dei due casi [Galilei, 1980: 647]:
“Un corpo grave ha da natura intrinseco principio di muoversi […] con movimento […] accelerato sempre egualmente. […] E questo si deve intender verificarsi tutta volta che si rimovessero tutti gl’impedimenti accidentarii ed esterni, tra i quali uno ve ne ha che noi rimuover non possiamo, che è l’impedimento del mezzo pieno, mentre dal mobile cadente deve esser aperto e lateralmente mosso: al qual moto trasversale il mezzo, benché fluido cedente e quieto, si oppone con resistenza or minore ed or maggiore, secondo che lentamente o velocemente ei deve aprirsi per dar il transito al mobile; il quale, perché, come ho detto, si va per sua natura continuamente accelerando, vien per consequenza ad incontrar continuamente resistenza maggiore nel mezzo, e però ritardamento e diminuzione nell’acquisto di nuovi gradi di velocità, sì che finalmente la velocità perviene a tal segno, e la resistenza del mezzo a tal grandezza, che, bilanciandosi fra loro, levano il più accelerarsi, e riducono il mobile in un moto equabile ed uniforme.”
In effetti, non è stato immediato per gli studenti riconoscere nell’azione del mezzo una forza impressa nel senso newtoniano; ma è stata una buona occasione per riconsiderare in modo più rigoroso un problema affrontato in precedenza solo in modo qualitativo e per imparare ad applicare in diversi contesti il concetto newtoniano di forza impressa. Ma soprattutto si è trattato di un’eccellente occasione per riconoscere la continuità di pensiero nel processo del fare scienza; I. B. Cohen [1974: 216] osserva che la grandezza dell’impresa di Newton evidenzia la grande importanza di uomini come Galileo, Keplero, Huygens, dimostra “in che misura la scienza è un’attività collettiva e cumulativa, e chiarisce quale sia l’influenza del genio individuale sul futuro di uno sforzo scientifico cooperativo.”
5b. Il concetto di massa inerziale
Il nostro percorso di assimilazione della seconda legge, a questo punto, ha dovuto affrontare il concetto di massa inerziale; si osservi che non si era ancora mai scritta la celebre formula F=ma (un’espressione che, a giudizio dell’insegnante, piega troppo il significato della legge verso una definizione di forza, diversamente dall’approccio fin qui proposto). La proposizione 24 del II libro dei Principia costituisce, secondo Guicciardini [1998: 55] una “spiegazione” della seconda legge; è stata letta in classe e si è chiesto agli studenti di provare a riscriverla in linguaggio simbolico:
“la velocità che una data forza può generare in una data materia durante un tempo dato sta come la forza e il tempo direttamente, e come la materia inversamente. Quanto maggiore è la forza o più lungo il tempo, o minore è la quantità di materia, tanto maggiore sarà la velocità generata. Ciò che è manifesto per la seconda legge del moto.”
Non è immediato riconoscere che la velocità generata da una forza in un corpo va tradotta in Dv; per il resto non ci sono state difficoltà, almeno da un punto di vista formale. Dunque la relazione, letteralmente, risulta:

Facciamo comparire l’accelerazione e quindi arriviamo a scrivere:

in cui si è anche tenuto conto della natura vettoriale di forza e accelerazione. A proposito del fattore m che abbiamo introdotto per materia, ricordiamo che la definizione di quantità di materia come prodottodella densità peril volume ci era sembrata insoddisfacente. Si è scelto di affinare il concetto a partire dalla scoperta di Galileo che tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione, affermazione che conduce al concetto di massa inerziale, caratteristica intrinseca ad ogni oggetto; questo era un fatto sperimentale ben noto agli studenti dal percorso del precedente anno. Vediamo dunque come si è esaminato il significato di questo fatto in relazione alla seconda legge; il nostro ragionamento è così schematizzabile:

– su corpi diversi in caduta libera agiscono diverse forze di gravità (fanno allungare diversamente un dinamometro) ;


– se, come afferma la seconda legge di Newton, , si ottiene che le accelerazioni sono diverse ….

– …. ma non è così: i fatti ci dicono che la gravità accelera allo stesso modo tutti i corpi:
– Cosa possiamo concludere? “Che i corpi rispondono diversamente”, dice una studentessa.
E’ la seconda legge della dinamica a suggerirci che il rapporto costante tra accelerazione e forza deve essere in relazione con questa proprietà dei corpi di rispondere diversamente all’azione di una forza; meglio ancora, che questo rapporto fornisce la misura del modo diverso di ciascun corpo di rispondere all’azione di una forza esterna. Per approfondire il significato della grandezza che stiamo per definire si fanno ancora altri esempi: si propone di immaginare l’azione di una stessa forza su corpi diversi, corpi, dunque, che abbiano diversa inerzia. L’inerzia, per gli studenti, è la proprietà di mantenere uno status. Una delle situazioni a cui l’insegnante chiede di riferirsi è quella di un carrello al supermercato; gli studenti osservano quanto sia difficile manovrarlo quando ci abbiamo messo dentro diverse confezioni di acqua minerale; e specificano che non si fa difficoltà solo per metterlo in moto ma anche per frenarlo, per fargli cambiare direzione. Dalla discussione emerge che sarebbe necessario eliminare l’attrito, poter fare sempre esperimenti con la rotaia a cuscino d’aria o con il disco a ghiaccio secco. A questo punto l’insegnante decide di sintetizzare il significato di massa che si è costruito insieme agli studenti nella definizione di massa inerziale:

Sul significato della grandezza introdotta si è continuato a riflettere, anche alla luce di quanto afferma Arons [1992: 71]: “L’esistenza di questo singolo numero [il valore della massa inerziale] non è affatto una questione di convenzione e neppure è dedotto da principi teorici; si tratta invece di un fatto sperimentale, una legge di natura”. In particolare, tornando al fatto sperimentale che tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione, si è osservato che questo, non solo ci ha condotto al concetto di massa inerziale, ma ci porta anche a concludere che la forza di gravità è direttamente proporzionale alla massa inerziale. L’esperienza comune non ci permette di fare esperienze separate su queste due proprietà della materia; e infatti si trova difficoltà quando si vuole convincere gli studenti che la proporzionalità tra forza di gravità e massa inerziale è una stranezza, che gravità e inerzia sono proprietà completamente distinte della materia; che è una pura coincidenza che ciò che si misura con la bilancia, cioè il peso (si potrebbe dire la massa gravitazionale, ma si è scelto di non introdurre questo termine) coincida con ciò che si misura tramite il confronto di accelerazioni, cioè la massa inerziale. Per consolidare questa distinzione si è cercato di svolgere qualche esperimento mentale, provando a immaginare un luogo in cui la gravità è assente; alcuni studenti hanno osservato che la proprietà di mantenere il proprio status, che abbiamo chiamato inerzia, sarà ancora presente, anche se altri hanno evidenziato qualche difficoltà ad accettare l’idea che “quando i corpi non pesano più si faccia fatica ad accelerarli o fermarli”. In particolare, uno studente osserva che “nello spazio i corpi non incontrano resistenza”, evidenziando una confusione ricorrente tra la forza d’attrito che si oppone al moto e l’inerzia, intesa come la forza innata o insita della materia, di cui parlerà anche Newton come vedremo più avanti: le due forze non vengono distinte, se non c’è attrito del mezzo non c’è più alcuna resistenza.
Questa distinzione tra gravità e inerzia, dunque, è certamente un obiettivo “alto”, un tema su cui sarà opportuno tornare a riflettere quando gli studenti avranno cognizione di altri tipi di forza oltre alla gravità; e nel corso dell’ultimo anno se si giungerà a trattare il Principio d’equivalenza di Einstein.
5c. La terza legge del moto
Questa sezione dedicata alle leggi della dinamica si è conclusa con la lettura della terza legge, come per le altre prima in latino e poi nella traduzione presente nell’antologia di P. Rossi [1984: 316]:
“Ad un’azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria, ovvero le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e dirette in direzioni opposte”
Nel corso della classe prima, anche se non in modo completo, questa legge era stata enunciata (senza parlare di terzo principio di Newton); infatti esaminando forze in situazioni di equilibrio, esercitandosi a riconoscerle, a capire su quali oggetti agiscono si era giunti all’idea dell’azione reciproca tra due corpi, a concepire la forza come interazione; l’estensione del concetto a situazioni dinamiche richiede tuttavia una certa attenzione. Anche qui si è chiesto agli studenti di produrre esempi e di esprimere eventuali difficoltà; la terza legge ci deve educare a esprimerci in modo diverso da come siamo soliti fare nel linguaggio comune; così non dobbiamo dire “mi sono dato una spinta” ma piuttosto “il bordo della piscina, il trampolino, … su cui ho esercitato una forza, ha esercitato una forza su di me, mi ha spinto”. Qualcuno ha osservato che una cosa del genere sembra un po’ astratta; e l’insegnante hacolto l’occasione per osservare che questa terza legge ci impone di accettare anche altre stranezze, come ad esempio il fatto che ogni corpo attratto dalla Terra a sua volta attragga la Terra! Così, per rendere ragione del fatto che non abbiamo alcuna percezione di ciò, si è letto anche un avvertimento di Newton di commento alla legge:
“I mutamenti provocati da tali azioni sono uguali non nelle velocità, ma nei moti dei corpi, ove, naturalmente, i corpi non siano altrimenti impediti. Infatti i mutamenti delle velocità […] sono inversamente proporzionali alle masse”
E per chiarire meglio che cosa intendesse Newton si sono considerati alcuni esempi di urto; se è difficile credere che l’azione reciproca, ad esempio, tra un TIR e una piccola vettura che si scontrano sia identica è perché in realtà, istintivamente, tendiamo a confrontare gli effetti delle forze e non le forze stesse. Lasciando gli studenti liberi di esprimersi, qualcuno evidenzia ancora una certa confusione; ad esempio, uno afferma che “un corpo urtandone un altro non riuscirà sempre a muoverlo, lo farà solo se la forza supera la resistenza dell’altro”. L’insegnante ha scelto di leggere un brano di Cartesio (la terza legge della natura), che era stato volutamente trascurato perché contiene un errore, ma che in questo contesto acquista una funzione importante [Rossi, 1984: 312]:
“Se un corpo che si muove ne incontra un altro più forte di sé, non perde nulla del suo movimento, e se ne incontra un altro più debole che egli possa muovere, ne perde tanto quanto gliene dà”
Abbiamo letto anche qualche riga di spiegazione tramite esempi e qualcuno ha osservato che è proprio l’opinione espressa dal compagno, addirittura quasi con le stesse parole: “se un corpo che si muove e che ne incontra un altro, ha minor forza che quest’altro per resistergli, non perde nulla del suo movimento”. C’è una certa sorpresa tra gli studenti e quasi consola scoprire che i propri errori e le proprie difficoltà non sono da liquidare come sciocchezze ma che invece rappresentalo quasi un passaggio obbligato verso le idee scientificamente corrette. E per arrivare alla cognizione corretta sugli urti si è considerato il contributo di Huygens [D’Elia, 1985: 59] il quale afferma, in contrasto con Cartesio:
“Quello che [Galileo] dice sull’immensa forza della percossa si accorda bene con le nostre dimostrazioni. Infatti mostriamo che un corpo di piccolissima mole può spostare con l’urto un corpo grandissimo”
Ed esprime l’idea con un’immagine estremamente efficace, un uomo che con un colpo di martello sposta il globo terrestre! Huygens sa che a molti questa idea sembrerà assurda, ma non a Galileo. Gli studenti hanno mostrato ancora qualche perplessità; si è chiarita ancora meglio l’idea di Huygens: se un corpo pesante quanto si voglia riceverà un urto istantaneo da un corpo di peso e velocità piccole quanto si voglia, si muoverà, sia pure di poco. Qualcuno, su sollecitazione dell’insegnante, ha ricordato il comportamento dei corpi sui piani privi d’attrito (“si fa fatica a farli stare fermi!”), il carrello sulla rotaia a cuscino d’aria e il disco a ghiaccio secco che vengono mossi con un soffio; e l’insegnante ha citato un brano di Galileo ben conosciuto:
“Se tutto sarà disposto in questo modo, un corpo su un piano equidistante dall’orizzonte verrà mosso dovunque da una piccolissima forza, anzi, da una forza minore di ogni altra forza.”
Dunque, ancora una volta, siamo invitati a ragionare su situazioni ideali, in cui i piani sono perfettamente orizzontali e niente è d’impedimento, come aveva avvertito Newton nella spiegazione della terza legge, al moto del corpo urtato.
Un altro aspetto che l’insegnante ha deciso di affrontare è quello della resistenza del corpo, secondo l’espressione usata da diversi studenti in più occasioni; si era ritenuto opportuno non leggere la definizione di Newton di forza insita di un corpo, ma il presentarsi così esplicito di questa idea ha reso inevitabile affrontare la questione. Dunque [Rossi, 1984: 314] :
“La forza insita o forza innata della materia è un potere di resistere per il quale ogni corpo, per quanto in esso risiede, tende a perseverare nel suo stato attuale, sia esso di quiete o di moto uniforme lungo una linea retta. Questa forza è sempre proporzionale al corpo cui è applicata e non differisce dalla inattività della massa se non per il nostro modo di concepirla. […] Questa forza insita può essere chiamata, con un nome più espressivo, forza d’inerzia o forza d’inattività.”
La resistenza di un corpo di cui aveva parlato il nostro studente, e che è tanto presente nelle descrizioni degli studenti in generale (spesso confusa/sovrapposta con l’attrito) è proprio la forza insita cui si riferisce Newton in questo testo; ma, come afferma Arons [1992: 81], egli evitò di confonderla con le “forze attive” che provocano variazioni di quantità di moto. Infatti, rileggendo la seconda legge, troviamo che il cambiamento del moto è proporzionale alla forza impressa. E’ stato chiarito dunque agli studenti che il termine forza dovrà essere utilizzato solo con il significato di forza impressa (quella del cartellone che abbiamo appeso in classe) e che l’idea di forza di resistenza deve confluire nel concetto di massa inerziale; va da sé che non sarà questa dichiarazione da sola a chiarire le idee agli studenti, a far superare la tentazione di riferirsi alla resistenza di un corpo. Sarà l’esercizio, il confrontarsi con tante diverse situazioni cui applicheremo la seconda legge (come suggerisce Arons) a farci acquisire lo schema concettuale corretto.
Sulla terza legge della dinamica è stato un buon supporto anche il libro di testo, che presenta numerose immagini, considerazioni, disegni; tra questi, per noi che avevamo già introdotto l’idea della gravitazione universale, il diagramma delle forza d’interazione tra Terra e Luna. Parecchi studenti sapevano che il fenomeno delle maree è dovuto alla Luna e questa, dunque, è stata giudicata una prova convincente di questo terzo principio, che a qualcuno era parso condurre a conclusioni davvero poco intuitive.
6. DALLE LEGGI DEL MOTO DEI PIANETI ALLA LEGGE DELLA GRAVITAZIONE UNIVERSALE
6a. Dalle leggi del moto alle prime due leggi d Keplero
In questa ultima sezione si sono presentati i passaggi fondamentali che hanno condotto Newton alla legge della gravitazione universale. In realtà la nostra trattazione si è occupata solo di alcune dimostrazioni; in particolare, come è espresso dal titolo stesso di questa sezione, ci si è limitati a dimostrare come, assumendo le leggi di Keplero come ipotesi, utilizzando le tre leggi del moto, si giunga alla legge di gravitazione universale. Ci si è solo limitati a far presente agli studenti che sarebbe necessario anche il percorso logico inverso, quello che assume come ipotesi la legge di gravitazione universale e deduce da essa le leggi di Keplero. Inoltre, si sono certamente semplificati i procedimenti rispetto a quelli originali di Newton, dato il livello ancora modesto di competenze geometrico-matematiche degli allievi.
La prima dimostrazione, svolta secondo la trattazione che ne fa il libro di testo, ci ha permesso di ricavare che, nell’ipotesi che un corpo sia sottoposto a una sequenza di impulsi tutti rivolti verso uno stesso punto S (ipotesi della forza centrale), la sua traiettoria diventa una linea poligonale percorsa dall’oggetto in accordo con la legge delle aree.
DISEGNO
Alla base della dimostrazione sta un risultato, che pure dobbiamo a Newton, che gli studenti conoscevano dalla classe prima, la regola del parallelogramma. Se il corpo si muovesse di moto uniforme l’area ASB e l’area BSc risulterebbero uguali; ma quando è in B il corpo riceve una spinta verso S che, se fosse fermo, lo porterebbe in V. Il risultato è che nel tempo del moto uniforme da B a c il corpo si sposta in C. E’ evidente dalla figura che le aree SBc e SBC sono uguali; si è concluso specificando che il risultato resterà valido anche quando gli impulsi che si succedono hanno durata molto breve e la linea si trasforma in una curva continua (qualcosa di simile si era già visto presentando il ragionamento di Hooke nella terza sezione). Le difficoltà incontrate dagli studenti sono legate alle loro scarse competenze in geometria (qualcuno si confonde nel riconoscere l’altezza di un triangolo….); nessun problema invece per il significato fisico implicato.
La dimostrazione dell’andamento quadratico inverso della forza con la distanza tra Sole e pianeta è stata svolta prima nella versione semplificata presentata dal libro di testo; ammettendo che l’orbita sia circolare, si esprime il periodo di rivoluzione del pianeta, presente nell’espressione dell’accelerazione centripeta, mediante la terza legge di Keplero. I passaggi algebrici sono molto semplici, ma si è voluto sottolineare che, nel ragionamento che conduce dall’espressione dell’accelerazione a quella della forza, si è utilizzata la seconda legge della dinamica e dunque qualunque conferma della legge di forza ottenuta è anche, indirettamente, una conferma della legge fondamentale della dinamica.
Successivamente si è voluta proporre la dimostrazione svolta da Newton nel caso generale dell’orbita ellittica secondo lo schema riportato in Westfall [1989: 444] e con maggior dettaglio in Guicciardini [1998: 60-64]; qui la dipendenza della forza dall’inverso del quadrato della distanza è ottenuta a partire dalle prime due leggi di Keplero, dunque orbita ellittica e forza centrale. Si è utilizzato CABRI (con cui, ricordiamo, già era stata svolta la costruzione dell’ellisse come luogo geometrico); l’idea alla base della dimostrazione è questa: su un arco d’ellisse PQ, percorso dal pianeta, la forza centrale potrà essere considerata costante in direzione e intensità se l’arco è molto piccolo. La seconda legge della dinamica (anche qui se ne è sottolineato l’utilizzo) prevede che sotto l’azione di una forza costante un corpo si muova secondo la legge del moto uniformemente accelerato stabilita da Galileo. Da qui, utilizzando la legge delle aree e una proprietà dell’ellisse, che non è stata dimostrata ma semplicemente “verificata” sulla costruzione ottenuta con CABRI[xiii], si arriva a dimostrare la tesi.
Certamente la dimostrazione si è presentata come un momento impegnativo; è stato necessario richiamare più volte, agli studenti che evidenziavano incertezze più marcate, il senso di quello che si stava facendo. Tuttavia è stato senz’altro importante proporre questa dimostrazione perché vi abbiamo ritrovato quella tecnica di composizione dei movimenti che si era appresa con l’analisi di Galileo del moto di un proiettile e altre volte utilizzata in questo percorso; così come dobbiamo a Galileo la legge della caduta con accelerazione costante. E dunque si può comprendere il riconoscimento di Newton verso i giganti sulle cui spalle si è poggiato per vedere tanto lontano. Il lavoro che ci ha impegnati, infine, ci ha fatto “toccare con mano” il senso di un’affermazione che si era fatta più volte riguardo alla competenza matematica di Newton, che gli ha permesso di dimostrare ciò che Hooke e altri avevano saputo solo intuire.
6b. Il significato della terza legge di Keplero
A questo punto del nostro percorso verso la legge di gravitazione universale si è letto un brano [Westfall, 1989: 425-426] in cui è descritta la corrispondenza tra Newton e l’astronomo Flamsteed, direttore dell’Osservatorio di Greenwich. Si capisce che Newton era interessato a conoscere una serie di dati osservativi che avrebbero fornito conferma all’idea della gravitazione universale; prima di tutto desiderava conoscere le osservazioni fatte dall’astronomo sui movimenti dei satelliti di Giove, in particolare se anch’essi obbedivano alla terza legge di Keplero. “Le vostre informazioni mi riempiono di soddisfazione” scrive Newton, che ha dunque trovato le conferme che cercava. Con gli studenti, a questo proposito, si è svolta una verifica con il foglio elettronico Excel a partire dai dati sui satelliti presenti nel libro di testo, ottenendo il valore costante del rapporto T2/R3. Newton avrebbe anche chiesto notizie a Flamsteed sulla scoperta di nuovi satelliti di Saturno (dai quali pure avrebbe potuto ricevere conferme); ma, no, Flamsteed è convinto che Saturno abbia un solo satellite (scoperto qualche tempo prima da Huygens). Si è anche letto che Newton desiderava informazioni sul moto della cometa del 1680-81 affermando di “voler determinare le traiettorie percorse dalle comete del 1664 e del 1680 secondo i principi del moto dei pianeti”. L’altra questione di cui Newton mostra di occuparsi è la reciproca influenza tra Giove e Saturno che dovrebbe essere rivelata, quando Giove si avvicina alla congiunzione con Saturno, dalle tabelle sul moto dei pianeti. Il contenuto di questa corrispondenza ha dunque fatto comprendere agli studenti come l’idea di attrazione universale, che avevamo letto in un scritto di Hooke per la prima volta, trovi qua una consistenza ben più rilevante dal confronto con i dati sperimentali.
In particolare, tornando a considerare la terza legge di Keplero, si è osservato come essa ci fornisca un indicazione molto importante: l’accelerazione impressa al corpo attratto, satellite o pianeta che sia, non dipende altro che dalla distanza tra i corpi interagenti. Infatti risulta (nell’ipotesi semplificata dell’orbita circolare):

dove con Kc si è indicata la costante della terza legge che dipende solo dal corpo centrale attraente. Si è chiesto agli studenti riconoscere l’analogia con un fatto sperimentale ben conosciuto; non tutti si sono mostrati pronti a cogliere questa analogia, molti comunque si sono riferiti con sicurezza al fatto che tutti gli oggetti sulla Terra cadono con la stessa accelerazione. Si è dunque concluso che la forza di attrazione, come la gravità terrestre, è direttamente proporzionale alla massa inerziale del corpo attratto; un altro elemento importante verso la conferma dell’unicità della forza che governa fenomeni terrestri e celesti.
6c. La mela, la Luna, la legge della gravitazione universale
Si è considerato, poi, il confronto tra l’accelerazione della Luna sulla sua orbita e l’accelerazione di caduta libera sulla Terra, l’argomento forse più famoso di conferma alla gravitazione universale. Il libro di testo presenta l’argomento con il relativo calcolo, ma si sono volute precisare due questioni risolte dagli autori un po’ frettolosamente. La prima, decisamente la più importante, riguarda l’applicazione della legge dell’inverso del quadrato a una mela che cade in prossimità della superficie terrestre. L’insegnante ha chiesto quale fosse la distanza tra una mela e la Terra; la risposta, ovviamente, non è stata immediata: qualcuno ha osservato che non può essere nulla e altri hanno intuito che distanza nulla si avrebbe al centro della Terra. L’insegnante ha dunque presentato agli studenti, ricordando un brano di Hooke, l’attrazione della Terra su un oggetto come la risultante di tante attrazioni dovute a singoli “pezzi di Terra”. Si è fatto intendere come si tratti di un problema matematico formidabile e si è accennato al fatto che Newton aveva sviluppato una nuova branca della matematica per affrontare tale problema (e altri analoghi); così aveva potuto dimostrare che “l’attrazione gravitazionale esercitata da una sfera di densità uniforme e massa M su un punto P esterno alla sfera è la stessa attrazione gravitazionale esercitata su P da un punto di massa M sito nel centro C della sfera” [Guicciardini, 1998: 74]. Dunque la distanza da considerare tra la mela e la Terra è pari al raggio terrestre; e l’accelerazione della Luna, che è lontana 60 volte di più, dovrebbe essere 1/3600 volte l’accelerazione di caduta della mela e di tutti gli altri oggetti sulla superficie terrestre. Affrontando il calcolo di conferma ci ha portato alla seconda questione da approfondire: come erano stati determinati i dati utilizzati da Newton nel calcolo? E in quali unità di misura erano espressi? Che il rapporto tra raggio terrestre e distanza Terra-Luna fosse stato determinato già nell’antichità era noto agli studenti; ci si è soffermati sulla determinazione dell’accelerazione di caduta libera precisando che fu Huygens, utilizzando le oscillazioni di un pendolo, a misurarla. Si sono riportati i valori espressi nelle unità di misura del tempo, riportati da Newton nel Libro terzo dei Principia [Cohen, 1974:202] la Luna “cade” verso la Terra percorrendo 15 1/12 piedi parigini in un minuto (si tratta di un’antica unità di misura[xiv]); poiché la distanza di caduta è proporzionale al quadrato del tempo, se l’accelerazione sulla Terra, come vuole provare Newton, è 60×60 volte più grande allora una mela sulla Terra deve cadere di 151/12 piedi parigini in un secondo. Il valore ottenuto da Huygens era in accordo con queste previsioni.
L’ultima tappa verso la celebre legge matematica della gravitazione universale parte dalla terza legge della dinamica; se vi è attrazione reciproca e identità delle forze, allora la forza d’interazione deve essere proporzionale al prodotto delle masse interagenti:

Il libro presenta, con un certo dettaglio, l’esperimento di Cavendish mediante il quale fu determinata la costante di proporzionalità; è stata l‘occasione per riflettere sull’importanza degli aspetti tecnici nella costruzione dell’impresa scientifica. Gli studenti hanno manifestato una certa sorpresa quando si sono trovati a pensare, per la prima volta, che l’attrazione gravitazionale riguardava anche loro! E hanno potuto dunque comprendere quanto grande sia stata l’abilità di chi è riuscito misurare forze tanto deboli.
6d. I formidabili successi della gravitazione universale
L’importanza della determinazione di G è stata sottolineata anche per un altro motivo; i libri di testo, e non solo il nostro, contengono tabelle riassuntive di dati relativi ai corpi celesti del Sistema Solare (così come contengono informazioni quantitative su molti aspetti del mondo della Natura). Ciò che quasi nessun libro contiene è un percorso che educhi gli allievi a porsi domande del tipo come facciamo a conoscere …, a sapere che …? Arons [1992: 400] afferma che l’educazione al pensiero critico passa attraverso l’abitudine a porsi questo genere di domande; e osserva che, invece, per la maggior parte delle persone la conoscenza di fatti, leggi, dati è “ricevuta da altri, e non sostenuta dalla comprensione delle motivazioni”. In particolare, per il tema di cui ci stavamo occupando, è stato l’esperimento di Cavendish a consentire la determinazione della massa della Terra, ad esempio dal valore dell’accelerazione di caduta sulla sua superficie, della massa del Sole e di ogni pianeta che abbia almeno un satellite, dalle accelerazioni dei corpi orbitanti.
Questa sezione si è chiusa prendendo in esame ulteriori successi della legge della gravitazione universale. Il libro di testo presenta la spiegazione del fenomeno delle maree sulla base della diversa accelerazione, provocata dalla Luna, della Terra solida e delle masse d’acqua situate sulla sua superficie; tratta delle comete, che con la teoria di Newton diventano normali corpi celesti orbitanti intorno al Sole; accenna ad alcuni esempi di applicazione della legge al di fuori del Sistema Solare. Si è anche presentata la spiegazione che Newton seppe dare di un fatto che era noto agli studenti, la variazione di g con la latitudine sulla base della forma non sferica della Terra.
Tra tutti i successi della teoria di Newton, però, si è voluto soffermarsi in modo particolare sulla scoperta del pianeta Nettuno; in questa vicenda infatti è stato possibile far conoscere agli studenti un esempio dell’intreccio tra teoria e osservazione nella costruzione della conoscenza scientifica. Nettuno infatti fu visto ma non scoperto [Musgrave, 1995: 58] dall’astronomo Lalande nel 1795; mentre non fu visto ma scoperto matematicamente nel 1846 da Adams e Le Verrier, basandosi su alcune anomalie dell’orbita del pianeta Urano, interpretate come perturbazioni dovute all’attrazione gravitazionale di un pianeta non ancora osservato. Si è letta la lettera scritta da Le Verrier all’astronomo Galle il 18 settembre 1846 [Grosser 1986: 89-90, 93]:
“Sarei lieto di trovare un tenace osservatore che volesse dedicare un po’ del suo tempo ad esaminare una parte del cielo in cui può trovarsi un pianeta da scoprire. Sono stato portato a questa conclusione dalla teoria di Urano. Un sommario delle mie ricerche sta per essere pubblicato su Astronomische Nachrichten. Vedrete, Signore, che dimostro che è impossibile dar conto delle osservazioni di Urano senza introdurre l’azione di un nuovo pianeta finora sconosciuto; e, straordinariamente, che c’è una sola posizione nell’eclittica in cui il pianeta può essere localizzato […] La posizione attuale di questo corpo mostra che adesso siamo, e lo saremo per alcuni mesi, in una condizione favorevole per poter fare la scoperta. Inoltre la massa del pianeta ci permette di concludere che il suo diametro è superiore a 3″ d’arco. Questo disco è perfettamente distinguibile, con un buon telescopio, dai diametri stellari spuri causati dalle aberrazioni.”
L’identificazione di Nettuno avvenne il 23 settembre del 1846, da parte degli astronomi J.G. Galle e H.L. D’Arrest, dall’osservatorio di Berlino. E’ stato sorprendente sapere che anche Galileo aveva visto Nettuno senza scoprirlo! [Drake, 1988: 293-294].
In conclusione, sottolineiamo che la rilevanza di quest’ultima sezione del percorso non sta solo nella grande importanza della legge universale che si arriva a scrivere; Westfall [1984,185] afferma infatti che: “l’importanza dei Principia è legata molto più al primo libro che alla legge di gravitazione universale.” Ancor più della legge della gravitazione, dunque, è fondamentale il fatto che la spiegazione del sistema del mondo si basa sulle tre leggi del moto formulate da Newton; queste, dunque, ricevono da ogni fenomeno interpretato con successo in coerenza con la gravitazione universale (maree, comete, previsione dell’esistenza di pianeti non osservati, … ) una conferma formidabile. Qui si dovrebbe ben comprendere l’affermazione fatta nell’introduzione a questo percorso: gli esperimenti di verifica in laboratorio della seconda legge della dinamica (a parte essere occasioni poco più che dignitose per imparare a fare misure) rappresentano una banalizzazione della legge[xv]. Le leggi della dinamica meritano piuttosto una riflessione ampia, svolta attraverso un percorso così articolato, che offra la possibilità di affrontare in modo significativo per lo studente i concetti fondamentali della Fisica classica; e anche di seguire lo svolgersi dell’impresa scientifica, di subire il fascino che la ricerca delle leggi della Natura ha esercitato su coloro che vi hanno partecipato, di “immaginare” la Scienza come un’attività creativa e appassionante.
TEMPI DI SVOLGIMENTO
Il percorso si svolto in un arco di tempo di cinque mesi (da metà settembre a metà febbraio); le ore effettive impiegate in totale sono state 46, più 5 ore necessarie per le verifiche scritte; nelle ore qui indicate sono incluse anche le esercitazioni in classe e la correzione di esercizi e problemi assegnati a casa. Le ore settimanali di Fisica sono tre. In dettaglio:
1. Le osservazioni di Galileo al cannocchiale …: 5 ore
2. Keplero, … la formulazione delle tre leggi: 11 ore
3. “A quo moventur planetae?” … una spiegazione unica per moti celesti e terrestri: 6 ore
4. Newton: il concetto di accelerazione nei moti curvilinei, … :7 ore
5. Il concetto di forza impressa … la seconda e la terza legge del moto:7 ore
6. Dalle leggi del moto dei pianeti alla legge della gravitazione universale: 10 ore
OSSERVAZIONI
ü Si è fatto più volte riferimento al percorso dello scorso anno scolastico ma non è un prerequisito irrinunciabile. O meglio non lo è il percorso; certi contenuti, è ovvio, lo sono.
ü E’ lungo l’elenco delle tematiche che, per ovvi motivi, non si sono potute trattare: la filosofia corpuscolare, il tema dell’azione a distanza connesso con la terza legge, …
ü Nella fase di progettazione l’insegnante aveva ritenuto di poter dare uno spazio più ampio allo studio delle leggi degli urti, in particolare al lavoro di C. Huygens; ciò non è stato possibile, essenzialmente per motivi di tempo.
ü E’ anche evidente che non si è voluti entrare in una vera discussione critica delle definizioni e degli enunciati di Newton, ad esempio la circolarità insita nella definizione di forza (IV) unita alla prima legge del moto. Non è certo la mancanza di rigore ciò che mette in difficoltà gli studenti di questa età! Certamente una riflessione critica è auspicabile ma, come già detto, è fuori dalla portata di studenti di terza liceo.
ü La nostra trattazione è certamente parziale per alcune dimostrazioni; e ovviamente non poteva che essere così. Ad esempio, non si è dimostrato che se un corpo è soggetto a una forza centrale che varia con l’inverso del quadrato della distanza allora la sua traiettoria è una sezione conica.
ü Sarebbe bene, in vista di questo percorso, non avere introdotto affatto la parola massa; ma è veramente impossibile! Per il semplice fatto che gli studenti ne hanno sentito parlare già nella scuola di base, che è difficile trovare un libro di testo che non la introduca, che i dinamometri che ci sono nei laboratori sono tarati in Newton (se i pesi si misurano in N allora che cosa si misura in Kg?) etc… Con questi studenti, nel corso della classe prima, si era introdotto il fatto sperimentale che il peso dei corpi varia con il luogo e che dunque può essere pensato come prodotto di un fattore oggetto per un fattore luogo; al primo di questi si era dato il nome di massa. Su questa questione sarebbe necessaria una discussione più ampia che non quella presentata in queste poche righe.
ü Sarebbe certamente stato interessante approfondire il ruolo delle società e delle accademie scientifiche nel XVII secolo; ci si è limitati soltanto alle notizie presenti sul libro di testo.
ü Non si è descritto qua di tutto quel lavoro di esercitazione e consolidamento svolto sull’uso delle leggi studiate, lavoro, si potrebbe dire, di addestramento: esso è stato presente ma non rappresenta certo la parte più rilevante. Nella prassi didattica tradizionale si arriva relativamente in fretta alle “formule” e si passa a risolvere le decine di esercizi di fine capitolo.

[i] L’immagine è stata tratta da: https://www2.jpl.nasa.gov/galileo/messenger/oldmess/Moon2.html
[ii] https://www.racine.ra.it/planet/testi/mercurio.htm
[iii] https://galileo.imss.firenze.it/indice.html
[iv] https://it.wikipedia.org/wiki/Solidi_platonici
[v] Arons [1992: 131] raccomanda, insieme ad altre, questa esperienza per aiutare gli studenti a superare alcuni preconcetti sul moto circolare.
[vi] Nel film “Inerzia e moto” del PSSC gli studenti avevano osservato, l’anno precedente, il disco messo in moto da una piccola spinta, anche il soffio prodotto con una cannuccia, e lasciato a se stesso.
[vii] In Grimellini [1991, 143] gli autori mostrano come i risultati di diverse ricerche abbiano evidenziato che la concezione dell’impetus medievale è la più frequente tra gli studenti
[viii] Sul quotidiano La Repubblica del venerdì 10 febbraio 2006 è apparsa la notizia del ritrovamento di un manoscritto della Royal Society e del grande interesse degli storici della scienza per questo documento; l’articolo si riferiva esplicitamente a Newton e Hooke ed è stato oggetto di qualche commento in classe
[ix] Il moto della Terra in realtà non è uniforme e in linea retta; riprendere questo tema ed affinarlo ci ha portato a descrivere l’esperimento svolto da G.B. Guglielmini a Bologna (del cui esito, pubblicato nel 1792, gli studenti si sono mostrati dubbiosi), introducendo elementi descrittivi del moto circolare uniforme (la velocità tangenziale) come strumenti utili ad analizzare un contesto preciso, e dunque necessari a comprendere il significato e l’esito dell’esperimento (una definizione, dunque, motivata da un contesto, come già si era fatto per la velocità angolare nella descrizione dell’equante). Sull’argomento si sono assegnati per casa esercizi di determinazione della velocità di rotazione della Terra a diverse latitudini
[x] Si veda anche in Westfall [1989: 399-402]
[xi] E’ stato necessario, trattandosi di studenti di terza che non possiedono ancora il concetto di funzione, esercitarsi sul significato matematico di questa affermazione
[xii] Si è quasi avuto l’impressione che alcuni facciano fatica a individuare la gravità come forza impressa, forse perché sempre presente, indipendente dalla volontà; quasi un’impossibile anticipazione dell’eliminazione della forza nella relatività generale di Einstein
[xiii] Presi un punto P e un punto Q sull’orbita ellittica, si tratta di vedere che il rapporto tra il segmento QR e il quadrato costruito sul segmento QT tende a un valore costante quando si prende il punto Q molto vicino al punto P. Gli studenti facevano muovere Q avvicinandolo a P e potevano verificare che detto rapporto rimaneva costante

[xiv] Per esercizio si è verificato che, sapendo oggi che il piede parigino corrispondeva a 32.484 cm, la distanza percorsa in un secondo da una mela in caduta è 4,9 m, come si ottiene dal valore 9,8 m/s2 per l’accelerazione
[xv] Del resto la prima verifica di laboratorio della seconda legge è stata svolta alla fine del ‘700 (Atwood, 1780) e rappresentava una verifica indiretta.
Le competenze scientifiche dei quindicenni nell’indagine OCSE PISA
Eleonora Aquilini
L’indagine OCSE – PISA 2006 ha come tema principale la Literacy scientifica. “Il concetto di Literacy non è facilmente traducibile in italiano: non si tratta di alfabetizzazione, ma piuttosto di una competenza funzionale alla cittadinanza attiva, che può essere presente a diversi livelli e svilupparsi durante tutto l’arco della vita”.[2] Nel 2003 questa era definita come segue: “La literacy scientifica è la capacità di utilizzare conoscenze scientifiche, di identificare domande e di trarre conclusioni basate sui fatti, per comprendere il mondo della natura e i cambiamenti ad esso apportati dall’attività umana e aiutare a prendere decisioni al riguardo”[3]. Questo modo molto pragmatico, funzionale all’applicazione pratica, di considerare conoscenze e competenze scientifiche è ancora presente nella definizione del 2006. Infatti essa viene descritta come “L’insieme delle conoscenze scientifiche di un individuo e l’uso di tali conoscenze per identificare domande scientifiche, per acquisire nuove conoscenze, per spiegare fenomeni scientifici e per trarre conclusioni basate sui fatti riguardo a temi di carattere scientifico, la comprensione dei tratti distintivi della scienza intesa come forma di sapere e d’indagine propria degli esseri umani, la consapevolezza di come scienza e tecnologia plasmino il nostro ambiente materiale, intellettuale e culturale e la volontà di confrontarsi con temi che abbiano una valenza di tipo scientifico, nonché con le idee della scienza, da cittadino che riflette.”[4]
C’è tuttavia una novità in questa formulazione, infatti nella prima le conoscenze scientifiche comprendevano sia la conoscenza della scienza che la conoscenza sulla scienza, “mentre la definizione del 2006 separa e sviluppa questo aspetto della literacy scientifica”[5]. Vengono aggiunte inoltre le relazioni fra scienza e tecnologia. Resta il fatto che le conoscenze scientifiche servono per comprendere fatti ma anche per prendere decisioni. Nelle definizioni di Literacy in lettura e in matematica non si parla di prendere decisioni. Si intuisce che la scienza ha un carattere utilitaristico più che formativo e questo aspetto viene, a mio avviso, confermato soprattutto dalle scelte degli argomenti affrontati nelle prove proposte ai quindicenni.
Ma vediamo come si articola l’indagine.
Le componenti principali della rilevazione della Literacy scientifica sono le competenze, le conoscenze e gli atteggiamenti. Le competenze, intese come capacità di individuare questioni di carattere scientifico, dare una spiegazione scientifica dei fenomeni, usare prove basate sui dati scientifici sono al centro di questo quadro di riferimento. Esse si manifestano in situazioni di vita che hanno a che fare con la scienza e la tecnologia (i contesti) e sono dipendenti dalle conoscenze sul mondo naturale e sulla scienza in quanto tale (le conoscenze), ma sono imputabili anche alla risposta individuale a questioni di carattere scientifico, all’interesse e al sostegno alla ricerca scientifica, alla responsabilità (gli atteggiamenti).[6]
La valutazione della Literacy scientifica viene quindi effettuata in relazione a conoscenze o concetti scientifici, a processi di tipo scientifico, a situazione e contesti.
Le conoscenze e i concetti sono legati alla fisica, alla chimica, alla biologia alle scienze della Terra e dell’Universo e devono essere riconosciute all’interno degli item. Nei processi viene compreso il descrivere, lo spiegare e prevedere fenomeni, il comprendere cosa sia un’indagine di tipo scientifico e interpretare dati di tipo scientifico. Le situazioni e i contesti sono individuati in tre aree principali: le scienze applicate alla vita e alla salute, le scienze applicate alla Terra e all’ambiente e scienza e tecnologia. La procedura della valutazione è condivisibile, non c’è che dire. Il problema è che le situazioni e i contesti sono discutibili per i ragazzi di 15 anni. Tali situazioni e contesti in alcuni casi non solo sono attuali e di moda come l’ambientalismo, sono anche di estrema complessità, difficilmente analizzabili con gli strumenti disciplinari in possesso di studenti di quindici anni. Temi poi come la salute e le malattie, per gli adolescenti sono solo un sentito dire, a meno che non soffrano loro stessi di malattie specifiche. E’ difficile che a scuola si studino malattie infettive in ambiti disciplinari. Lo stesso dicasi per l’ambientalismo che difficilmente è trattato come un approfondimento di studio degli ambienti naturali (nell’ambito di biologia e Scienza della Terra) o come studio specifico in Chimica degli agenti inquinanti per l’aria e il suolo.
Questo carattere informativo è del resto teorizzato quando si legge “è importante tener presente che spesso gli individui acquisiscono nuove conoscenze non attraverso indagini condotte in prima persona, ma attraverso fonti quali le biblioteche o Internet. Trarre conclusioni basate sui fatti significa dunque conoscere, selezionare e valutare informazioni e dati, riconoscendo che spesso le informazioni non sono sufficienti per trarre conclusioni certe, il che rende necessario avanzare ipotesi, in modo prudente e consapevole, sulla base delle informazioni disponibili.”[7]
Viene presentata una griglia di presentazione dei vari contesti: Salute, Risorse naturali, Ambiente, Rischi, Frontiere della scienza e della tecnologia. In tale griglia si individua sempre un livello personale, uno sociale e uno globale.
Nel caso della salute, ad esempio il livello personale consiste nel mantenersi in salute, il livello Sociale consiste nel controllo delle malattie e loro trasmissione, scelte alimentari, salute nelle comunità, il livello globale riguarda le epidemie, la diffusione delle malattie infettive.[8]
Ci si chiede se a quindici anni si può ragionevolmente tenere sotto controllo tutti questi fattori. Occorrerebbe che i nostri ragazzi avessero almeno una laurea in medicina!
La questione importante è che la scelta di questi contesti comporta una vastità di argomenti disciplinari che è impensabile possedere a quindici anni in modo compiuto, ossia potendo esprimere all’interno di essi vere competenze scientifiche. Michela Mayer rileva che “gran parte delle informazioni necessarie sono spesso contenute nel testo stesso, le competenze richieste non sono legate al ricordare, ma quelle necessarie per comprendere il problema, ragionarci sopra, collegare le informazioni fornite e trovare una risposta.”[9] Questo è vero ma sono appunto informazioni non concetti assunti.
Il problema è dimostrare di possedere competenze scientifiche e quindi capacità di fare ipotesi in contesto quando i contesti sono lontani e di una complessità disciplinare molto elevata. E’ difficile pensare che a quindici anni, in ambiti che non si conoscono a fondo si possa ragionare scientificamente. A questa età la capacità di fare ipotesi e proporre dimostrazioni è strettamente legata ai campi disciplinari e contesti noti, familiari, perché si è nella fase di acquisizione di queste capacità. Non è ancora compiuta l’acquisizione della scienza di base e dei suoi metodi, anzi è appena iniziata. Non siamo capaci di ragionare in astratto ( in contesti sconosciuti ) quando non si è ragionato molte e molte volte su casi semplici, dominabili, anche grazie alle proprie conoscenze. A quindici anni, ripeto, questa capacità di ragionare in astratto su temi complessi come le malattie, la salute e l’ambientalismo non può essere data per acquisita. Come non lo è in altre età se molti argomenti non sono mai stati affrontati in profondità. La profondità della conoscenza scientifica non è la familiarità con alcune parole sentite alla televisione, alla radio, lette su internet o sui giornali. La familiarità con la scienza non è il sentito dire, non è il senso comune e neanche il buon senso. E’ difficile ragionare scientificamente su parole sentite e ripetute su cui non sono stati costruiti dei concetti.
La questione del “valore”
Nell’introduzione all’indagine OCSE -PISA 2006 si pone molto frequentemente la questione del valore che deve avere per un cittadino il ricorso alla scienza e alla tecnologia. La domanda principale che ci si fa è questa: “Che cosa è importante che un cittadino conosca, a che cosa è importante che dia valore e che cosa è importante che sia in grado di fare in situazioni che richiedano il ricorso alla scienza e alla tecnologia?”[10] Rispondere a questa domanda non è banale e si legge: “ …All’atto pratico, tuttavia essa solleva domande sul cosa s’intenda per comprensione scientifica dei fatti e non implica che vengano padroneggiate tutte le conoscenze scientifiche. Alla base di questo quadro di riferimento ci sono le conoscenze dei cittadini: quali conoscenze sono più necessarie ad un cittadino? I concetti di base delle diverse discipline costituiscono una risposta a questa domanda, ma anche il sapere utilizzare tali conoscenze in contesti legati alla propria vita quotidiana”[11].
Inoltre il cittadino di cui si sta parlando è un ragazzo di quindici anni e allora è vero che “la rilevazione dovrebbe concentrarsi su quelle competenze che mostrano cosa uno studente quindicenne sa, a che cosa dà valore e che cosa è in grado di fare all’interno di contesti- personali, sociali e globali- ragionevoli e appropriati alla sua età.”
Credo che una riflessione debba essere fatta su cosa s’intenda per comprensione scientifica dei fatti a quindici anni. E’ da sottolineare inoltre che lo studente quindicenne non è un adulto e che il concetto di competenza di cittadinanza è riferibile alla capacità di usare logica e metodo in contesti ben definiti e dominabili anche dal punto cognitivo. In sostanza il cittadino quindicenne non tenta di rispondere a domande di cui non conosce il significato e che vengono definite scientifiche, ma dice: “Capisco che c’è un problema di cui non comprendo i termini, cercherò di capire e poi risponderò”. Questa è la risposta giusta che deve dare un cittadino che possiede literacy scientifica se ha riconosciuto valore al sapere che ha acquisito, se si è appassionato a ciò che ha studiato perché lo ha capito nel dettaglio. Se viceversa non si dato peso a niente in particolare e nella prima classe della scuola secondaria di secondo grado si ha già un’infarinatura di tutto, molto superficiale, molto trasmissiva e libresca ci si può buttare a rispondere. Tanto una cosa vale l’altra. Tanto niente ha valore, niente è speciale, su niente c’è stata la fatica vera della comprensione approfondita. D’altro canto la scienza, nella visione di questa indagine internazionale e nella visione ormai consolidata, non è formativa. Il valore formativo non è dato da ciò che è utile e serve ad un generico cittadino, ma da ciò che quel cittadino può comprendere in base alla sua età alle sue conoscenze. Questa comprensione accurata e profonda è ciò che serve per la formazione dell’alunno quindicenne. E’ l’aver studiato pochi argomenti scientifici e bene che gli farà comprendere quali sono i rapporti con la tecnologia e che lo porterà a riflettere sulla scienza oltre che di scienza.
Per rispondere alle prove invece bisogna sapere un po’ di tutto.
Le prove rilasciate[12]
Le prove rilasciate sono di natura diversa e di complessità molto differente. Ce ne sono alcune francamente accettabili come quelle dal titolo: Il comportamento dello spinarello, Lavorare sotto il sole, La luce delle stelle, L’evoluzione, il Lucidalabbra, il Transito di Venere, Energia eolica. In esse i riferimenti disciplinari sono ben definiti. Non si spazia troppo nelle varie aree disciplinari. Queste sono le condizioni per cui la logica e il pensiero razionale si può esercitare senza bisogno di tener conto di troppi fattori disciplinari che si intrecciano fra loro. Inoltre i contesti non sono troppo complessi neanche al primo impatto. In ambito scientifico, ci sono degli argomenti talmente complicati e complessi dal punto disciplinare e dal punto di vista dell’isolabilità dei vari fattori che costituiscono il contesto che anche se poi le domande invocano solo una logica non direttamente riferibile alla disciplina, è difficile non averne paura e automaticamente rifiutarsi di pensare. Nella prova “Salute a rischio”, ad esempio si parla di fertilizzanti; se l’argomento non è conosciuto dal punto di vista chimico è difficile fare i ragionamenti che sono richiesti, anche se alcuni di essi non sono strettamente legati alla disciplina.
In questa come nelle altre prove rimanenti: il Mais, la Carie, Vietato fumare, Ultrasuoni, la Pasta di pane, Marmitta catalitica, Operazioni sotto anestesia, è difficile che si abbiano a disposizione le conoscenze richieste, vista la complessità degli argomenti.
Credo che un alunno debba, nella maggior parte dei casi, tirare ad indovinare in quanto troppa biologia, troppa chimica, troppa fisica troppa scienza della Terra, troppe conoscenze di studi statistici sono richieste per rispondere ai quesiti. All’alunno vengono presentati problemi grossi non dominabili cognitivamente e in cui spesso non basta applicare la logica e il saper ragionare scientificamente. Si prenda il caso dell’item :“Il vaiolo dei topi”, per rispondere alle domande poste occorre sapere cosa sono i virus, che cos’è il DNA e che cosa sono i geni, che cos’è l’immunità e come si acquisisce. E’ ovvio che senza queste conoscenze non si risponde neanche alla prima domanda, tuttavia, negli approfondimenti a cui l’alunno potrebbe essere interessato c’è scritto:
a) saperne di più sulla struttura dei virus, b) sapere come mutano i virus, c) comprendere meglio come il corpo si difende dai virus.
Se l’alunno non ha già approfondito come ha fatto a rispondere? Su cosa ha ragionato? Si è basato sul sentito dire?
Di batteri poi si parla con tranquillità, ad esempio, nei quesiti sulla carie, sull’acqua potabile, sulle operazioni sotto anestesia.
Io non so se ci rende conto che se a quindici anni si può pensare di proporre con molta disinvoltura test di valutazione su virus e batteri, vuol dire che si pensa che tutta la chimica di base inorganica e organica deve essere studiata entro la scuola secondaria di primo grado e lo stesso dicasi della fisica. Non è che qui si voglia fare un discorso riduzionista , ma se in queste prove si dà per scontato che a quindici anni si debba conoscere la biologia molecolare, è ovvio che tutta la chimica di base deve essere nota. Il DNA è una molecola complessa e, per non parlarne a vanvera, di Chimica occorre saperne parecchia.
Quando poi si parla di malattie e di studi su di esse bisogna avere anche molte conoscenze di studi statistici per sapere come si scelgono e si studiano i campioni in modo competente. Un esempio è dato dalla terza domanda dell’item “Vietato fumare” dove si dà per scontato che un ragazzo di quindici anni sappia che uno studio sulla validità di un farmaco comporta che si abbia un campione di studio a cui viene somministrato il farmaco e uno di riferimento a cui non viene somministrato. Sono assolutamente senza senso per un ragazzo di quindici anni le prove: “ultrasuoni” e “operazioni sotto anestesia”. In entrambe si pongono questioni di medicina che un alunno non è assolutamente tenuto a sapere. Nel primo, gli ultrasuoni, l’argomento non banale per un quindicenne, viene contestualizzato nell’ecografia che fanno le donne che aspettano un bambino. Dopo una domanda non semplicissima su quale grandezza misurare, una volta nota la velocità dell’onda, se ne fa un’altra sulla nocività dei raggi X per valutare le dimensioni del feto. La cosa buffa è che fra i possibili approfondimenti a cui può essere interessato l’alunno c’è: imparare quali sono le differenze fra raggi X e ultrasuoni. Se non si sanno queste differenze come si fa a rispondere?
Un fattore non trascurabile è il tempo che è stato dato agli studenti per risolvere i quesiti: due ore per sedici item. Troppo poco tempo per riflettere su cose che non si conoscono. Inoltre la comprensione del testo può non essere immediata anche solo per la formulazione linguistica. Francamente se queste prove fossero proposte a ragazzi di diciannove anni che hanno compiuto un percorso di studi scientifici più consistente, che hanno terminato la scuola secondaria superiore, il giudizio sarebbe diverso.
Nel libro “Le valutazioni internazionali e la scuola italiana” si sottolinea che “In primo luogo occorre accettare che i risultati degli studenti nei test internazionali non possono essere considerati un effetto casuale o dovuto soltanto alle caratteristiche proprie dell’indagine, ma sono correlati a caratteristiche proprie della scuola italiana, o almeno di una parte della scuola italiana, e del tipo d’insegnamento che vi si propone”.[13] Si dice, giustamente, che tale insegnamento è trasmissivo, legato al libro di testo, “ancorato alla didattica disciplinare e non integrato”[14] e che l’immagine della scienza fornita dalla scuola italiana non è solo fondamentalmente nozionistica, ma è, per lo più, un’immagine statica e autoritaria che non stimola né la creatività né la curiosità”.[15] Il fatto è che il rinnovamento della didattica delle scienze, non viene favorito da indagini di questo tipo che volontariamente non prendono come riferimento il curricolo delle singole nazioni e si basano su un’idea di competenza scientifica di fatto decontestualizzata dall’età degli alunni. Se è vero che occorre proporre “<<un criterio di rilevanza>> per la scelta dei temi trattati”[16] e che sono buoni esempi per il rinnovamento i programmi attuali della scuola elementare e media e i programmi IGEA e Brocca della scuola media superiore, non è condivisibile che il farli propri nell’insegnamento serva a rispondere alle richieste del PISA per le scienze. Il rinnovamento dell’insegnamento scientifico e le prove proposte nel PISA 2003 e 2006 stanno su piani differenti.
Queste ultime si collocano di fatto su un piano enciclopedico, informativo dell’insegnamento delle scienze che non aiuta la vera comprensione scientifica dei fatti. Si tratta, inoltre, di saper comprendere un testo dal punto di vista sintattico, non di comprendere temi scientifici e di sapervi ragionare.
Quello che veramente lascia sconcertati di queste prove è l’assenza di un’ idea generale di curricolo che dovrebbe essere seguito nella scuola di base e nella scuola secondaria superiore. Questa dovrebbe esserci valutando i punti di arrivo. La stessa cosa non si può dire per le prove PISA per la literacy matematica che non si presentano mai come estranee al curricolo, ma sono contestualizzate anche cognitivamente per i quindicenni. Inoltre è inquietante il tipo di filosofia didattica che esse veicolano: molta informazione e molta trasmissività nell’insegnamento scientifico. “Il problema è il peso che possono avere, quando la scuola pensi il proprio insegnamento in funzione di esse, in quanto rischiano di arrestare un processo di rinnovamento nella scuola dell’insegnamento scientifico che in alcune scuole è in atto nonostante mille difficoltà. Si rischia di ritornare all’insegnamento nozionistico (o di rimanervi) per addestrare alunni e risolvere queste prove insignificanti che hanno vesti pedagogiche e motivazioni “internazionali”.[17]

[1] Pubblicato in Rivista dell‘Istruzione, n. 4, 2008.
[2] Siniscalco, Bolletta, Mayer, Pozio, Le valutazioni internazionali e la scuola italiana, Bologna, Zanichelli,2008, p.296.
[3]Valutare le competenze in scienze, lettura e matematica-quadro di riferimento di PISA 2006, Roma, Armando, 2007, p.32.
[4] ibidem, p.17.
[5] Ibidem, p 32.
[6] Ibidem, p.33.
[7] Ibidem, p.30.
[8] Ibidem, p. 35.
[9] Siniscalco el al. Op.cit, p.302.
[10] Ibidem, p. 26
[11] Ibidem, p.27.
[12] https://www.invalsi.it/download/pisa06_Prove_rilasciare_PISA_2006.pdf
[13] Siniscalco et al., op.cit, p.316.
[14] Ibidem, p. 291.
[15] Ibidem, p.317.
[16] Ibidem p.318.
[17] E.Aquilini, L’indagine OCSE-PISA 2003 nelle Scienze: competenza o ignoranza pedagogica? , Insegnare, 2005, 4,33.
La rivoluzione chimica
Eleonora Aquilini
“La precisione per gli antichi Egizi era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime. Quella piuma leggera aveva nome Maat, dea della bilancia. Il geroglifico di Maat indicava anche l’unità di lunghezza, i 33 centimetri del mattone unitario, e anche il tono fondamentale del flauto.”[1]
Calvino inizia così una delle Lezioni Americane, quella dedicata all’Esattezza. Trovo straordinario questo modo di concepire la precisione e di raccontarla. La precisione è bilancia che pesa le anime, è unità di misura, è musica.
Una volta ho sentito spiegare da un vecchio insegnante di Fisica il funzionamento di una bilancia a due bracci dell’ottocento che si trovava nell’Istituto in cui lavoravo. Ne parlava e la trattava come un’opera d’arte: era un gioiello da maneggiare con estrema cura e di cui parlare con amore. Ne rimasi affascinata. La precisione assumeva un aspetto diverso da quello che ha solitamente nella scuola: un tormento che inizia con le tabelline, passa per i calcoli generalmente incomprensibili sull’incertezza della misura quando s’inizia a studiare la Fisica, attraversa tutte le valutazioni di compiti e interrogazioni e finisce con il voto dell’esame di stato. Tutti sappiamo che cos’è la mancanza di precisione a scuola: è errore, è colpa, è inettitudine degli studenti a eseguire operazioni mentali e manuali. Da piccoli ci dicono che il primo della classe è bravo perché è uno ordinato e preciso, ma come fa a non sbagliare mai?, cosa è che lo mette in guardia sempre dagli errori?, ci chiediamo. La precisione diventa nel tempo un valore morale, un termine di confronto ideale, è quello che non siamo e che purtroppo non saremo mai.
Ma che cos’è veramente la precisione? Se ne può capire l’importanza? Si può insegnare?
Un gruppo di ragazzi di un Istituto d’Arte mi ha detto che per loro non è umiliante rifare più volte lo stesso bozzetto architettonico, perché lo scopo è fare un plastico che sia fatto nel migliore dei modi possibili.
La precisione spesso acquista senso e significato dal suo opposto, prendendo corpo da situazioni complesse. La precisione può diventare un valore autentico per ognuno di noi se se ne comprende il significato nei vari contesti di studio, in classe, in laboratorio.
La Chimica e la precisione
In un percorso didattico che abbia lo scopo di far comprendere come la misura e la precisione abbiano portato la Chimica dalla fase prescientifica, alchemica, a quella scientifica, occorre tenere presente che prima di Lavoisier i chimici non facevano della misura uno strumento privilegiato d’indagine…. “ Nessuno aveva loro insegnato che la quantità del chimico è il peso; i laboratori di chimica dei primi anni del Settecento non contemplavano bilance di precisione, e ribollivano di ricerche sui processi più che sui materiali della natura”.[2]
Certo è interessante scoprire perché ad un certo punto della storia della chimica, diventa importante misurare e farlo in modo preciso. Sono di rilievo due importanti considerazioni che fa Gillespie, la prima in relazione alla biografia scientifica di Lavoisier, la seconda in riferimento alla legge di conservazione della materia: “Lavoisier..fu educato nella più sicura delle culture, al collegio Mazzarino, di Parigi. La sua mente si rivelò uno dei più acuti strumenti critici mai creati dalla scuola secondaria francese, quel notevole processo che, continuando nei grandi lycées, infonde nell’intellighenzia francese qualcosa dello spirito cartesiano, qualcosa della sua tensione verso l’ordine e l’unità della dottrina…..Quando Lavoisier entrò nel mondo della scienza, negli anni fra il 1760 e il 1770, dapprima attraverso la geologia, poi sempre più spinto verso la chimica, non si mosse fra predicatori e farmacisti, fra nobili e dottori; si mosse, invece, nell’ambiente dell’Accademia francese della Scienze, scegliendosi i suoi amici fra i matematici, particolarmente Laplace, Lagrange e Monge. Questi uomini giudicarono le idee con rigore…la fisica aveva già imparato a non trarre teorie da principi vaghi come il flogisto”[3]…… “In qualche occasione gli scienziati hanno scritto che Lavoisier formulò la legge di conservazione della materia. La realtà è più semplice: egli l’aveva soltanto assunta. Era stata per lui, come per tutti i materialisti antichi, una precondizione, ma non un risultato del suo lavoro: <<Dobbiamo formulare come assioma inconfutabile>>, si trova scritto nel Trattato elementare di chimica, <<che in tutte le operazioni naturali e artificiali, niente si crea; un’ ugual quantità di materia permane sia prima che dopo l’esperimento>>. Da questo principio, scrive ancora nella Memoria sull’acqua, deriva <<la necessità di fare esperimenti con maggiore precisione. E su scala più ampia>>[4].
Si può ritenere quindi che sia stato il principio di conservazione della materia, come principio epistemologico interiorizzato, a guidare Lavoisier nei suoi studi sulla combustione. Questa era spiegata con la teoria del flogisto[5], che sosteneva che la sostanze infiammabili contenevano flogisto che usciva dai corpi disperdendosi nell’aria. In modo analogo veniva spiegata la calcinazione dei metalli: il metallo contenente flogisto, lo liberava nella formazione della calce metallica. L’osservazione che nonostante che il metallo diventando calce metallica, perdendo flogisto, pesasse di più, non faceva dubitare della teoria. Il peso delle sostanze era un fattore che non veniva collegato al processo di trasformazione. L’atto di pesare le sostanze prima e dopo se non è messo in relazione al principio di conservazione della materia non ha significato, né interpretativo, né esplicativo. D’altra parte il concetto moderno di trasformazione chimica deve ancora nascere e nasce solo quando si assume il principio di conservazione della materia.
Siamo con il flogisto ancora nel mondo del pressappoco, di cui parla Koyré, che deve diventare universo della precisione. Nel mondo del pressappoco, “ Nessuno si è mai provato a contare, pesare, misurare….. Nessuno ha mai cercato di superare l’uso pratico del numero, del peso, della misura nell’imprecisione della vita quotidiana – contare i mesi e le bestie, misurare le distanze e i campi, pesare l’oro e il grano, per farne un elemento di sapere preciso.”[6]
Il flogisto sta nel mondo del pressappoco, è un’invenzione, che ha però il merito di spiegare nello stesso modo la combustione e la calcinazione dei metalli. Questi due processi vengono associati e “il grande merito di Stahl è di aver capito la somiglianza, oggi riconosciuta da tutti, tra metalli e combustibili e tra calcinazione e combustione”, come scrive lo stesso Lavoisier.
Con Lavoisier la combustione e la calcinazione vengono spiegate mettendo al posto del flogisto che sta dentro i corpi che bruciano, l’aria che sta fuori, che è, in un primo momento, una, unica, indistinta, è l’aria atmosferica; successivamente si comprende che è attiva solo una parte di essa, che è un’aria più pura, eminentemente respirabile, è l’ossigeno. Quest’aria non trasforma alchemicamente il combustibile, ma si combina con esso ed entrambi diventano altro. Nel caso della calcinazione dei metalli, l’aria si combina con il metallo diventando calce metallica, ossia ossido metallico, che ha proprietà diverse dalle sostanze di partenza ma le contiene entrambe.
Prima di comprendere qual è la parte attiva dell’aria, dando senso compiuto alla teoria della combustione, Lavoisier dà un primo grosso colpo alla teoria del flogisto quando dimostra che è l’aria, che si fissa nelle sostanze. Riesce nel suo intento perché pesa con lo scopo di misurare, con l’idea che la materia si conserva sempre. Grazie a questa convinzione chiude i recipienti in cui avvengono le trasformazioni. Questo è un atto rivoluzionario. Fa avvenire le combustioni sotto una campana di vetro, per mezzo di uno specchio ustorio. La tecnica di cui si avvale è raffinata: per le combustioni dello zolfo e del fosforo usa “una lente di qualità appartenente all’Accademia, <<le verre ardent du Palais Royal>> ed uno specchio ancora più potente, di proprietà di uno dei nobili casati che patrocinavano la scienza, <<le grand verre ardent de la Tour d’Auvergne>>”[7].
Lavoisier pesa le sostanze prima e dopo che la trasformazione è avvenuta, pesa tutto quello che sta dentro il recipiente chiuso e scopre che l’aria che manca è andata a finire dentro il metallo che è calcinato, o dentro lo zolfo che si è incendiato. Usa bilance di cui annota la provenienza e il grado di precisione.[8] Grazie a queste misure, si passa dall’alchimia alla chimica moderna. Il 1772 è considerato l’anno della scoperta fondamentale, perché Lavoisier deposita, il 1° Novembre, un plico chiuso nelle mani del Segretario dell’Accademia delle Scienze in cui scrive:
“Sono circa otto giorni che ho scoperto che lo zolfo, bruciando invece di perdere peso ne acquista..avviene la stessa cosa con il fosforo: questo aumento di peso deriva da una quantità prodigiosa di aria che si fissa durante la combustione e che si combina con i vapori. Questa scoperta che ho constatato con delle esperienze che considero decisive, mi ha fatto pensare che ciò che ho osservato nella combustione dello zolfo e del fosforo avrebbe potuto aver luogo con tutte le sostanze che acquistano peso con la combustione e la calcinazione; e mi sono persuaso che l’aumento di peso delle calci metalliche deriva dalla stessa causa. L’esperienza ha completamente confermato le mie congetture….Sembrandomi questa scoperta una delle più interessanti fra quelle che sono state effettuate dopo Stahl, ho creduto dovermene assicurare la proprietà , effettuando il presente deposito nelle mani del Segretario dell’Accademia, per rimanere segreto fino al momento in cui pubblicherò le mie esperienze”[9].
Se “la rivoluzione della chimica consisté nell’estensione del concetto di combustione di Lavoisier alle altre reazioni chimiche”[10], possiamo aggiungere che il concetto di reazione chimica nasce dalla generalizzazione degli aspetti quantitativi del processo[11]. Le definizioni operative di composto ed elemento, che dobbiamo ancora a Lavoisier, nascono insieme al concetto di reazione, con gli aspetti qualitativi e soprattutto quantitativi che la caratterizzano.
Lavoisier a scuola: dal flogisto alla conservazione della materia
Percorsi didattici che riguardino i nodi concettuali messi in evidenza sono, a nostro avviso, molto importanti per la comprensione delle basi della chimica e per la formazione scientifica degli alunni. Pensiamo che le parti salienti del lavoro di Lavoisier debbano essere proposti agli alunni che iniziano lo studio della chimica , che generalmente coincide con il biennio della scuola secondaria superiore.
Proponiamo qui la schematizzazione di un percorso didattico dal flogisto alla conservazione della materia[12]:
1) Esperienza di calcinazione di metalli
Ferro, Stagno, Zinco, Piombo vengono posti ciascuno in una capsula e collocati sopra la fiamma del bunsen per 15-20 min. Si pesa la capsula e il suo contenuto prima e dopo il riscaldamento. Si ripete l’esperienza ponendo i metalli in provette pyrex.
Tali esperienze permettono di prendere atto che si è formata sulla superficie dei metalli una sostanza diversa e che si ha sempre, dopo la calcinazione, un aumento di peso che è maggiore nel caso della capsula. La riflessione con gli alunni porta ad evidenziare che la calce metallica si forma in presenza di aria.
Si pone la domanda : “Che spiegazione può essere data a questo fenomeno?”
Generalmente gli alunni non sanno rispondere e questo dà l’opportunità di contestualizzare storicamente il problema, dicendo loro che questo è stato un grande problema per l’umanità che è stato spiegato, ad esempio, con la teoria delle particelle ignee che passando attraverso i recipienti avevano la capacità di trasformare il metallo in calce metallica.
2) Esperienze di combustione di materiali come carta, legno, alcool etilico.
Dopo l’osservazione del fenomeno si pone la domanda: che tipo di trasformazione è la combustione? Che cos’è secondo voi il fuoco? Perché l’aria è necessaria alla combustione?
Gli alunni non sanno che cos’è il fuoco. Lo pensano aristotelicamente come uno dei quattro elementi. Alcuni alunni hanno imparato, in modo assiomatico, che è l’ossigeno che fa bruciare i corpi. Si può chiedere allora: come si può dimostrare quello che hai detto? Che cos’è l’ossigeno?
Facciamo notare garbatamente che il lavoro che vogliamo fare insieme è proprio capire a fondo quello che loro sanno per sentito dire. Nella mia esperienza questa considerazione li incuriosisce e li spinge a seguire il lavoro sentendosi coinvolti.
3) La teoria del flogisto.
Si prende in considerazione la teoria del flogisto (dal greco <incendiare>), elaborata da Stahl e si sottolinea come sia stata particolarmente significativa nella spiegazione del fenomeno della combustione. Secondo questa teoria le sostanze che sono in grado di bruciare contengono una sostanza particolare, chiamata flogisto, che quando esce dal combustibile si trasforma in fuoco. Si propone la schematizzazione:

combustibile (innesco) flogisto (luce + calore) + cenere
L’aria, secondo la teoria di Stahl è importante, in quanto è uno strumento essenziale nella combustione, permette il passaggio del flogisto dal combustibile all’aria stessa.
In modo analogo viene spiegato il fenomeno della calcinazione:

metallo flogisto + calce metallica
4) Il paradosso della variazione di peso.
Si confrontano i dati ottenuti dalla prima esperienza, quella di calcinazione dei metalli con la spiegazione data da Stahl sulla calcinazione. Come è possibile che il metallo, perdendo qualcosa venga a pesare di più? Nel caso della combustione, invece, la diminuzione di peso non è in disaccordo con la perdita di flogisto La contraddizione, per noi insanabile fra perdita di materia e aumento di peso non era percepita come tale al tempo di Lavoisier e si riflette con gli alunni su questo nodo epistemologico.
5) 1772: La scoperta fondamentale
Lavoisier chiude i recipienti nei quali avvengono le trasformazioni. Racconto delle esperienze di combustione del fosforo e dello zolfo, visione di immagini che illustrano l’esperienza. Si riflette su gli aspetti tecnici dell’esecuzione dell’esperienza per evidenziare che questi sono legati a teorie che guidano le operazioni manuali. Lettura del testo della nota inviata il 1° Novembre 1772 al segretario dell’Accademia a delle Scienze.
7) La conferma sperimentale delle ipotesi di Lavoisier: i recipienti chiusi.
Dopo aver riassunto le ipotesi esplicative al tempo di Lavoisier:
a. ipotesi delle particelle ignee:

metallo + particelle ignee calce metallica
b. ipotesi del flogisto

metallo flogisto + calce metallica
c. ipotesi di Lavoisier

metallo +aria calce metallica
viene illustrata l’esperienza della calcinazione dello stagno effettuata ponendo in una storta di vetro una quantità ben precisa di stagno e pesando il recipiente chiuso prima e dopo la calcinazione. Lavoisier constata che il peso non è aumentato. È aumentato invece il peso del solo metallo calcinato.
Vengono quindi discusse le tre ipotesi schematizzate e si giunge alla conclusione, a cui giunse Lavoisier che la sola ipotesi confermata è quella che il metallo si sia combinato con l’aria.
7) Considerazioni conclusive.
Con gli alunni si evidenzia la portata rivoluzionaria di queste esperienze condotte da Lavoisier che confermano due dei principi basilari della chimica:
1) il principio di conservazione della materia
2) la combustione e la calcinazione avvengono per combinazione con l’aria.
Si sottolinea il fatto che l’invarianza del peso nelle trasformazioni chimiche non è un fatto evidente: sono occorsi 1772 dopo la nascita di Cristo per esserne consapevoli, comprenderlo razionalmente e dimostrarlo. Il tutto è legato al concepire l’aria come “agente chimicamente attivo” .
Lavoisier e i libri di testo
Gli alunni seguono con partecipazione e coinvolgimento il percorso che segue lo sviluppo storico della disciplina: non ne hanno paura. La diffidenza nei confronti della storia della scienza è talvolta degli insegnanti che conoscono la disciplina prevalentemente in termini di definizioni e applicazioni addestrative. D’altra parte i libri attraverso i quali l’insegnante consegue la sua formazione procedono per definizioni dogmatiche che riportano i risultati oggi accettati della disciplina. Come sostiene Kuhn ne La struttura delle soluzioni scientifiche, “Nella storia, nella filosofia e nelle scienze sociali, il corso universitario di base richiede, oltre allo studio dei manuali, la lettura di fonti originali, alcune delle quali sono i classici del campo…e fino agli ultimi stadi dell’educazione di uno scienziato i manuali sostituiscono sistematicamente la letteratura creativa che li ha resi possibili. ….Naturalmente si tratta di un’educazione rigida e limitata, più rigida e limitata di ogni altro tipo di educazione”[13].
Quando l’opera di Lavoisier viene sintetizzata nei manuali scolastici con la frase: “In una reazione chimica, la somma delle masse dei reagenti è uguale a quella dei prodotti” e la contestualizzazione storica è data con l’aneddoto della ghigliottina, magari messo come didascalia al quadro che lo ritrae insieme alla moglie, lo sgomento è grande. Questi tagli sul suo lavoro straordinario che va dalla scoperta fondamentale al concetto di elemento chimico, passando attraverso la composizione dell’aria, dell’acqua, dell’anidride carbonica, degli acidi (più in generale del concetto di composto) e la riforma della nomenclatura, sono colpi allo studio della chimica analoghi a quelli che la ghigliottina ha inferto allo stesso Lavoisier. Viene ignorata, nei libri di testo, la genialità e la grande significatività del suo lavoro, che ha portato la chimica a diventare scienza. Viene ignorato che con Lavoisier l’aria ha preso sostanza, ha acquistato un’ anima che può essere pesata in modo preciso e… questo peso ha donato alla chimicala sua misura.

[1] Italo Calvino, Lezioni Americane, Milano, Garzanti, 1988, p.57
[2] Charles C. Gillespie, Il criterio dell’oggettività, Bologna, Il Mulino, 1981, p.203.
[3] Ibidem, pp. 208-209.
[4] Ibidem, p.226.
[5] Si usa qui l’espressione “ teoria del flogisto”, tuttavia “Come ha dimostrato Ferdinando Abbri una teoria del flogisto non è mai esistita. Nel corso del Settecento, fino alla grande rivoluzione concettuale operata da Antoine Laurent Lavoisier , la parola flogisto significò cose diverse all’interno di ciascuna teoria, funzionò come un concetto ridondante e come una vera e propria <<fisarmonica concettuale>>. (P.Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa”, Bari, Laterza, 1997, p.228.
[6] A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Venezia, Einaudi, 1999, pp. 97-98.
[7] Charles C. Gillespie, Op.cit.p.210
[8] C.Fiorentini, E.Aquilini, D.Colombi, A.Testoni, Leggere il mondo oltre le apparenze, Roma, Armando, 2007, p.152.
[9] A. Lavoisier, Détail historiques sur la cause de l’augmentation de poids qu’acquièrent les substances métalliques lorsqu’on les schauffe leur exposition à l’air, tome II, Paris, Imprimerie Imperiale, 1862, p.103
[10] Charlee C. Gillespie, op. Cit., pp.225-226.
[11] C.Fiorentini et al., Op.cit.,. pp. 212-213.
[12] Ibidem, pp.141-156
[13] T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1995, pp.198-199.
Immagini della scienza e competenze scientifiche
(in F. Cambi, M. Piscitelli, Complessità e narrazione, Armando, Roma, 2005, pp. 85-114.)
Carlo Fiorentini
Cosa sono le competenze?
Saperi e competenze[1] si propone di fare il punto della riflessione, del dibattito, delle proposte e delle sperimentazioni che sono state effettuate negli ultimi anni intorno agli aspetti scolastici fondamentali dal punto di vista culturale e didattico.
Viene innanzitutto precisato il confine della nozione di competenza che, in particolare durante gli anni dell’esperienza ministeriale berlingueriana, aveva assunto un ruolo centrale come parola emblematica del rinnovamento culturale scolastico. Per Cambi, si tratta di un concetto articolato, complesso, che perde di significato se viene ridotto soltanto ad alcuni suoi aspetti, pur importanti. Innanzitutto, senza un bagaglio strutturato di conoscenze (e strutturato significa articolato in aree disciplinari) non vi sono competenze. “Dal complesso lavoro sui saperi devono emergere due tipi di competenze: una <<di contenuto>> e una <<di forma>>”. Mentre la prima è legata al possesso di conoscenze specifiche, la seconda “è più una forma mentis transdisciplinare, orientata in senso scientifico e critico”. I saperi implicano inoltre sempre un <<saper fare>>, e ciò significa che i saperi scolastici non possono rimane inerti, devono essere applicati; non vi è cioè competenza senza questi <<saper fare>>, che sono poi specifici dei vari ambiti culturali. Infine, un’altra dimensione fondamentale delle competenze è data dallo sviluppo di capacità riflessive e critiche sui saperi, perché non vi è “conoscenza vera se il conoscere non si applica anche alla conoscenza stessa… Metaconoscenza è possedere dispositivi di lettura trasversale sui saperi, quali la complessità e la narratività”. Tutto ciò deve condurre da una parte “ad apprendere ad apprendere” e dall’altra a stimolare atteggiamenti personali verso la conoscenza, quali il gusto del conoscere.
In altre parole, la scuola delle competenze, così intese nella loro complessità e organicità, implica una <<rivoluzione didattica>>, che indubbiamente è già in corso da molto tempo, grazie alle sperimentazioni condotte dalla parte più innovativa della scuola, ma che ha bisogno di essere generalizzata ed istituzionalizzata. Implica inoltre “una pedagogia molto più ricca e sofisticata rispetto a quella attuale[2] e una didattica scolastica radicalmente rinnovata[3] rispetto al formalismo del passato e del presente ( da quello disciplinare-espositivo-valutativo e da quello programmatorio-verificatorio)”. E’ necessario conseguentemente un profondo rinnovamento didattico- relazionale che può essere sintetizzato in tre aspetti centrali, tra loro strettamente intrecciati: ricerca, costruttivismo e motivazione. “La ricerca produce motivazioni e, nel contempo, postula un approccio costruttivo ai saperi, che faccia tesoro, cioè, delle conoscenze pregresse e su quelle venga edificando il ricercare”[4].
Ci proponiamo con questo nostro contributo di sviluppare, in riferimento all’insegnamento scientifico, queste importanti considerazioni sul complesso concetto di competenza che rappresentano indubbiamente una sintesi della più significativa riflessione epistemologica e pedagogica degli ultimi decenni.
Quali sono i risultati dell’insegnamento scientifico?
Durante i lavori del gruppo di scienze della commissione De Mauro[5], nel gennaio 2003, discutendo animatamente, avanzammo, nella prima fase, proposte e riflessioni divergenti su quasi tutto, tranne che su 2 o 3 aspetti; uno di questi, su cui l’accordo fu unanime, fu la valutazione sullo stato dell’insegnamento scientifico usuale. Queste sono le considerazioni che vennero scritte nel documento finale del sottogruppo scientifico: “Si constata, tuttavia, sia nella popolazione adulta che tra i giovani, un sempre più diffuso analfabetismo scientifico, rinforzato da una profonda demotivazione all’approfondimento e alla partecipazione. Non si tratta solo di preoccupanti carenze logico-linguistiche, ma anche di un’evidente incapacità di orientamento culturale di base in ambito scientifico, che spesso degrada in atteggiamenti superficiali ed ingenui”.
Considerazioni analoghe erano state fatte, negli anni precedenti, da molti esperti, sulla base di ricerche sulle conoscenze scientifiche, che avevano evidenziato che molti studenti di 19-20 anni, dopo molti anni di insegnamento scientifico, continuano ad utilizzare soltanto le loro conoscenze di senso comune, e continuano a condividere su molti aspetti concezioni di tipo prescientifico[6].
Come può essere spiegata questa drammatica situazione?
Noi pensiamo che la causa fondamentale vada ricercata nell’impostazione formalistica, specialistica dell’insegnamento scientifico prevalente in tutta la scolarità preuniversitaria[7]. E’ un insegnamento deduttivistico, addestrativo, basato sulla bignamizzazione[8], sempre più spinta man mano che si scende ai livelli scolari iniziali, dei manuali del primo anno di università. Da tempo immemorabile sono stati indicati i profondi limiti di questa impostazione, sia dal punto di vista pedagogico-psicologico-didattico che sul piano epistemologico-culturale.
La scienza come dogma
In riferimento agli aspetti culturali, è stata evidenziata da molti, e da moltissimo tempo, la visione dogmatica, banalizzante e riduzionistica presente in questo insegnamento: “Ogni generazione, quindi, esce dalla scuola con l’idea che la scienza sia un fatto certo, un tessuto di teorie assolute e invulnerabili, dietro alle quali c’è solo una preistoria di errori, e il cui futuro sarà dato forse soltanto da sempre migliori applicazioni. In sostanza, l’educazione manualistica della scienza distrugge l’idea che la scienza è una realtà storica, inculca l’immagine di una scienza dogmatica. Ed è così che la più antidogmatica tra le attività umane, vale a dire la ricerca scientifica, diventa il supporto del dogmatismo ideologico; la scienza è il frutto di discussioni ininterrotte, di polemiche e di controversie, di fantasie ardite e di critiche severe, e tuttavia quanti, attraverso l’immagine della scienza tratta dai loro manuali, desiderano, per esempio, imporre la loro ideologia, diranno (come dicono) che la loro ideologia è scientifica; intendendo con ciò che la loro ideologia è indiscutibile e incontrovertibilmente vera, proprio…come la scienza”[9].
Watkins[10] aveva osservato che il libro di Khun La struttura delle rivoluzioni scientifiche conteneva nella scelta del linguaggio molti suggerimenti, alcuni espliciti, altri impliciti, di un significativo parallelismo tra la scienza e la teologia. Khun aveva infatti sottolineato il carattere essenzialmente dogmatico dell’insegnamento scientifico: “Si tratta di un’educazione rigida e limitata, forse più rigida e limitata di ogni altro tipo di educazione, fatta eccezione per la teologia ortodossa”[11]. Kuhn, tuttavia, ne aveva anche indicato la sua funzionalità per la formazione scientifica necessaria per operare all’interno di una determinata tradizione: “Lo scopo di un manuale è fornire al lettore, nella forma più economica e facilmente accessibile, le proposizioni di ciò che la comunità scientifica contemporanea pensa di sapere e le principali applicazioni alle quali questa conoscenza può essere dedicata”[12].
Considerazioni sul ruolo nefasto dell’impostazione dogmatica dell’insegnamento scientifico sono state effettuate da molti altri epistemologi, storici della scienza e scienziati; ci limitiamo a ricordare, fra i molti, Schwab[13], Holton[14], e più recentemente le riflessioni di Reale[15] e Bernardini durante i lavori della Commissione dei Saggi, istituita dal ministro Berlinguer nel 1997. Le considerazioni di Bernardini possono essere sintetizzate da queste sue parole: “L’insegnamento delle scienze della natura, così come è ancora oggi, non mostra alcuna parentela stretta con forme generali del pensiero razionale”[16].
Questa impostazione è una conseguenza di scelte culturali ideologiche specifiche di tipo dogmatico o la conseguenza di una determinata concezione dell’insegnamento scientifico consistente nel considerarlo soltanto come l’enciclopedia sistematica delle conoscenze (fatti, esperimenti, legge, teorie) attualmente ritenute significative e vere? Ora, dovrebbe a tutti essere evidente che le motivazioni di questa impostazione non stanno generalmente in motivazioni coscientemente dogmatiche, ma in una concezione aculturale e funzionalista del sapere scientifico, in una scelta delle comunità scientifiche di concepire il sapere scientifico in modo non umanistico, non come uno degli strumenti culturali necessari per la formazione alla cittadinanza, ma soltanto funzionale alla formazione e selezione dei futuri ricercatori. Ma l’assenza o la presenza di cultura scientifica nel cittadino medio non è senza implicazioni con la sua cultura generale e con la sua partecipazione responsabile alla vita delle società democratiche. Ciò è indicato in modo chiaro nel Libro Bianco della CEE del 1995[17].
Il mito dell’insegnamento scientifico contenutisticamente aggiornato
La ricerca scientifica produce in modo sempre più accelerato nuove conoscenze e nuove teorie sempre più concettualmente raffinate e formalmente elaborate. Ed anche in Italia è molto diffusa la consuetudine di aggiornare i manuali e l’insegnamento con conoscenze dichiarative attinenti a queste conoscenze più recenti; si va dal big bang ai buchi neri, dalle manipolazioni genetiche a molte problematiche ambientali. In alcuni casi, le motivazioni sociali e culturali che guidano queste scelte non possono che essere condivise dal punto di vista teorico, ma ciò non è sufficiente per includere questi argomenti nel curricolo se i risultati formativi che si ottengono sono poi in contraddizione con quelle motivazioni. Scelte di questo tipo vengono effettuate spesso anche nella scuola di base.
Arons, in uno dei migliori libri di didattica della scienze pubblicati negli ultimi cinquant’anni, si chiede, riferendosi addirittura ai corsi universitari, quale significato formativo possano avere: 1) lezioni dove si parla di fisica delle alte energie con l’incomprensibile gergo fatto di quark, gluoni, stranezza, ecc., con studenti che non hanno ancora una comprensione adeguata di concetti, quali accelerazione, massa, forza, energia; 2) lezioni di astronomia dove si tratta di nucleosintesi stellare, pulsar, quasar e buchi neri con studenti che non sono in grado di spiegare perché crediamo che la Terra ed i pianeti ruotino interno al sole; 3) lezioni su DNA, biologia molecolare e struttura dei geni con studenti che non sanno come le diverse sostanze vengono definite e riconosciute, che ad esempio non hanno alcuna idea di che cosa si intenda, dal punto di vista operativo, con le parole “ossigeno”, “azoto”, “carbonio”.
Queste lezioni “sono inutili nel migliore dei casi, e nel peggiore dei casi dannose, dal momento che non c’è abbastanza tempo per affrontare le domande del tipo << Come facciamo a sapere….? Perché crediamo che….? Non è possibile che un flusso di parole incomprensibili possa creare una cultura scientifica; semplicemente esso aggrava il problema che stiamo tentando di risolvere”.
Arons non nega, tuttavia, l’importanza educativa che possono avere alcune problematiche più connesse alla contemporaneità, ma a condizione che gli studenti ne comprendano i fondamenti scientifici che ne stanno alla base. “Se invece le questioni si affrontano senza un’adeguata comprensione della scienza che ne sta alla base, come purtroppo viene spesso fatto, l’iniziativa diventa speciosa. Gli studenti sono indotti nell’errore di pensare di aver compiuto un’indagine e di possedere una conoscenza dei problemi mentre, in effetti, si sono limitati ad usare dei termini tecnici di cui non comprendono il significato, e hanno avuto a che fare solo con generalizzazioni vuote, prive di sostanza e di un’autentica riflessione. In questi casi sono stati incoraggiati in maniera insidiosa ad abbracciare l’idea fin troppo diffusa, secondo cui <<ogni opinione è valida quanto ogni altra>>. “Mi sembra che l’onestà intellettuale dovrebbe richiedere che gli studenti acquisiscano una certa comprensione genuina dei concetti, delle teorie, e delle scoperte scientifiche alla base del grande problema specifico che stiamo esaminando, e non devono essere incoraggiati a discorrere in maniera vuota di argomenti che essenzialmente non capiscono. Con studenti che già posseggono il retroterra concettuale necessario è possibile discutere subito di questi argomenti. Ma con studenti privi di idee su che cosa significhi <<energia>> (molti la considerano un qualche tipo di sostanza materiale) (…). Con studenti che non hanno alcuna base per credere al fatto che la struttura della materia sia discreta (conoscendo solo una successione di nomi, come <<atomo>>, <<molecola>>, <<nucleo>>, <<elettrone>>, presentati loro attraverso delle dichiarazioni senza alcune esame di qualche prova sperimentale, di qualche ragionamento che servano a spiegare il significato dei nomi stessi) (…). Infine con studenti che sono ancora aristotelici nel loro uso di frasi teleologiche e nella loro ignoranza della legge d’inerzia; con studenti di questo tipo è intellettualmente specioso e disonesto condurre la discussione iniziale senza aiutarli prima a formarsi e a capire i concetti prioritari essenziali”.
Qual è l’alternativa indicata da Arons? “E’ indispensabile riprendere, rallentare, diminuire il numero di argomenti, e dare agli studenti la possibilità di seguire e interiorizzare lo sviluppo di un piccolo numero di idee scientifiche, presentate in quantità tale e con un ritmo tale da permettere una conoscenza di tipo operativo, e non solo dichiarativo … Gli studenti devono avere il tempo di formarsi i concetti, di pensare, di ragionare, e di percepire i collegamenti. Devono discutere le idee, e devono scrivere qualcosa a riguardo”.
Arons utilizza una problematica scientifica presente in molti corsi anche di carattere elementare per evidenziare sia l’insignificanza formativa dell’utilizzo di gergo scientifico che le potenzialità presenti per rendere gli studenti consapevoli del ruolo della scienza nello sviluppo intellettuale.
Perché gli oggetti cadono? Spesso già nella scuola elementare viene fornita la risposta che gli oggetti cadono a causa della gravità. Si dà così l’impressione al bambino di avere ricevuto una spiegazione. “Sia da parte di colui che fornisce, sia da parte di colui che riceve non vi è alcun sentore dell'<<informazione>> secondo cui il nome tecnico non contiene una conoscenza né una comprensione, ma nasconde semplicemente l’ignoranza circa la natura del fenomeno”. Se la stessa domanda viene fatta a studenti universitari è probabile che si abbia la stessa risposta. Poche persone conoscono la storia di questo nome: che, all’inizio, il termine gravità indicava un effetto teleologico, la tendenza, cioè, degli elementi pesanti (acqua, terra) ad andare verso il centro della Terra, e che vi era un termine “levità” che indicava la tendenza opposta ad andare verso l’alto degli elementi leggeri, aria e fuoco. Newton, rinunciando a qualsiasi spiegazione sulla causa della gravità, formulò la teoria che vi sia un’unica forza di attrazione tra i corpi, responsabile sia della caduta delle mele sulla Terra, come della rotazione dei pianeti intorno al Sole. Ed anche oggi, “nonostante l’eleganza e la bellezza della teoria della relatività generale, non abbiamo tutt’ora la minima idea di come <<funzioni>> la gravità”.
In riferimento a queste problematiche scientifiche vi sono delle consapevolezze culturali sconosciute alla maggior parte degli studenti. Solo pochi studenti hanno un’idea della rivoluzione culturale verificatasi nel XVII secolo, quando si rinunciò all’idea che i corpi celesti fossero fatti di sostanze diverse da quelle della Terra e si accettò la concezione che tutto l’universo, che iniziò ad essere concepito come un tutto, fosse governato dalle stesse leggi naturali. “Il modo in cui ogni individuo guarda a se stesso e al suo posto nell’universo è profondamente condizionato dalla sua eredità proveniente da Galileo, Cartesio, Newton e altri filosofi naturali del diciassettesimo secolo. Una persona colta dovrebbe essere cosciente di questa eredità in termini concettuali, storici e culturali, e non solo nella semplice asserzione dei risultati finali. Qui vi è l’occasione di un altro passo significativo verso una maggiore cultura scientifica”[18].
Le competenze scientifiche ed i manuali
L’impostazione usuale dell’insegnamento scientifico ha mostrato il suo fallimento anche dal punto di vista strettamente delle competenze disciplinari. A nostro parere, la situazione è molto più grave di quanto indicato da Cambi, e ciò dovrebbe, a maggior ragione, rendere possibile, perché necessario anche rispetto alla dimensione lineare dei saperi, quanto auspicato dal Cambi stesso: “Competenza non è solo trasferibilità delle conoscenze acquisite, ma implica anche il modo in cui le si possiede (conseguente a quello in cui le si è acquisite): se solo applicativo o cosciente dei fondamenti o capace di leggere anche le implicazioni parallele e fissarne gli effetti pubblici (= sociali). Competenza scientifica non è solo competenza tecnica (applicativa ed esecutiva)”[19].
Condividiamo, ovviamente, questa idea complessa di competenza scientifica, e pensiamo che questa rappresenti realisticamente oggi la posta in gioco, perché pensiamo che anche la sola competenza tecnica non esista più nella maggioranza degli studenti alla fine della scuola secondaria superiore; questa competenza, con tutti i limiti della sua visione riduttiva, è esistita nel passato, comunque in una minoranza, quando essa contribuiva potentemente a selezionare la maggior parte degli studenti. Conseguentemente riteniamo che oggi vi siano le condizioni socio-culturali che effettivamente possano permettere un insegnamento scientifico problematico, critico, perché oggi è molto più evidente rispetto al passato che anche l’acquisizione stabile delle nozioni scientifiche fondamentali diventa possibile con un insegnamento radicalmente diverso da quello manualistico tradizionale. Oggi la critica principale che può essere rivolta a questa impostazione manualistica è che essa non è più neanche in grado di far raggiungere nozioni stabili disciplinari lineari alla maggioranza degli studenti. Vi sono oggi le condizioni per una critica più radicale dei manuali scientifici di quella fatta da Cambi, quando afferma “Ora, le <<scienze normali>>stanno sì nei manuali e nei loro esercizi, e i manuali hanno una dimensione convergente e lineare a caratterizzarli, in modo che il quadro sincronico dei saperi venga rispettato, anche se tale sincronizzazione è a sua volta un problema. Ma le competenze che da quei manuali vanno estratte e consolidate nei soggetti (gli allievi) possono essere curvate in molti sensi e possono ricevere varie <<intonazioni>> per così dire. Possono dogmatizzarsi o possono criticizzarsi a loro volta”[20]. E, a nostro parere, invece, è soltanto questa critica più radicale che può permettere la realizzazione delle competenze nel significato complesso ed integrato indicato dallo stesso Cambi. Non pensiamo, quindi, che le competenze dei manuali scientifici usuali[21], anche solo tecniche, possano essere curvate e utilizzate per realizzare competenze più generali.
Di meno è di più
Una delle caratteristiche di questa impostazione è la quasi totale mancanza di un’idea di curricolo verticale[22]; anche per molti esperti di didattica delle scienze, ad ogni livello scolare, a partire dalla scuola elementare, si dovrebbe insegnare un po’ di “tutto”, ovviamente si aggiunge in un “modo adatto agli studenti di quel livello”; il “tutto” avendo a disposizione, in tutta la scuola di base e quando va bene, 2 ore alla settimana. In pratica non viene affrontato in modo significativo per lo studente nessun argomento, né dal punto di vista tecnico, specifico, né dal punto di vista problematico, critico. La regola sono la fretta, la superficialità, il nozionismo. Il risultato è la mancanza dello sviluppo di qualsiasi competenza, o ancora peggio dello sviluppo di una qualsiasi dimensione del concetto di competenza. Nel passaggio da un livello scolare all’altro si riparte sempre da capo, non essendoci nessuna base significativa di competenze su cui costruire.
Per avere un insegnamento significativo sono necessari, invece, tempi lunghi – tempi adeguati – per ciascuna problematica affrontata[23]; se viceversa i tempi impiegati sono più simili a quelli degli spot televisivi, o detto in altre parole, sono quelli di un insegnamento nozionistico, trasmissivo, libresco, dove è compito principale dello studente comprendere, leggendo e studiando a casa le pagine assegnate, come è immaginabile che resti nello studente qualche conoscenza e che si sviluppi contemporaneamente, seppur gradualmente, il gusto del conoscere?
Indubbiamente una delle caratteristiche dell’insegnamento scientifico dovrebbe essere quella di sviluppare nello studente una “forma mentis” logica, sistematica, rigorosa. Infatti una qualsiasi disciplina scientifica ha una sua organizzazione specifica, caratterizzata da relazioni precise fra i vari concetti, e da un lessico proprio; quando le parole che si usano sono anche utilizzate nella vita quotidiana, hanno in quel contesto disciplinare uno specifico significato che potrebbe non avere nulla in comune o addirittura essere in contraddizione con il significato quotidiano.
Lo studente può gradualmente sviluppare questa “forma mentis” soltanto se questi aspetti fondamentali della disciplina adulta li potrà gradualmente costruire durante tutto l’arco della scolarità preuniversitaria, se si troverà costantemente nella situazione di vivere situazioni problematiche – sul piano sperimentale e/o teorico e/o culturale e/o sociale – che lo porteranno a comprendere l’utilità o la necessità, o la possibilità di una nuova ipotesi, di un nuovo concetto, di una determinata generalizzazione, di una formula, di una teoria più generale. Se, viceversa, tutto ciò gli viene proposto nella modalità usuale dei manuali, in modo asettico, non contestuale, non problematico, già ripulito e rifinito, il risultato, nella mente dello studente, non è il rigore , la razionalità, la logica, ma la mancanza di comprensione, di significato, e quindi l’opposto di tutto ciò.
Bruner ci ricorda costantemente la fondamentale importanza del “fare significato”, che “senza il conferimento di un significato non ci può essere linguaggio, né mito, né arte – e non ci può essere cultura… I significati permeano le nostre percezioni e i nostri processi di pensiero in un modo che non esiste in nessun’altra parte del regno animale…Per capire bene il ‘significato’ di qualcosa è indispensabile una certa consapevolezza dei diversi significati che possono essere attribuiti alla cosa stessa, indipendentemente dal fatto che si concordi o meno con esse”[24]. Ed anche “le epistemologie attuali tendono ad assumere al centro una precisa connotazione interpretativa, anti-riduzionistica e disponibile ad un pluralismo metodologico, nutrita di coscienza storica e capace di cogliere, al di là della semantica e della sintassi, anche il ‘senso’ di ogni sapere”[25].
Per comprendere qualcosa in ambito scientifico non si può trattare i termini e i concetti scientifici come se fossero venuti alla luce nel modo in cui sono presentati usualmente nei manuali; sono “decontestualizzati, liberati di ogni ambiguità”, ormai senza vita, senza significati. “Comprendere
una cosa in un certo modo è ‘giusto’ o ‘sbagliato’ solo dalla particolare prospettiva da cui la si considera. Ma l’’esattezza’ di una particolare interpretazione, pur dipendendo dalla prospettiva, implica anche il rispetto di regole quali quelle della dimostrazione, della concordanza e della coerenza. Non tutto è accettabile. Esistono dei criteri intrinseci di giustezza, e la possibilità di interpretazioni diverse non le autorizza tutte indiscriminatamente”[26].
Ogni problematica importante ha bisogno di tempi molto lunghi per essere appresa in modo significativo, per diventare competenza; ciò implica considerare le variabili tempo e quantità dei contenuti in modo responsabile e non demagogico. “Questo tipo di ragionamento a sua volta implica che l’obiettivo dell’istruzione non sia tanto l’ampiezza, quanto la profondità”. Considerazioni di questo tipo erano presenti anche nel documento conclusivo della Commissione dei Saggi ed erano rivolte all’insegnamento di tutte le discipline scolastiche[27]. Programmi di alto livello non sono quei programmi che fanno qualche riferimento a tutti gli aspetti fondamentali dell’enciclopedia scientifica, ma quelli che, effettuando scelte precise, hanno una quantità di contenuti effettivamente compatibili con un insegnamento che ha bisogno di tempi lunghi[28]. Questa esigenza è, a nostro parere imprescindibile sia nella scuola di base[29] che nella scuola secondaria superiore. “Il nemico della riflessione è il ritmo a rotta di collo – le mille immagini. In un certo senso profondo, possiamo dire dell’apprendimento, e in particolare dell’apprendimento di materie scientifiche, quello che diceva Mies van der Rohe a proposito dell’architettura, che ‘di meno è di più’[30].
Se concentriamo la nostra attenzione sulla secondaria superiore non è da molto tempo più accettabile, se si vogliono sviluppare negli studenti competenze, che il programma ( o meglio che i manuali) delle varie discipline scientifiche sia più o meno lo stesso a prescindere dalla collocazione di ciascuna disciplina nel piano di studi di ciascun indirizzo; è una situazione ben diversa avere a disposizione 2-3 alla settimana soltanto per un anno scolastico o per 3 o più anni. Evidentemente la quantità delle problematiche che possono essere affrontate dipende innanzitutto ed in modo determinante da questo aspetto.
Il che cosa insegnare?
Il caso della chimica, come esempio emblematico
Una volta risolto il problema fondamentale della quantità, si pone il nodo ugualmente molto problematico e controverso del che cosa scegliere. Vi sono indubbiamente principi di carattere generale,validi per tutte le discipline scientifiche che debbono guidare nella scelta, quali fra tutti l’accessibilità cognitiva e l’importanza culturale-disciplinare delle problematiche individuate.
Vi sono, a questo proposito, importanti indicazioni anche nel Libro bianco della CEE del 1995:” La profonda trasformazione in corso del contesto scientifico e tecnico richiede dunque che, nel suo rapporto con la conoscenza e l’azione, l’individuo sia in grado, anche se non mira ad una carriera di ricercatore, di assimilare in un certo modo i valori dell’attività di ricerca: osservazione sistematica, curiosità e creatività intellettuali, sperimentazione pratica, cultura della cooperazione … In effetti la normalizzazione del sapere che permette di ottenere un diploma superiore è eccessiva. Essa induce a pensare che tutto debba essere insegnato in un ordine strettamente logico e che grazie alla padronanza di un sistema deduttivo, fondato su nozioni astratte, dove le matematiche svolgono un ruolo dominante, si può produrre e identificare la qualità. In alcuni casi, il sistema deduttivo può essere paralizzante ed uccidere l’immaginazione. Presentando le cose come totalmente costruite, fa dell’allievo un soggetto passivo e frena la tendenza alla sperimentazione”[31].
Proposte ancora più pregnanti vennero formulate dalla Commissione dei Saggi sia per la scuola di base che per la secondaria superiore; ci limitiamo a riprendere quelle per la secondaria superiore: “A livello superiore si condivide l’esigenza di immettere negli insegnamenti delle scienze fisico-naturali una prospettiva critica di natura storico-epistemologica, che ne consenta l’integrazione nel sistema dei saperi sociali e permetta anche di accogliere la tecnologia come ambito e strumento di conoscenza, e come tramite con le attività di produzione di beni e servizi. Su un piano più generale, si dovrà operare al fine di mettere gli allievi nelle condizioni di far fronte all’incertezza, intesa come istanza epistemologica propria delle scienze contemporanee, e come ambito entro il quale far esercitare le dimensioni di responsabilità della scelta e il coinvolgimento etico che essa comporta”[32].
Preferiamo, tuttavia, per maggiore chiarezza, entrare nel merito di una specifica disciplina, la chimica, per meglio evidenziare la portata culturale delle scelte che è necessario effettuare. La quasi totalità dei manuali di chimica hanno un’impostazione centrata sulle acquisizioni scientifiche del Novecento, ed in particolare sulla struttura atomica, i vari tipi di legame chimico, la struttura molecolare. Nei vari capitoli appaiono anche conoscenze (fatti, concetti, leggi) che risalgono a fasi precedenti della storia della chimica, ma in modo definitorio, nozionistico, asettico, e, comunque, come esemplificazione, illustrazione, in una logica deduttiva, dei concetti fondanti il sapere chimico attuale, quelli di tipo microscopico. Vi sono poi molte problematiche affrontate, nel modo appena indicato, in capitoli (o, pardon, unità didattiche o moduli di 10-15 pagine) che costituiscono nella organizzazione attuale del curricolo universitario branche specialistiche ampie e complesse (è sufficiente pensare alla termodinamica[33]). Questi manuali sono caratterizzati da una logica totalmente deduttivistica, centrata sul microscopico.
La riflessione pedagogica ha, da molto tempo, evidenziato come sia psicologicamente assurdo un approccio deduttivistico come primo approccio ad una qualsiasi disciplina; è in questo senso emblematico il cammino fatto dalla didattica della geometria durante il Novecento, che ha portato ad indicare la necessità di una lunga fase di insegnamento basato sulla geometria intuitiva edoperativa prima di passare alla geometria deduttiva. E stiamo parlando di un sapere emblematico da millenni di un’organizzazione effettivamente deduttiva, dove è possibile con passaggi logici, con ragionamenti, ricavare nuove conoscenze, nuovi teoremi, sulla base delle conoscenze possedute.
Ma nel caso dell’organizzazione deduttivistica dei manuali di chimica siamo di fronte non solo ad assurdità di tipo psicologico-didattico, inerenti ad un impostazione deduttiva come primo approccio ad un sapere, ma ad una “farsa” del deduttivismo. Infatti nel caso della chimica, quella strutturazione di tipo espositivo-esplicativo, per cui l’introduzione di conoscenze microscopiche permetterebbe di descrivere e contemporaneamente spiegare fenomeni e leggi macroscopiche, opera in funzione non di ragionamenti deduttivi simili a quelli della geometria, necessari logicamente, ma di connessioni e ragionamenti legati all’esplorazione sperimentale e teorica, di carattere chimico-fisico, della realtà, effettivamente comprensibili soltanto a chi ha ampie e solide conoscenze specialistiche, acquisibili nella formazione universitaria specifica. Senza questa solida competenza, siamo di fronte ad una congerie di nozioni, apparentemente ben organizzate deduttivamente, che non possono, tuttavia, che essere memorizzate nel modo più meccanico, ma a cui non corrisponde, per lo studente, nessun significato, nessuna competenza[34]. O meglio (sarebbe da dire, tragicamente, peggio), il significato che viene attribuito anche da molti insegnanti che si rendono, in parte, conto delle assurdità che insegnano, è quello che queste nozioni servono per superare i test di ammissione ad alcuni corsi di laurea, come quello di medicina[35].
Il modello alternativo di insegnamento della chimica
L’alternativa a questo modello deduttivistico ha iniziato ad essere prospettata in Italia durante gli anni 60 da alcuni universitari illuminati ed è stata sempre più rifinita ed articolata negli anni successivi, arrivando ad essere sancita formalmente anche in un programma ministeriale, che, tuttavia, è rimasto confinato in poche scuole sperimentali, il programma del Laboratorio di fisica e chimica del Progetto Brocca del 1989.
Questo programma, che si riferiva ad alcuni bienni della scuola secondaria superiore, prevedeva un’impostazione dell’insegnamento della Chimica completamente basato sulla Chimica classica, cioè, sulle teorie e i concetti fondamentali della chimica, quali si erano sviluppati, durante il Settecento e l’Ottocento, prima delle rivoluzionarie scoperte sulla struttura dell’atomo. Il progetto Brocca prevedeva, per questi indirizzi tecnici, l’insegnamento della chimica del Novecento usuale nel triennio. Ma il progetto Brocca non entrò mai in ordinamento, e quando a metà degli anni novanta il Ministero della P. I. decise lo svecchiamento dei programmi dei bienni degli Istituti tecnici, utilizzò i programmi Brocca del biennio per tutte le discipline, tranne Chimica e Fisica. Fu proposto per queste due materie un programma enciclopedico-nozionistico usuale, con la motivazione che il programma del Laboratorio di fisica e chimica non poteva essere assunto, non essendo presenti queste due discipline nel triennio, come invece era previsto dal progetto Brocca.
Evidentemente per il Ministero tutte le motivazioni culturali, pedagogiche e didattiche che stavano alla base (ed erano chiaramente enunciate) del programma del Laboratorio di fisica e chimica erano “chiacchere” inconsistenti; ciò che doveva, comunque, essere preservato era il canone tradizionale, accademico, dell’insegnamento della chimica e della fisica.
Il programma del Laboratorio di fisica e chimica rimane indubbiamente il documento ufficiale più importante[36], in relazione all’insegnamento di discipline scientifiche degli ultimi cinquant’anni, perché, in particolare in riferimento alla Chimica, contiene queste fondamentali scelte di tipo culturale, fondate su motivazioni pedagogico-psicologico-didattiche: l’insegnamento della chimica, nella scuola secondaria superiore, deve basarsi sull’osservazione-sperimentazione di trasformazioni chimiche, sulle leggi macroscopiche e sui modelli microscopici a loro strettamente connessi. Nelle finalità di questo programma troviamo queste indicazioni: “Prima di giungere ad una sistemazione complessiva è però opportuno che lo studente prenda contatto concretamente con i problemi e i temi tipici delle discipline, ad evitare il pericolo sempre presente che una trattazione teorica perda, nella mente degli studenti, il contatto con il mondo reale che quella teoria cerca di interpretare. A livello del biennio, quindi, è indispensabile che l’insegnamento di alcuni temi portanti delle due discipline sia condotto in modo strettamente sperimentale … Nei contenuti indicati non è da ricercarsi la logica convenzionale delle due discipline, Chimica e Fisica. I principali criteri che hanno ispirato la scelta dei contenuti sono i seguenti: partire dall’osservazione macroscopica dei corpi, sostanze e fenomeni del mondo che ci circonda per giungere in modo graduale all’aspetto particellare senza entrare nel merito del modello elettronico della struttura atomica”[37].
Questo programma è esente da limiti? Non ci sono critiche da rivolgergli? Ci fu chi, subito, si scandalizzò, denunziando un approccio ingenuamente induttivistico. Anche noi pensiamo che questa critica aveva qualche fondamento, ma chi la faceva riproponeva sostanzialmente l’approccio tradizionale deduttivistico, sistematico, addestrativo. Il ribadire con enfasi l’importanza di un’impostazione operativa, laboratoriale[38] rappresentava (come rappresenta ancora oggi) un aspetto fondamentale dell’insegnamento scientifico anche nella scuola secondaria superiore. Tuttavia il programma dava poche indicazioni metodologiche ulteriori, e poteva essere interpretato in una prospettiva totalmente induttiva, cadendo così in un atteggiamento banalmente induttivistico, sia dal punto di vista epistemologico che pedagogico-didattico. Ma esso poteva (ed oggi, a maggior ragione) essere anche interpretato in una prospettiva completamente diversa, molto più attenta alle modalità complesse con cui si sviluppa la conoscenza scientifica. L’epistemologia contemporanea, – da Koyrè a Bachelard, da Popper a Kuhn e Feyerabend – e la storia della scienza del Novecento – da Elkana a Jammer, dalla Metzger ad Holton, da Gillespie a Rocke – ci hanno, infatti, fatto,
comprendere anche l’inconsistenza di una concezione empirista della scienza: che “fare scienza è un cammino variegato e accidentato, dove l’intuizione, l’analogia, la stessa immaginazione conta e conta molto”; ci hanno proposto “una nuova immagine della scienza: più complessa e complicata, non lineare, più storicizzata, più autenticamente critica, in quanto capace di leggere senza paraocchi la complessità e la varietà del suo procedere”; e “che gli scienziati usano ogni sorta di ausili, intuizioni, storie e metafore per cercare di far sì che il loro modello speculativo si adatti alla “natura. Useranno tutte le metafore, tutte le figure, favole o fole che possono capitare sulla loro strada”[39].
Rispetto alle modalità prevalenti sistematico-deduttivo-addestrative dell’insegnamento scientifico, il ribadimento della centralità del laboratorio e più in generale di impostazioni operative costituisce una risposta importante, rappresenta una condizione necessaria per il rinnovamento dell’insegnamento scientifico, ma tutt’altro che sufficiente; anzi noi pensiamo che questa risposta, che è mossa da esigenze genuine in contrapposizione ad un insegnamento nozionistico, vuoto di significati, sia destinata, di per sé, alla sconfitta, perché un’impostazione radicalmente induttiva nella scuola superiore non è in grado minimamente di risolvere il problema dell’insegnamento di leggi e teorie scientifiche in un modo significativo, come è più volte avvenuto durante il Novecento, ogni qual volta tentativi di questo tipo sono stati realizzati. E’ emblematico in questo senso il progetto Nuffield per la chimica, che si proponeva di insegnare i concetti e le teorie della chimica classica con un’impostazione induttiva: era costituito da un libro per l’insegnante e da un insieme di schede per attività di laboratorio, per gli studenti. Era una proposta molto innovativa, che era stata progettata in Inghilterra durante gli anni sessanta, e che era arrivata 20 anni prima del progetto Brocca alle stesse conclusioni culturali rispetto a quale chimica dovesse esser insegnata come prima chimica; venne tradotta dalla Zanichelli all’inizio degli anni settanta[40], ma sostanzialmente non fu mai utilizzato in modo stabile da nessun insegnante. Per quali motivi?
Noi pensiamo che il motivo fondamentale, per cui non fu adottato stabilmente da quasi nessuno, fu l’impostazione totalmente induttivistica, la totale mancanza di sistematicità, il ridurre l’insegnamento della chimica all’esecuzione di molti esperimenti che non si riusciva a riportare a comportamenti generali, a leggi, a teorie, a connettere, cioè, in un sistema.
Nella scuola secondaria superiore, quando si affronta una qualsiasi disciplina scientifica, vi sono due aspetti fondamentali, apparentemente contradditori, che, se non vengono affrontati contemporaneamente, si vanifica qualsiasi tentativo di rendere l’insegnamento scientifico significativo: vi è la necessità di un insegnamento, da una parte, centrato sul “fare significato” – e quindi situato, contestuale, problematico, riflessivo, metacognitivo – e dall’altra che porti gradualmente alla costruzione di un sistema teorico, ad un’organizzazione che dia ordine, e che indichi regolarità tra le varie conoscenze specifiche.
Nell’insegnamento scientifico, le molteplici dimensioni del concetto di competenza si tengono l’una con l’altra: le competenze più strettamente disciplinari, lineari, sistematiche si possono sviluppare, nello studente della scuola di tutti, se innanzitutto viene messo al centro dell’insegnamento la motivazione dello studente, e quindi quelle scelte didattiche e culturali che possono costantemente mantenere vivo l’interesse e la partecipazione degli studenti: didattiche costruttiviste, lo spirito di ricerca, il confronto tra pari, l’accessibilità cognitiva delle problematiche su cui si lavora, lo sviluppo di competenze metacognitive, “l’imparare ad imparare” sono le condizioni irrinunciabili dello sviluppo delle competenze scientifiche, contemporaneamente ed in modo non separabile, nella realtà scolastica attuale, sia nella dimensione disciplinare sistematica che in quella critica e riflessiva.
Le proposte culturali sostanziali del progetto Nuffield e del programma del Laboratorio di fisica e chimica possono essere a nostro parere realizzate, superando quindi prospettive angustamente induttivistiche, integrando la dimensione didattica disciplinare in esse contenute con alcune acquisizioni epistemologiche e psicopedagogiche evidenziate, nei loro risvolti educativi soprattutto negli ultimi venti anni, in particolare grazie al contributo di Bruner.
L’importanza dell’intersoggettività
La tesi centrale della cultura dell’Educazione è che la cultura plasmi la mente, che fornisca gli attrezzi per mezzo dei quali “costruiamo non solo il nostro mondo, ma la nostra concezione di noi stessi e delle nostre capacità (…) Invece di vedere la cultura come qualcosa che viene ‘aggiunto’ alla mente o che in qualche modo interferisce con i processi elementari della mente, è meglio pensare che sia nella mente…E’ un approccio radicalmente diverso da quello riduzionistico delle ‘aggiunte’, che ha caratterizzato lo sviluppo della psicologia”[41].
Strettamente connessa a questa tesi vi è un altro principio, secondo il quale l’attività umana “non sia solitaria né avvenga senza aiuto, anche quando ha luogo “dentro la testa”. Bruner afferma di
aver avuto trenta anni prima un approccio in parte diverso, “troppo interessato ai solitari processi intrapsichici del conoscere e al modo in cui potevano essere coadiuvati mediante interventi pedagogici adeguati”[42]. Bruner, da molto tempo, d’altra parte aveva preso le distanze da Piaget, le cui opere fondamentali facevano pensare ad un bambino che “arrivasse a conoscere il mondo attraverso un contatto pratico, diretto, invece che, come normalmente succede, da altri. Infatti impariamo molto di quello che “conosciamo” anche del mondo fisico ascoltando le credenze degli altri in proposito, e non curiosando direttamente”[43]. Bruner ricorda, inoltre, a distanza di molti anni gli incontri fecondi che ebbe con Alexander Luria che gli fece capire meglio, con le sue argomentazioni illuminanti, il ruolo che svolgono, secondo la teoria di Vygotskij, il linguaggio e la cultura nel funzionamento della mente; essi contribuirono così a far vacillare la sua “fede nelle teorie più autonome e più formalistiche del grande Piaget, teorie che lasciavano pochissimo spazio al ruolo qualificante della cultura nello sviluppo mentale”[44].
“La tradizione pedagogica occidentale rende poca giustizia all’importanza dell’intersoggettività nella trasmissione della cultura. Anzi, spesso non sa rinunciare alla preferenza per la chiarezza, al punto quasi da ignorare, almeno in apparenza, l’intersoggettività. Così il modello dell’insegnamento diventa quello del singolo docente, presumibilmente onnisciente, che racconta e mostra in maniera esplicita ad allievi presumibilmente ignari di qualcosa di cui presumibilmente non sanno niente (…) Sono convinto che uno dei più grandi regali che una psicologia culturale possa fare all’educazione sia la riformulazione di questa concezione ormai svuotata di significato[45] (…) Questo comporta la costruzione di culture scolastiche che operino come comunità interattive, impegnate a risolvere i problemi in collaborazione con quanti contribuiscono al processo educativo. Questi gruppi non rappresentano solo un luogo di istruzione, ma anche un centro di costruzione dell’identità personale e di collaborazione. Dobbiamo far sì che le scuole diventino un luogo dove viene praticata (e non semplicemente proclamata) la reciprocità culturale, il che comporta una maggiore consapevolezza da parte dei bambini di quello che fanno, come lo fanno e perché… E siccome all’interno di queste culture scolastiche improntate al reciproco apprendimento si produce spontaneamente una divisione del lavoro, l’equilibrio tra l’esigenza di coltivare i talenti innati e quella di offrire a tutti l’opportunità di progredire viene espressa dal gruppo in una forma più umanistica: “da ciascuno secondo le sue capacità”[46].
Nel Progetto Nuffield e nel programma del Laboratorio di fisica e chimica non era indubbiamente più presente il modello dell’insegnante onnisciente, ma erano ambedue ancora totalmente permeati dalla visione pedagogica piagetiana che si arrivasse a conoscere il mondo attraverso un contatto pratico, diretto; non attribuivano, invece, nessuna importanza al tema dell’intersoggettività e della narrazione, ma allora questo modello pedagogico-didattico non era ancora sufficientemente conosciuto[47]. Tuttavia l’assunzione di questo ultimo modello non può avvenire in contrapposizione agli aspetti duraturi di quello precedente; rimane, infatti, a nostro parere, un’indicazione pedagogica fondamentale, anche per la ristrutturazione educativa delle discipline scientifiche, l’idea piagetiana, che “il conseguimento della conoscenza è il risultato dell’attività propria del soggetto”, dove per soggetto attivo si intende “un soggetto che confronta, esclude, ordina, categorizza, riformula, verifica, elabora ipotesi, riorganizza, ecc., attraverso l’azione interiorizzata (il pensiero) o l’azione reale (a seconda del suo livello di sviluppo)”[48]. Nei confronti di Piaget vi è, in ambito pedagogico e didattico, da molto tempo un atteggiamento di critica radicale: Piaget avrebbe infatti sottovalutato molteplici aspetti, quali, ad esempio il ruolo della dimensione sociale, del linguaggio e della sfera affettiva nel processo educativo. Condividiamo queste critiche, ma non condividiamo l’utilizzo di queste critiche per la liquidazione anche degli aspetti duraturi del pensiero di Piaget. Noi pensiamo, in altre parole, che il superamento di un’impostazione piagetiana dell’insegnamento scientifico non debba comportare l’abbandono di alcuni aspetti fondamentali del contributo di Piaget, in particolare per l’insegnamento delle scienze e della matematica, e che questi aspetti vadano integrati in una visione pedagogica più complessa.
La centralità della narrazione anche nell’insegnamento scientifico
“Non intendo sottovalutare l’importanza del pensiero logico-scientifico… Ma non è un mistero che a molti giovani che oggi frequentano la scuola la scienza appaia “disumana”, “fredda” e “noiosa”, malgrado gli eccezionali sforzi degli insegnanti di scienze e di matematica e delle loro associazioni. L’immagine della scienza come impresa umana e culturale migliorerebbe molto se la si concepisse anche come una storia degli esseri umani che superano le idee ricevute – Lavoisier che supera il dogma del flogisto, Darwin che rivoluziona il rispettabile creazionismo, o Freud che osa gettare uno sguardo al di sotto della superficie soddisfatta del nostro autocompiacimento. Può darsi che abbiamo sbagliato staccando la scienza dalla narrazione della cultura. Una sintesi è forse necessaria. Un sistema educativo deve aiutare chi cresce in una cultura a trovare un’identità al suo interno. Se quest’identità manca, l’individuo incespica nell’inseguimento di un significato. Solo la narrazione consente di costruirsi un’identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla per scontata”[49].
E’ quindi necessario comprendere che cosa Bruner intende quando attribuisce alla narrazione questo ruolo centrale anche nel rinnovamento dell’insegnamento scientifico: “Partirò da alcune affermazioni ovvie. Una narrazione comporta una sequenza di eventi, ed è dalla sequenza che dipende il significato”[50]. La narrazione è giustificata quando narra qualcosa di inatteso, di imprevisto, di apparentemente assurdo o contraddittorio. L’obiettivo della narrazione è di chiarire i dubbi, di spiegare lo “squilibrio” che ha portato all’esigenza di narrare la storia. La narrazione è, inoltre, strettamente connessa con l’interpretazione e non con la spiegazione. La comprensione, a differenza della spiegazione, comprende sempre più interpretazioni; “né l’interpretazione di una particolare narrazione esclude altre interpretazioni…la regola è la polisemia”[51].
A questo punto potrebbe sorgere il dubbio su che cosa abbia a che fare con la scienza la narrazione, se, come lo stesso Bruner evidenzia, la scienza è essenzialmente caratterizzata dalla dimensione esplicativa, e rappresenta uno dei due modi principali, alternativo proprio al modo narrativo, in cui gli uomini rappresentano il mondo: “Queste due forme di pensiero sono convenzionalmente note come pensiero logico-scientifico e pensiero narrativo[52].
Indubbiamente, secondo Bruner, i due modi di conoscere la realtà sono irriducibilmente diversi, ma sono, tuttavia, complementari: “ Come ho più volte ripetuto, l’adozione di un’ottica interpretativa non implica una posizione antiempirica, anti-sperimentale o addirittura antiquantitativa. Significa semplicemente che, prima di poterci accingere alla spiegazione, dobbiamo dare un senso a quanto ci viene detto [53]. … “Per arrivare direttamente al dunque , la mia idea è che noi trasferiamo sempre i nostri tentativi di comprensione scientifica in forma narrativa, o, per così dire, di ‘euristica narrativa’. Il ‘noi’ comprende sia gli scienziati sia gli allievi che occupano le aule nelle quali insegnamo. Trasporremmo dunque in forma narrativa gli eventi che stiamo studiando, allo scopo di evidenziare meglio cosa c’è di canonico e di previsto nel nostro modo di considerarli, in modo da poter distinguere più facilmente che cosa è ambiguo e incoerente e quindi deve essere spiegato … Proverò ora a esprimere queste stesse idee con un linguaggio in parte diverso. Il processo del fare scienza è narrativo. Consiste nel produrre ipotesi sulla natura, nel verificarle, correggerle e rimettere ordine nelle idee. Nel corso della produzione di ipotesi verificabili giochiamo con le idee, cerchiamo di creare anomalie, cerchiamo di trovare belle formulazioni da applicare alle contrarietà più intrattabili in modo da poterle trasformare in problemi solubili, inventiamo trucchi per aggirare le situazioni intricate. La storia della scienza, come Bryant Conant ha cercato di dimostrare, può essere raccontata in forma drammatica, come una serie di vicende quasi eroiche di soluzione di problemi. I suoi critici amavano sottolineare che le storie dei casi che lui e i suoi colleghi avevano preparato, pur essendo molto interessanti non erano però scienza, ma storia della scienza. Non sto proponendo di sostituire alla scienza la storia della scienza. Sostengo invece che la nostra istruzione scientifica dovrebbe tener conto in ogni sua parte dei processi vivi del fare scienza, e non limitarsi a essere un resoconto della ‘scienza finita’ quale viene presentata nel libro di testo, nel manuale e nel comune e spesso noioso ‘esperimento di dimostrazione’[54].
Noi pensiamo che queste indicazioni di Bruner permettano di colmare le gravi lacune presenti nei progetti, comunque molto innovativi per quegli anni, Nuffield ed il Laboratorio del Progetto Brocca. Compenetrando le insuperabili indicazioni culturali-metodologiche di quei progetti con il contributo pedagogico dell’intersoggettività e della narrazione[55], noi pensiamo che sia effettivamente possibile sviluppare competenze scientifiche negli studenti. Vogliamo prendere in considerazione, come esempio, una problematica importante della chimica, la legge di Proust, come potremmo scegliere, come esempi, la formazione del concetto di gas[56], le leggi di Lavoisier[57], le leggi di Dalton[58], la legge di Gay Lussac[59], la creazione delle formule chimiche (del linguaggio della chimica)[60], ecc. La legge di Proust costituisce una delle leggi fondamentali della chimica che generalmente non viene compresa dagli studenti (così come le altre leggi indicate sopra), perché non ne viene evidenziata la problematicità[61]; da un punto di vista strettamente nozionistico è ormai una legge “stupida”: infatti, se partiamo nell’insegnamento dai modelli atomico-molecolari, che significato ha affermare l’ovvietà che le sostanze hanno composizione costante? E, se, invece adottiamo un approccio banalmente induttivo[62], facendo eseguire uno o due esperimenti che evidenziano in questi casi la costanza delle proporzioni, che cosa di significativo si ricava per la comprensione della legge?
Per coinvolgere gli studenti e fare loro comprendere la legge di Proust ( come le altre leggi o un qualsiasi concetto fondamentale della chimica) occorre trasporre “in forma narrativa gli eventi che stiamo studiando, allo scopo di evidenziare meglio cosa c’è di canonico e di previsto nel nostro modo di considerarli, in modo da poter distinguere più facilmente che cosa è ambiguo e incoerente e quindi deve essere spiegato…… Il processo del fare scienza è narrativo. Consiste nel produrre ipotesi sulla natura, nel verificarle, correggerle e rimettere ordine nelle idee”. Occorre far partecipare gli studenti, nelle modalità possibili nei vari casi, al gioco della scienza: “nel corso della produzione di ipotesi verificabili giochiamo con le idee, cerchiamo di creare anomalie, cerchiamo di trovare belle formulazioni da applicare alle contrarietà più intrattabili in modo da poterle trasformare in problemi solubili, inventiamo trucchi per aggirare le situazioni intricate”. Occorre fare in modo che ciò che è apparentemente ovvio diventi un problema[63], una rottura epistemologica; occorre rendere, come dice Bruner del linguaggio letterario, “nuovamente estraneo ciò che è troppo familiare”… Siccome la connessione canonica fra le realtà, in una storia, rischia di generare noia, la narrativa, attraverso il linguaggio e l’invenzione letteraria, cerca di tener vivo l’interesse del suo pubblico “rendendo nuovamente strano l’ordinario”[64]. Occorre ridare centralità alle ipotesi scientifiche[65], bisogna quindi dare importanza al congiuntivo, come di nuovo Bruner dice a proposito della letteratura: “L’altro motivo per studiare la narrativa consiste nel comprenderla per meglio coltivare le sue illusioni di realtà, nel <<congiuntivizzare>> gli ovvi indicativi della vita di tutti i giorni…Dopotutto, la sua missione è ridare stranezza al familiare, trasformare l’indicativo in congiuntivo”[66]. Nell’insegnamento scientifico, è di fondamentale importanza formativa lo sviluppo, nello studente, della consapevolezza della distinzione e contemporaneamente del rapporto costante che vi è tra fatti, fenomeni, esperimenti, da una parte, e interpretazioni, ipotesi, teorie[67], dall’altra, e quindi del significato profondamente diverso, ad esempio, di queste due formulazioni: le cose stanno in questo modo o io penso che le cose stiano in questo modo. Ma Bruner ci ricorda che “l’atteggiamento interpretativo non è sempre gradito ai poteri costituiti, la cui autorità è fondata sul dare per scontato il mondo così com’è”[68].
Se l’analogia tra letteratura e scienza potesse sembrare troppo ardita, basta pensare a come Popper ha costantemente descritto la scienza: “Secondo la concezione della scienza che sto cercando di sostenere, ciò è dovuto al fatto che gli scienziati hanno osato creare dei miti, o congetture, o teorie, che pur essendo in netto contrasto con il mondo quotidiano dell’esperienza comune, sono tuttavia capaci di spiegare alcuni aspetti di tale mondo … E questi tentativi di spiegare il noto per mezzo dell’ignoto hanno enormemente ampliato il dominio della conoscenza”[69].
La legge di Proust
Lavoisier, sulla base dei dati analitici allora disponibili, riteneva che molte sostanze avessero una composizione costante. Dopo Lavoisier, la determinazione della composizione quantitativa delle sostanze diventò, come lo stesso Lavoisier aveva previsto, uno dei compiti più importanti della chimica; in questo modo si realizzò la matematizzazione dellascienza chimica: la grandezza da misurare era il peso e le operazioni matematiche impiegate non erano altro che somme, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni. Con la teoria chimica lavoisieriana, il peso delle sostanze, mentre in precedenza era stato considerato una variabile irrilevante nella comprensione dei fenomeni chimici, diventava la grandezza fondamentale della chimica. Anche per la chimica la fondazione scientifica si realizzava con l’individuazione di concetti specifici di tipo quantitativo.
Tutto il materiale sperimentale sulla composizione dei composti raccolto verso la fine del ‘700 portava a due conclusioni in apparenza opposte, ma nessuna delle quali contraddiceva le concezioni teoriche di quel tempo (es.: legge di conservazione del peso/massa). Secondo la prima di esse, nella formazione dei composti chimici, viene rigorosamente osservata la costanza della loro composizione ponderale, indipendentemente dal modo in cui sono stati ottenuti. Secondo l’altra, gli elementi chimici possono, in condizioni diverse, dare composti di diversa composizione ponderale.
Proust concentrò il suo lavoro sperimentale su quei composti che Lavoisier aveva considerato a composizione variabile, quali gli ossidi metallici, ed in particolare si dedicò allo studio degli ossidi del ferro. Se il ferro fosse, come si pensava, capace di combinarsi con l’ossigeno in tutte le proporzioni tra 27% e 48%, che sembravano essere i due limiti estremi della sua combinazione con questo elemento, avrebbe dovuto dare con lo stesso acido (ad es. acido solforico) tante combinazioni diverse quanti ossidi differenti poteva produrre. Proust arrivò alla conclusione che – al di là dell’apparenza– esistono soltanto due solfati del ferro e che i solfati a composizione intermedia non sono altro che miscele di questi due[70]: “ Un gran numero di fatti prova al contrario che malgrado i differenti gradi di ossigenazione, per i quali si crede che il ferro possa passare quando è esposto all’aria, non si conoscono che due solfati di questo metallo…… Tra questi due solfati non vi è nessun intermediario. Se dei solfati verdi, esposti al contatto dell’aria, prendono un colore che sembra non appartenere né all’una né all’altra delle specie già citate, ci si convincerà che essi non sono che una miscela dei due, separandoli con l’alcol”. Questa conclusione è connessa alla chiara affermazione di un altro principio basilare della chimica, la distinzione tra composti e miscugli[71]; questo concetto venne utilizzato costantemente da Proust.
Nel 1799 Proust, in un articolo dedicato alla composizione dell’ossido rameico, enunciò per la prima volta, la legge delle proporzioni definite, secondo la quale tutte le sostanze hanno composizione costante. Nella fase della scoperta, ciò che differenzia un’ipotesi corretta da una sbagliata, non è generalmente, il grado di conferma. Anche l’ipotesi delle proporzioni definite, come l’ipotesi di Lavoisier sulla costanza del peso, costituisce un esempio di generalizzazione affrettata; infatti, quando l’ipotesi fu enunciata per la prima volta, le esperienze su cui si basava erano limitate, ma l’enunciazione affrettata dell’ipotesi, come tutte le intuizioni geniali, svolse un ruolo fondamentale di indirizzo della ricerca chimica. Intorno al 1810 le conferme sperimentali dell’ipotesi erano ormai tali da permettere il suo accesso al rango dei principi basilari della chimica.
Evidentemente Proust, sulla base delle sue analisi realizzate nel decennio precedente, e dell’intuizione dell’importante principio della distinzione tra composti e miscugli, si era già convinto che la composizione definita è una caratteristica di tutti i composti. Berthollet era in favore, invece, della seconda teoria. Secondo Berthollet, infatti, se un composto consisteva degli elementi X e Y esso avrebbe contenuto una quantità di X superiore alla media, se fosse stato preparato adoperando una dose eccessiva di X. All’opinione di Berthollet si opponeva quella di Proust, il quale ricorrendo ad analisi meticolosamente accurate, dimostrò nel 1799 che il carbonato di rame, per esempio, conteneva proporzioni definite, in peso, di rame, carbonio e ossigeno, in qualunque modo fosse stato preparato in laboratorio o isolato dalle fonti naturali. Il rapporto dei composti era sempre di 5,3 parti di rame contro 4 parti di ossigeno e 1 di carbonio.
Proust, formulando la generalizzazione in base alla quale in tutti i composti gli elementi erano contenuti in determinate proporzioni definite e non in altre combinazioni, indipendentemente dalle condizioni in cui i composti stessi venivano prodotti, effettuò una generalizzazione di livello superiore (la legge di Proust è una generalizzazione di generalizzazioni) che suscitò le critiche di Berthollet: questi infatti fu in grado di produrre un certo numero di esempi in contraddizione con la legge.
Berthollet non contestava la costanza della composizione per molte sostanze, ma non era disposto ad accettare la generalizzazione di questa affermazione, cioè la legge della costanza della composizione per tutti i composti. I controesempi più significativi forniti da Berthollet rimasero le leghe ed i vetri; queste sostanze hanno composizione variabile e sono effettivamente, come sosteneva Proust dei miscugli (delle soluzioni solide), ma in questo caso Proust non fu in grado di fornire un criterio operativo capace di chiarire il problema.
Dal momento in cui fu annunciata la legge di Proust, il mondo scientifico fu costretto a compiere profonde meditazioni su di essa. Se la natura della materia fosse stata continua (come sosteneva Berthollet), questa circostanza sarebbe stata difficile da spiegare. Perché gli elementi non potevano combinarsi secondo proporzioni leggermente variabili? La risposta a questa domanda fu data dalla teoria atomica, che ha la sua lunga storia. Ma solo adesso è giunta la sua ora. Dopo la creazione della teoria dell’ossigeno e del concetto di elemento chimico, dopo la scoperta delle leggi stechiometriche, lo sviluppo della chimica presupponeva, sotto gli aspetti logico e storico, lo sviluppo della concezione atomistica della struttura delle sostanze.
La legge di Proust costituì una legge indubbiamente affrettata, dal punto di vista di canoni scientifici astratti, una legge falsa. E, paradossalmente proprio in questa sua problematicità risiede la sua importanza, che consiste in questi aspetti:
1) afferma l’esistenza di una determinata regolarità: la legge di Proust definiva in modo rigoroso i composti e forniva un criterio per individuarli;
2) spesso la nuova regolarità solleva altri interrogativi; nel caso della legge in oggetto, molti chimici iniziarono a chiedersi perché dalla combinazione degli elementi tra loro si ottenevano generalmente pochi composti (2, 3, 4) e per di più con composizione fissa. La risposta a questi interrogativi sarebbe venuta pochi anni dopo con la teoria atomistica di Dalton, che avrebbe poi conferito alla chimica, nell’arco di alcuni decenni, capacità esplicative e predittive inimmaginabili;
3) una legge rende possibile la ricerca scientifica; dopo Proust, la determinazione della composizione quantitativa dei composti diventò un’attività centrale della chimica. Inoltre, tutti gli sviluppi teorici successivi furono possibili perché, nell’arco di pochi decenni, il perfezionamento o l’invenzione di nuovi strumenti per l’analisi quantitativa dei composti raggiunsero un tale sviluppo da permettere la determinazione accurata delle composizioni. Tutto ciò fu possibile grazie alla convinzione che le sostanze hanno composizione costante e che quindi, ad esempio, risultati più o meno diversi delle analisi dipendano non da una variabilità nella composizione delle sostanze, ma soltanto dall’incertezza dei dati sperimentali. Tale convinzione fornì anche un criterio operativo: quando i risultati di poche analisi (2-3) presentavano una dispersione contenuta entro margini di errore accettabili, la ricerca terminava e la composizione veniva semplicemente ricavata effettuando la media dei valori sperimentali.
L’insegnamento della biologia e il riduzionismo
La biologia rappresenta un caso paradossale: nonostante sia l’ambito dove maggiore è stata la riflessione sui limiti del riduzionismo[72], la sua impostazione didattica quasi universale è riduzionista della “peggior specie”, in quanto si rivolge, in un linguaggio chimico-fisico sofisticato, a studenti che stanno eventualmente acquisendo le prime conoscenze di chimica e di fisica. Anche all’interno del progetto Brocca il Laboratorio di fisica e chimica, di cui abbiamo lungamente trattato,èl’unico programma innovativo in riferimento all’insegnamento scientifico. Contemporaneamente ad esso vennero, infatti, scritti i programmi, sempre per il biennio, di Scienze della Terra e di Biologia, che costituiscono, a nostro parere, esempi emblematici di programmi totalmente assurdi. Ad esempio, il programma di biologia ha il suo fondamento sulla biologia molecolare, quando gli studenti a cui viene proposto non hanno nessuna conoscenza sensata della chimica organica[73].
La didattica delle scienze sembra quasi la negazione della scienza; mentre nella scienza le nuove conoscenze si sviluppano sulla base di quelle precedenti, nella didattica scientifica si riparte sempre da capo; non è rimasta, ad esempio nessuna traccia delle illuminanti riflessioni che Ausubell ha dedicato all’insegnamento della biologia qualche decennio fa.
Ausubell non condivise le proposte didattiche di tipo strutturalista, che vennero predisposte a partire dal libro di Bruner Dopo Dewey, il processo di apprendimento nelle due culture[74], basate sull’assunto che fosse possibile insegnare qualsiasi concetto a qualsiasi età[75]. “Uno dei caratteri distintivi del movimento per la riforma degli studi è la correzione eccessiva del livello inutilmente basso di sofisticazione con cui si insegnavano, e in parte si insegnano ancora, molte materie nelle scuole superiori. In scienze tale tendenza è sottolineata da un virtuale rifiuto dell’approccio descrittivo, naturalistico e applicato e da una enfatizzazione degli aspetti analitici, sperimentali e quantitativi della scienza. In un corso introduttivo di biologia per le scuole superiori, per esempio, il nuovo contenuto consiste in gran parte di argomenti biochimici altamente sofisticati, che presuppongono un’avanzata conoscenza della chimica, da parte di studenti che non hanno alcuna preparazione della materia”[76].
La sua analisi si concentrò sul più significativo progetto attivato negli Usa, il BSCS (Biological Sciences Curriculum Study), di cui vennero approntate più versioni. Le critiche maggiori sono rivolte alla versione blu, che è stata l’unica tradotta, non casualmente, in italiano: “la versione blu presenta un materiale di biologia di difficoltà e sofisticazione a livello universitario a studenti che non hanno le basi necessarie in chimica, fisica e biologia elementare, per poterle apprendere in modo significativo… I particolari estremamente sofisticati non solo sono inutili e non appropriati per un corso introduttivo, ma impacciano anche l’apprendimento e ingenerano delle valenze negative verso la materia[77]“. La versione verde ha un’impostazione epistemologica molto più adeguata della gialla e della blu: essa permette, infatti, di comprendere che la conoscenza biologica, che non viene presentata come una verità assoluta, “cambia con la scoperta di nuovi fatti e nuove tecniche e quando vengono avanzate nuove teorie. Infine la versione verde suggerisce più esplicitamente che i concetti e le classificazioni della biologia sono dei tentativi che l’uomo fa per interpretare, organizzare e semplificare quello che comprendiamo dei fenomeni naturali; e che tali concetti e categorie né coincidono con i dati da cui sono ricavate, né rappresentano l’unico modo di concettualizzare e categorizzare quei dati”[78]. Far comprendere la distinzione tra fatti e concezioni teoriche è di grande rilevanza sul piano didattico: nell’insegnamento scientifico l’accesso al significato, e non soltanto la mera memorizzazione, è infatti strettamente connesso alla comprensione della distinzione e delle relazioni che esistono tra fatti e teorie.
Per Ausubell un corso introduttivo di biologia nella scuola secondaria superiore dovrebbe mantenere un approccio prevalentemente naturalistico e descrittivo. “Per dirla in breve, la biologia per le scuole superiori dovrebbe concentrarsi su quei concetti biologici generali che costituiscono una parte dell’istruzione generale, piuttosto che sull’analisi particolareggiata e tecnica delle basi fisiche e chimiche dei fenomeni biologici o della morfologia e della funzione delle microstrutture infracellulari[79] … Per lo studente principiante in scienze, è molto più importante imparare ad osservare sistematicamente[80] e con precisione gli eventi naturali, e a formulare e a verificare ipotesi sulla base di antecedenti e conseguenti che si verificano naturalmente piuttosto che imparare a manipolare una variabile sperimentale e a controllare altre variabili rilevanti, su un progetto, in una situazione di laboratorio. Il primo approccio non solo ha la precedenza nello sviluppo intellettuale dello studente, ed è più consono al suo bagaglio di esperienze, ma ha anche un maggiore valore di trasferimento per la soluzione di problemi nella vita reale. L’eguagliare dogmaticamente il metodo scientifico con l’approccio sperimentale-analitico esclude anche, piuttosto sommariamente, dall’ambito scientifico, settori della biologia, come l’ecologia, la paleontologia, e l’evoluzione, ed altre discipline, quali la geologia, l’astronomia, la meteorologia, l’antropologia e la sociologia”[81].
Ed infine: alcune considerazioni sull’insegnamento della fisica
Per l’insegnamento della fisica nella scuola secondaria superiore le considerazioni che abbiamo sviluppato in questo contributo sono, a nostro parere, tutte pertinenti; tuttavia, pensiamo necessario evidenziare una differenza con la chimica e la biologia: non è necessario un capovolgimento dell’asse culturale, perché anche noi riteniamo che l’insegnamento fondamentale debba essere costituito dalla fisica classica; pensiamo, inoltre, che, nell’insegnamento della fisica, a nessuno verrebbe in mente di insegnare la fisica relativistica o la fisica quantistica come insegnamento di base, come avviene nel caso della chimica e della biologia.
Fatta questa non marginale precisazione, tuttavia, i nodi di fondo dell’insegnamento della fisica rimangono tutti generalmente irrisolti, perché anche nel caso della fisica il canone enciclopedico (meccanica classica, ottica, elettromagnetismo, calorimetria, termodinamica, fisica del Novecento), la visione deduttivistica ed il mito della quantificazione[82] comportano necessariamente un’impostazione nozionistica, addestrativa, tecnicistica. Anche nel caso della fisica, il nodo preliminare è la scelta dei contenuti in relazione alle ore a disposizione, per potere avere i tempi per un insegnamento significativo per lo studente[83] – problematico, situato, contestuale, riflessivo, metacognitivo-; abbiamo indirizzi in cui è insegnata 2-3 ore settimanali per un paio di anni, ed alcuni indirizzi sperimentali in cui è insegnata 3 ore per tutti e cinque gli anni.
Le leggi di Newton, ad esempio, non vengono comprese dalla maggior parte degli studenti nell’insegnamento usuale[84], assiomatico, nozionistico e addestrativo, ma possono essere, invece, comprese avendo a disposizione tempi lunghi, attenzione al linguaggio, al rigore scientifico, e innanzitutto agli ostacoli epistemologici; possono essere comprese soltanto all’interno di un’impostazione problematica, quale può essere garantita dallo loro contestualizzazione. Per un non esperto, il significato di un concetto non può essere ricavato da relazioni logiche all’interno di un’organizzazione deduttiva, a partire da concetti e teorie ancora più generali, di cui sfugge, a maggior ragione, il significato. Il principio di inerzia, principio fondamentale su cui si basa la scienza moderna, non può diventare significativo per lo studente se viene presentato sbrigativamente in modo assiomatico. Vi è forse principio meno intuitivo, più in contraddizione con il senso comune, di questo? Di un principio che asserisce che un corpo in movimento continua a muoversi all’infinito di movimento rettilineo uniforme, senza l’intervento di una forza! Con questo principio, il movimento assumeva finalmente, nel Seicento, lo stesso statuto ontologico della quiete.
Il contributo di Paola Falsini, sperimentato in una classe terza di un liceo scientifico, costituisce un esempio innovativo di insegnamento della fisica, e completamente in sintonia con le considerazioni sviluppate in questo nostro saggio, un esempio proprio basato sulla costruzione problematica e complessa del principio di inerzia.
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[1] F. Cambi, Saperi e competenze, Bari, Laterza, 2004.
[2] “In breve, fare pedagogia, oggi, si caratterizza come una elaborazione teorica e pratica contrassegnata da connotati di problematicità, di radicalizzazione, di criticità aperta, capace di ripensare e ristrutturare ab imis il discorso articolato e sfuggente, plurale ma insieme unitario, che verte sull’educazione, i suoi fini, i suoi modelli, i suoi processi.” F. Cambi, La complessità come paradigma formativo, in M. Callari Galli, F. Cambi, M Ceruti, Formare alla complessità, Roma, Carocci, 2003, p.144.
[3] F. Cambi (a cura di), La progettazione curricolare nella scuola dell’autonomia, Roma, Carocci, 2002.
[4] F. Cambi, Saperi e competenze, Bari, Laterza, 2004, pp. 27, 32, 18.
[5] Questo gruppo era costituito da circa venti esperti, in rappresentanza di tutte le associazioni di didattica delle scienze e di alcune associazioni professionali.
[6] I risultati delle ricerche effettuate in Italia sono in consonanza con quelle effettuate nel contesto internazionale. Fra le pubblicazioni italiane sono particolarmente preziose le seguenti due: N. Gridellini Tomasini, G. Segrè, Conoscenze scientifiche: le rappresentazioni mentali degli studenti, Firenze, La Nuova Italia, 1991; G. Cavallini, La formazione dei concetti scientifici, Firenze, La Nuova Italia, 1995.
[7] A. Borsese, C. Fiorentini, Università e formazione degli insegnanti: il problema della integrazione delle competenze, in Università e Scuola, 1997, 1/R, pp. 37-42;E. Aquilini, Gli insegnanti e le scienze, in Scuola e Didattica, 2003, n. 6. pp. 19-22; P. Falsini, L. Barsantini, Una riflessione sulle competenze degli insegnanti nella didattica delle discipline scientifiche, in Naturalmente, 2003, n. 2, pp. 32-34.
[8] A. Borsese, C. Fiorentini, E. Roletto, Formule sulla leggibilità e comprensione del testo: considerazioni su una ricerca relativa ai manuali di scienze della scuola media, in Scuola e Città, 1996, n. 12, pp. 524-527.
[9] D. Antiseri, Jenner e la ricerca sulle cause e gli effetti del vaiolo vaccino, Brescia, La Scuola, 1981, p.27.
[10] J. Watkins, Contro la scienza normale, in I. Lakatos, A Musgrave, Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 102.
[11] T. Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, p. 199.
[12] T. Khun, La tensione essenziale: tradizione e innovazione nella ricerca scientifica in La tensione essenziale, Einuadi, 1985, p. 249.
[13]J.J. Schwab, P. F. Brandwein, L’insegnamento della scienza,Roma, Armando, 1965, p. 75.
[14]G. Holton, Scienza, educazione e interesse pubblico, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 22-23.
[15]G. Reale, in Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni. I materiali della Commissioni dei Saggi, Firenze, Le Monnier, 1997, p. 374.
[16] G. Bernardini, ibidem, p. 252.
[17] Commissione dell’Unione Europea (a cura di), Insegnare a apprendere verso la società conoscitiva, in Annali della Pubblica Istruzione, 1995, n. 4, p. 309.
[18] A. B. Arons, Guida all’insegnamento della fisica, Bologna, Zanichelli, pp 371, 372, 373, 374, 384,387, 380, 381.
[19] F. Cambi, Saperi e competenze, Bari, Laterza, 2000, p.80.
[20] Ibidem, p. 80.
[21] “I veri programmi li fanno gli editori, che si basano su un modello di insegnante molto conservatore in vista delle adozioni e dei conseguenti profitti (basterebbe citare il caso dei manuali di 1000 e più pagine/anno, concepiti con l’odea che così gli insegnanti li trovano completi avendo un margine di scelta personale per le 100 pagine che effettivamente impiegheranno” (C. Bernardini, in Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni. I materiali della Commissione dei Saggi, Firenze, Le Monnier, 1997, pp. 120.
[22] C. Fiorentini, Quali condizioni per il rinnovamento del curricolo scientifico?, in F. Cambi, L’arcipelago dei saperi. Progettazione curricolare e percorsi didattici nella scuola dell’autonomia, Firenze, Le Monnier, 2000, pp. 275-290.
[23] E’ molto interessante l’articolo di S. Tamburini Cambiare la scuola in America, pubblicato in Sapere, 1997, n. 5: viene presentato Project 2061, un progetto americano preparato per rinnovare radicalmente l’insegnamento scientifico-matematico-tecnologico. Tra le innumerevoli proposte avanzate, vi è un totale ridimensionamento degli aspetti formalizzati. In più punti si parla invece di comprensione qualitativa.
[24] J. Bruner, La cultura dell’educazione, Milano Feltrinelli, 1997, p. 179, 27.
[25] F. Cambi, La complessità come paradigma formativo, in op. cit. p. 142.
[26] J. Bruner, op. cit., p. 27.
[27] “Elemento cruciale per l’apprendimento è dato dalla qualità delle esperienze che insegnanti e studenti realizzano in relazione alle aree di studio … L’istruzione non può e non deve mirare ad essere enciclopedica. Sezioni diverse del sistema scolastico hanno livelli e scopi diversi, ma in ognuna di esse la regola dovrebbe essere l’insegnamento di alcune cose bene e a fondo, non molte cose male e superficialmente: si deve avere il coraggio di scegliere e di concentrarsi”. ( R. Maragliano, Sintesi dei lavori della Commissione tecnico-scientifica, in Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni. I materiali della Commissione dei Saggi, Firenze, Le Monnier, 1997, p. 78.
[28] L. Barsantini, Sull’insegnamento della fisica, in Insegnare, 2000. n. 5, pp. 42-45.
[29] Sono stati pubblicati negli ultimi anni due progetti curricolari per la scuola di base che hanno indubbiamente molti aspetti pedagogico-culturali in comune; differiscono radicalmente, tuttavia, sulla scelta delle problematiche, sull’idea che “sia possibile insegnare qualsiasi cosa a qualsiasi età” con le modalità opportune. Il primo progetto, legato a questa visione è stato pubblicato in questi due libri: F. Alfieri, M. Arcà, P. Guidoni, Il senso di fare scienze. Un esempio di mediazione tra cultura e scuola, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; F. Alfieri, M. Arcà, P. Guidoni, I modi di fare scienze, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. Ed anche il secondo progetto è stato pubblicato in due libri: L. Barsantini, C. Fiorentini, L’insegnamento scientifico verso un curricolo verticale. Volume primo. I fenomeni chimico-fisici, L’Aquila, IRRSAE Abruzzo, 2001; G. Cortellini, A. Mazzoni, L’insegnamento delle scienze verso un curricolo verticale. Volume secondo. I fenomeni biologici, L’Aquila, IRRSAE Abruzzo, 2002.
[30] J. Bruner, op. cit., pp. 10, 142.
[31] Commissione dell’Unione Europea (a cura di), Insegnare e apprendere verso la società conoscitiva, in Annali della
Pubblica Istruzione, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 311.
[32] R. Maragliano, Sintesi dei lavori della Commissione tecnico-scientifica, in Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni. I materiali della Commissione dei Saggi, Firenze, Le Monnier, 1997, pp. 81-81.
[33] P. Mirone, La termodinamica può essere insegnata agli adolescenti? In Nuova Secondaria, 1994, n. 3, pp. 78-81.
[34] Fra gli innumerevoli articoli che hanno messo in evidenza o la difficoltà dell’insegnamento, nella scuola secondaria superiore, di determinate problematiche della chimica o i risultati dell’insegnamento chimico usuale ci limitiamo a ricordarne alcune: A. Roletto, B. Piacenza, Il concetto di sostanza: una indagine sulle concezioni degli studenti universitari, in La chimica nella Scuola, 1993, n. 5, pp. 11-15; B. Piacenza, E. Roletto, Il concetto di densità: difficoltà di apprendimento, in Didattica delle Scienze e Informatica nellaScuola, 199, n. 172, pp. 19-22; P. Mirone, Per un più efficace insegnamento delle scienze, in Nuova Secondaria, 1995, n. 5, pp. 21-24; L. Benedetti, P. Mirone, Lacune concettuali negli studenti universitari di chimica, in La Chimica nella Scuola,1995, n. 2, pp. 43-47; P. Mirone, Per una definizione operativa del concetto di reazione, in Nuova Secondaria, 1996, n. 2, pp. 84-86; P. Mirone, Considerazioni sul concetto di reazione chimica, in La Chimica nella Scuola, 1998, n. 2, pp. 49-51; P. Mirone, Perché la chimica è difficile? In La Chimica nella Scuola, 1999, n. 3, pp. 67-70; P. Mirone, E. Roletto, Un’indagine sulle concezioni delle matricole di chimica, in La Chimica nella Suola, 1999, n. 4, pp. 116-121; P. Mirone, Gli orbitali sono realmente necessari nell’insegnamento della chimica? In La Chimica nella Scuola, 2003, n. 4, pp. 103-107; G. Del Re, Nota sul concetto di legame chimico, in La Chimica nella Scuola, 1996, n. 5, pp. 155-157; R. Gillespie, Legame senza orbitali, in La Chimica nella Scuola, 1997, n. 1, pp. 2-5.
[35] G. Bini, A. Borsese, Alcune considerazioni sui test per l’ammissione all’Università in Italia, Scuola e Città, 1995, n. 9, pp. 384-389.
[36] P. Violino, Alcune considerazioni sul Laboratorio di fisica e di Chimica, in La Chimica nella Scuola, 1994, n. 5, pp. 132-136; F. Olmi, Ripensare i fondamenti dell’insegnamento della chimica al biennio, in La Chimica nella Scuola, 1997, n. 1, pp. 9-13.
[37] Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi dei primi due anni. Le proposte della Commissione Brocca, Firenze, Le Monnier, p. 281, 1991.
[38] Nelle finalità del programma vi erano queste considerazioni: “Il termine laboratorio sta ad indicare il carattere operativo di questo insegnamento. Naturalmente ci si riferisce ad una operatività sia mentale che concreta: gli studenti vengono educati ad operare al fine di trasformare la realtà indagata in rappresentazioni mentali (conoscenze, concetti, intuizioni) e ad utilizzare le rappresentazioni mentali acquisite per ulteriori indagini nella realtà concreta”, ibidem, p. 281.
[39] F. Cambi, Saperi e competenze, Bari, Laterza, 2004, p.77-78. J. Bruner, Op. cit., p. 138. (Bruner ricorda come N. Bhor confessò di essere arrivato all’idea di complementarità in fisica, a partire da un dilemma morale che riguardava suo figlio).
[40] Nuffield Chimica, Livello I, Bologna, Zanichelli, 1973; Nuffield Chimica, Livello II, Bologna, Zanichelli, 1974.
[41] J, Bruner, La cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 8, 185.
[42] Ibidem, p. 9.
[43] Ibidem, p. 192.
[44] Ibidem, p. 11.
[45] Ibidem, p. 34.
[46] Ibidem, p. 95.
[47] Queste proposte pedagogiche iniziarono ad essere ampiamente conosciute in Italia soltanto alla fine degli anni ottanta; un libro che contribuì a far conoscere alcuni aspetti, quelli maggiormente di ispirazione vygotslijana, fu: C. Pontecorvo, A. M. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Firenze, La Nuova Italia, 1991,
[48] E. Ferreiro, A Teberosky, La costruzione della lingua scritta nel bambino, Firenze, Giunti, 1985, p 25-26.
[49] J. Bruner, op. cit., p. 53.
[50] Ibidem, p. 135.
[51] Ibidem, p. 103.
[52] Ibidem, p. 53.
[53] Ibidem, p. 126.
[54] Ibidem, p.138, 140.
[55] G. Bagni, Il bisogno di senso dell’insegnamento scientifico, in R. Conserva (a cura di), Il nuovo esame di stato, Bologna, Zanichelli, 2000.
[56] E. Aquilini, Il ruolo del concetto di gas nella costruzione delle basi della chimica, in La Chimica nella Scuola, 2000, n. 5, pp. 149-152.
[57] C. Fiorentini, E. Roletto, Ipotesi per il curricolo di chimica, in La Chimica nella Scuola, 2000, n. 5, pp. 158-168; A. Testoni, D. Colombi, Quale teoria per gli acidi? La teoria dell’acidità di Lavoisier, in Atti del XII Congresso della Divisione Didattica della Società Chimica Italiana, Trieste, 2001, pp. 139-149.
[58] T. Khun, La funzione della misura nella scienza fisica moderna, in La tensione essenziale, Torino, Einaudi, 1985, pp. 212, 214.
[59] C. Fiorentini, La legge dei volumi di Gay Lussac: una legge evidente?, in CIDI di Firenze, Storicità e attualità della cultura scientifica e insegnamento delle scienze, Firenze, Marietti-Manzuoli, 1986, pp. 231-247.
[60] C. Fiorentini, V. Parrini, Dalla legge delle proporzioni multiple alle formule chimiche: l’origine dei simboli chimici, delle formule, dei pesi atomici, in Didattica delle scienze, 1987, n. 129, pp. 35-42.
[61] E. Torracca, Una dimensione storica dell’insegnamento della chimica?, in Epsilon, 1994, n. 2, pp. 17-22; P. Riani, L’insegnamento della chimica, in Didattica delle Scienze e Informatica nella scuola, 1996, n. 182, pp. 22-26; L. Orlando, Ma nelle scuole parliamo di storia, in Sapere, 1997, n. 5, pp. 30-36.
[62] M. Mancini, E. Torracca, Che tipo di esperimenti ci sono nei libri di testo di chimica?, in La Chimica nella Scuola, 2001, n. 4, pp. 121-127.
[63] F. Olmi, Una sfida da raccogliere: l’esistenza di un più efficace approccio ai saperi scientifici fin dai primi livelli scolari, in Naturalmente, 2002, n. 4, pp. 31-39.
[64] J. Bruner, op. cit., p. 154
[65] C. Fiorentini, Psicologia, epistemologia e storia nel rinnovamento del curricolo chimico, in Rassegna, 2000, n. 12, pp.28-42.
[66] J. Bruner, La fabbrica delle storie, Bari, Laterza, 2002, pp. 12, 13.
[67] M. Ciardi, Il ruolo della storia e dell’epistemologia nella costruzione del curricolo verticale: Per una storia della didattica della chimica e una rivalutazione della ruolo della cultura chimica in Italia, in La Chimica nella Scuola, 2002, n. 3, pp. 79-83.
[68] J. Bruner, La fabbrica delle storie, Bari, Laterza, 2002, p. VII.
[69] K. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1921, p.177.
[70]Infatti la spiegazione all’apparenza più ragionevole è quella di ritenere che il solfato ferroso (verde), lasciato all’aria, è capace di produrre un numero indefinito di solfati, corrispondenti ai diversi gradi di ossidazione del ferro.
[71] I composti erano consideraste da Proust le “combinazioni vere”.
[72] G. G. Simpson, Evoluzione. Una visione del mondo, Firenze, Sansoni, 1972.
[73] C. Fiorentini, Il ruolo delle scienze sperimentali nel progetto Brocca, in Insegnare, 1992, n. 7, pp. 14-16.
[74] Bruner con cui polemizzò Ausubell 30 anni fa ha ben poco in comune con il Bruner a cui abbiamo fatto riferimento in questo saggio. Già negli anni 60, Bruner, interessandosi sempre più di educazione, iniziò un cammino che lo avrebbe portato a posizioni pedagogiche molto diverse e molto più complesse di quelle presenti in libro Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture che lo rese famoso a livello mondiale.
[75] Questa concezione bruneriana era stata criticata aspramente fin dall’inizio da alcuni pedagogisti, tra i quali Lydia Tornatore (Educazione e conoscenza, Torino, Loescher, 1974.)
[76] D. P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi, Milano, Angeli, 1983, p. 470.
[77] Ibidem, p. 452.
[78] Ibidem, p. 454.
[79] Ibidem, pp. 470-471.
[80] D. Basosi, Perché le piante, in Naturalmente, 2003, n. 2, pp. 29-31.
[81]D. P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi, Milano, Angeli, 1983, p. 471.
[82] T. Khun, La funzione della misura nella scienza fisica moderna, in La tensione essenziale, Torino, Einaudi, pp.193-243.
[83][83] P. Falsini, Tempi distesi e scelta dei contenuti per rinnovare l’insegnamento scientifico, in Naturalmente, 2003, n. 3, pp. 40-42.
[84] P. Falsini, La fisica ingenua resiste, in La Fisica nella Scuola, 2004, n. 1, pp. 13-18.
Il ruolo del linguaggio nella formazione scientifica
Eleonora Aquilini
ITC “C.Cattaneo?di S. Miniato- Vicepresidente DD-SCI
ele.aquilini@tin.it
Il linguaggio ?centrale nella formazione dell’uomo perch?in primo luogo rende possibile l’accesso ai significati di ordine superiore, quelli non collegati direttamente all’istinto e agli aspetti pi?primitivi del nostro essere. Tuttavia ?facile perdersi nei meandri delle definizioni, per questo vorrei iniziare da una definizione semplice, data da alunni di una scuola, anche se molto particolare, quella di Barbiana: ?b>La lingua poi ?formata dai vocaboli d’ogni materia. Per cui bisogna sfiorare tutte le materie un po?alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare.?/b>(1)
Questa osservazione traduce in realt?in maniera ottimale la trasversalit?del linguaggiorispetto alle varie discipline soprattutto nella scuola di base, dove le discipline non devono formare degli specialisti, ma devono solo “formare?gli individui per essere cittadini capaci di capire e farsi capire.
Del resto anche Gramsci, come ci ricorda De Mauro, aveva sottolineato la connessione tra linguaggio e formazione:
“Gramsci…… non dimentica mai d’insegnarci che ?il linguaggio, quale luogo di conoscenza, espressione, interazione, ?il linguaggio, il terreno su cui da alcune decine di millenni si gioca la grande partita che degli umani fa, quando la vincano, esseri pienamente capaci di senso e di storia. Ed ?l’educazione, ?la scuola lo spazio in cui nelle societ?anche appena sviluppate, singoli e ceti possono farsi classe e vincere quella diuturna partita sibi et alienis. Questo, penso, leggeva e ha spinto a leggere in Gramsci don Milani.?/span>(2)
In Pensiero e linguaggio Vygotskij (3) analizza gli stadi relativi alla nascita del linguaggio e al suo sviluppo. Tale processo ?visto come l’espressione della progressiva e sempre migliore organizzazione dei contenuti percettivi fino alla formazione dei concetti.
Il passaggio dalla concretezza all’astrazione del significato delle parole si schematizza nella successione: mucchi, complessi, concetti.
Tutte e tre sono fasi del pensiero. Si pensa “per mucchi?/span> quando il pensiero ?sincretico e la funzione indicativa che ha la parola ? riferita ad un insieme di oggetti collegati fra loro per caso nella percezione del bambino.
Nel ?/span>pensiero per complessi?/span> i legami che uniscono i vari oggetti in un complesso hanno carattere oggettivo, esistono veramente. “I legami fattuali caratterizzanti i complessi sono scoperti tramite l’esperienza diretta?Dacch?un complesso non ?nbsp; logico astratto, i legami che lo creano, come pure quelli che esso contribuisce a creare, mancano di unit?logica, e possono essere di specie molto diverse?4).
Vengono individuati cinque tipi di complessi, e con essi la parola diventa il cognome di quella famiglia di oggetti i cui legami di parentela possono essere molteplici.
Successivamente i bambini diventano sempre pi?nbsp; capaci di mantenere fissi i criteri dei loro raggruppamenti, delle loro generalizzazioni. A questo punto troviamo lo pseudo-concetto che assomiglia ad un concetto “ma in realt?il criterio che vi corrisponde nella formazione dei raggruppamenti ?ancora quello di legami oggettivi concreti e fattuali sulla base della semplice associazione?(5)
Vygotskij enfatizza il ruolo dell’adulto che nello stadio dei complessi e poi in quello degli pseudoconcetti fornisce al bambino una parola ed il significato che inizialmente non ?lo stesso per entrambi ( perch?il bambino pensa la stessa cosa in modo diverso servendosi di operazioni mentali diverse), poi lo diventer? La comprensione fra i due ?nbsp; intanto assicurata in quanto parlando ci si riferisce agli stessi oggetti; lo scambio, la relazione adulto-bambino apre la strada, avvia il processo delle generalizzazioni, fino alla formazione dei concetti veri e propri.
“L’adulto fornisce semplicemente il significato gi?pronto di una parola, intorno a cui il bambino forma un complesso, con tutte le particolarit? funzionali, strutturali e genetiche del modo di pensare per complessi?Nella vita reale i complessi corrispondenti ai significati delle parole non sono sviluppati spontaneamente dal bambino: le linee lungo le quali un complesso si sviluppa sono predeterminate dal significato che una data parola gi?possiede nel linguaggio degli adulti.?(6)
E? interessante poi l’analogia fra il processo della creazione del linguaggio nella storia delle varie lingue umane e il processo della formazione dei complessi nello sviluppo intellettuale del bambino. La storia di una parola cambia nei suoi significati come nel pensiero del bambini e l’insieme dei significati viene a costituire un complesso.
Il concetto emerge, secondo Vygotskij, quando la totalit?delle caratteristiche
concrete, vengono astratte e poi sintetizzate di nuovo. Tale sintesi astratta diventa allora lo strumento principale di pensiero.
I complessi vengono chiamati anche schemi e coincidono con i concetti spontanei o quotidiani. I concetti veri e propri sono ?/span>formali? e sono i concetti scientifici che vengono appresi principalmente a partire dall’et?scolare.
Schemi e concetti interagiscono fungendo da collegamento fra l?/span>esperienza concreta e l’astrazione, nel senso che i concetti organizzano per cos?dire dall’alto in maniera convenzionale l’esperienza e l’esperienza, dal basso, tramite gli schemi riempie di contenuto i concetti. Viene detto esplicitamente che i concetti non influenzano gli schemi se la distanza fra i due ?eccessiva e questo ci ricorda da vicino la teoria di Piaget relativa all’assimilazione e accomodamento che postula l’impossibilit?di assimilare quei concetti che le strutture cognitive di quel dato stadio evolutivo non sono in grado di recepire.
L’importanza di tale considerazione a cui Vigotskij giunge separatamente da Piaget, ?fondamentale per le implicazioni didattiche che comporta. Tuttavia mentre Piaget in generale non affronta direttamente il problema della ricaduta nell’insegnamento della sua teoria, Vigotskij concepisce l’insegnamento come parte integrante dello sviluppo: e?l’istruzione formale che trasmette i contenuti e insegna a riflettere sui contenuti.
Quindi il fatto che l’insegnamento, che porta l’astrazione nell’esperienza quotidiana, tenga conto degli schemi spontanei e sia dipendente da questi, ?basilare per un corretto apprendimento. Il rischio che l’educatore vada oltre questi limiti e che i contenuti dell’insegnamento non siano pi?assimilabili convenientemente e che diventino sovrapposizione di concetti incomprensibili e non assimilazione, ? grande.
Il pericolo ?proprio quello di un verbalismo didattico che non porta a nessun apprendimento significativo.
C’è da dire per?che V. non fa una distinzione fra i diversi tipi di concetti scientifici e l’avere attribuito a tutti indistintamente la propriet?della presa di coscienza ?un po?azzardato. Sicuramente i concetti scientifici di tipo specialistico delle varie discipline non hanno le stesse caratteristiche dei concetti scientifici elementari. Un esempio di concetto scientifico elementare che riporta V. ?il concetto di fiore che ?una generalizzazione rispetto a rosa.
In generale comunque sia i concetti scientifici apparentemente pi?elementari che quelli specialistici e disciplinari sono fra loro stratificati e tali distinzione va fatta nel momento in cui si pensa ad un insegnamento di essi.
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RIFLESSIONI PER UNA PROPOSTA D’INSEGNAMENTO SCIENTIFICO
Le considerazioni fatte sul costrutto concetti spontanei- concetti scientifici, si basano sull’idea che sia necessario distinguere fra i diversi tipi di concetti scientifici ossia fra quelli specialistici delle varie discipline e i concetti scientifici elementari. Inoltre la propriet?psicologica della presa di coscienza che V. attribuisce a tutti i concetti scientifici non ? implicita. Il problema dell’insegnamento ? l’accesso ai significati dei concetti scientifici disciplinari e questo riteniamo sia possibile conferendo ad essi un’organizzazione adatta che non prescinda da considerazioni storico- epistemologiche (7). Tale operazione deve essere preceduta dalla individuazione dei concetti pi?importanti della disciplina sia in relazione alla sua organizzazione specialistica attuale che alle strutture cognitive dello studente, che alle sue concezioni di senso comune.
L’organizzazione dei concetti scientifici nella scuola di base e nella scuola superiore deve essere diversa e tale distinzione deve basarsi principalmente su considerazioni riguardanti la psicologia evolutiva. Il riferimento principale ? la teoria degli stadi di Piaget nelle sue linee essenziali e incontestabili: gli stadi esistono anche se non sono precisamente localizzati nel tempo e legati ad una specie di automatismo biologico.
L’importante ?che lo stadio delle operazioni formali, indipendentemente da quando lo si raggiunga, ?comunque preceduto da quello delle operazioni concrete. Teoricamente questi due stadi sono quelli in cui si trovano rispettivamente gli alunni delle scuole superiori e quelli della scuola di base. Ci?implica che la comprensione del procedimento ipotetico- deduttivo tipico dello sviluppo scientifico non pu?esserci quando la capacit?di astrazione non ?ancora consolidata. Una impostazione fenomenologica in cui sia possibile ragionare induttivamente sar?pi?adatta nella scuola di base. Per la costruzione della conoscenza ad ogni et?si considera di centrale importanza il costrutto piagetiano di assimilazione e accomodamento. In altre parole non ? possibile comprendere quello che le strutture cognitive non sono preparate ad accogliere. L’apprendimento deve essere graduale e ci?comporta che l’insegnante di materie scientifiche sia consapevole, come gi?detto, della stratificazione dei concetti scientifici.
Di centrale importanza ? il ruolo del linguaggio nello sviluppo dei concetti e per la loro acquisizione. In particolare la traduzione in linguaggio scritto delle osservazioni fatte sui fenomeni studiati nella scuola di base, attiva il sistema di rappresentazione simbolica che ?appunto quello della consapevolezza.
Vygotskij ha studiato il processo relativo allo sviluppo del linguaggio scritto e ha rilevato che ?/span>Il linguaggio scritto ?una funzione linguistica separata, che si distingue dal linguaggio orale sia nella struttura che nel funzionamento. Anche il suo sviluppo minimo richiede un alto livello di astrazione?Nell’imparare a scrivere il bambino deve liberarsi dell’aspetto percettivo del linguaggio e sostituire le parole con immagini di parole. Il linguaggio che ?solo immaginato e che richiede una simbolizzazione dell’immagine sonora mediante l’impiego di segni scritti (cio?un secondo grado di simbolizzazione) deve essere naturalmente pi? difficile del linguaggio orale??/span>(8)
Il ruolo delle discipline scientifiche ?molto importante nella formazione, deve per?essere analizzata la struttura della disciplina prima di essere oggetto di apprendimento.
Ogni disciplina scientifica si definisce con lo studio di fenomeni, le leggi macroscopiche, le leggi microscopiche, il linguaggio. La comprensione di questi termini necessita della conoscenza dei loro fondamenti epistemologici, della loro storia. Il linguaggio della disciplina, in particolare, rispecchia e contiene tutto questo. Prendere in considerazione il linguaggio scientifico significa allora prendere in esame contemporaneamente l’organizzazione dei concetti disciplinari (quelli che ne costituiscono l’attuale statuto), poich?nbsp; considerare i due aspetti separatamente vorrebbe dire contribuire a quella scissione di significati che ? purtroppo in atto nella scuola italiana da molto tempo.
Spesso nell’insegnamento scientifico usuale invece il linguaggio domina sugli altri fattori che costituiscono la disciplina e sembra assumere vita propria dai contenuti. Il linguaggio caratterizzato dalla complessit?delle parole da specialisti e una costruzione della frase tipica della disciplina, viene propinato agli alunni di tutte le et? come se fosse una lingua straniera da imparare, prima o poi, a forza di sentirla. L’accesso ai significati ?invece “innaturale?e richiede analisi disciplinare, tempi lunghi e consapevolezza della stratificazione dei concetti.
Qual ?l’effetto del modo consueto di insegnare sugli alunni alle varie et?
A livello di scuola media superiore allora la chimica viene recepita come una serie di nomi di composti, di cui spesso si ignora tutto dal punto di vista del comportamento chimico; ogni parola ?scollegata dal suo significato reale e imparare la nomenclatura ?una specie di gioco in cui contano regole verbali, “grammaticali?(la conoscenza concreta della reattivit?dei composti che d?un senso ai loro nomi spesso ?totalmente ignorata). Il linguaggio, ?uno dei fattori fondamentali della disciplina, ma nell’insegnamento dovrebbe essere sempre espressione di contenuti chiari, compresi, assimilati perch?se ne conosce la storia, il contesto in cui sono nati, la loro eventuale osservabilit?o riproducibilit?sperimentale.
Ci sono parole usate nel linguaggio scientifico che comprendono significati complessi, come la parola acido che esprime uno dei concetti fondamentali della chimica. Il concetto di acido richiede una “costruzione?nbsp; lenta che parte dalla definizione di senso comune, va dalla definizione operativa adatta alla scuola media, alle definizioni teoriche di Broensted o di Lewis della scuola media superiore. Il termine acido andr?acquisendo significati sempre pi?elaborati e il tutto si tradurr?in consapevolezza che passa anche attraverso la lingua.
Conseguentemente l’organizzazione dei concetti deve, a nostro avviso, essere diversa nella scuola di base e nella scuola media superiore . Anche se l’argomento di studio ?nbsp; sempre quello dei fenomeni naturali, nella scuola di base essi devono essere scelti fra quelli “non troppo carichi di teoria?. Il metodo sar? fondamentalmente diverso in questi due ordini di scuola: nella scuola di base le attivit?principali saranno quelle di osservare, descrivere, confrontare (9), nella scuola media superiore le leggi macroscopiche dovrebbero essere studiate grazie alla contestualizzazione storica insieme ad una riflessione sulle modalit?d’indagine della scienza. Nella scuola di base ha un grande importanza l’utilizzo del linguaggio scritto, grazie al quale le parole usate per descrivere un certo fenomeno osservato, acquistano, per cos?dire, peso e importanza. Nella scuola di base e nella scuola media superiore il linguaggio dovrebbe essere utilizzato per riempire di significati le parole, per dare quindi senso alle strutturazioni linguistiche delle frasi.
Lo scopo ?nbsp; anche quello, trasversale a tutte le discipline, di potenziare le competenze linguistiche, essenziali per la conoscenza. Come ci dice Calasso in “Le nozze di Cadmo e Armonia? l’alfabeto, il dono fatto da Cadmo alla Grecia, ?paragonabile a quello dell’acqua, portata da Danao: ?i>Cadmo aveva portato alla Grecia <<doni provvisti di mente>>: vocali e consonanti aggiogate in segni minuscoli, <<modello inciso di un silenzio che non tace>>:l’alfabeto. Con l’alfabeto, i Greci si sarebbero educati a vivere gli dei nel silenzio della mente, non pi? nella presenza piena e normale, come a lui era toccato il giorno delle sue nozze?nessuno mai avrebbe potuto cancellare quelle zampe di mosca che Cadmo il fenicio aveva sparpagliato sulla terra greca..?(10)
E le parole sono “provviste di mente?quando i significati non sono disgiunti da esse, sia che esse siano scritte o vengano emesse come insieme di suoni, per vivere “gli dei nel silenzio della mente?
BIBLIOGRAFIA
1) Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina,1969.
2)T. De Mauro ?Prima persona singolare passato prossimo indicativo? Bulzoni Editore,1998, p.158.
3) L.S. Vygotskij “Pensiero e linguaggio? Giunti – G.Barbera,1969.
4) Ibidem p.84-85.
5) G. Cavallini,op.cit.p.303
6) L.S. Vygotkij, op. cit., pp.91-92
7) C. Fiorentini, Riflessioni epistemologiche e psicopedagogiche e proposte sull’insegnamento scientifico (Tesi di laurea), Anno Accad. 1993-94, Firenze.
8) L.S. Vygotkij, op. cit., pp. 199-221
9)C. Fiorentini, Quali condizioni per il rinnovamento del curricolo?, in F.Cambi (a cura di), L’arcipelago dei saperi,Progettazione curricolare e percorsi didattici nella scuola dell’Autonomia, Le Monnier, Firenze, 2000, p.275-290.
10) R. Calasso,Le nozze di Cadmo e Armonia, Gli Adelphi, Milano, 1995, p.436.