Sull’onda della protesta: prove INVALSI o telequiz?

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Sull’onda della protesta (prove Invalsi o telequiz?)

in Politiche educative

di Maria Piscitelli | del 22/03/2011 |commenta

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Le rilevazioni Invalsi non rivestono un valore assoluto: le prove sono perfettibili come ogni prova e non costituiscono l’unico modo di valutare. Tuttavia, rispetto alle rilevazioni scolastiche, esse hanno un grado di maggiore attendibilità scientifica, poiché poggiano su fondamenti teorici di valenza nazionale ed internazionale.



Parto da una mail che ho ricevuto da un collega della scuola secondaria di II grado: “Spero che ti sia arrivato un documento sulle prove Invalsi approvato dai due terzi degli insegnanti del liceo Mamiani di Roma: è vero quello che dicono? In particolare è vero che sulla base dei risultati delle prove ci sarà un premio o meno per gli insegnanti? Mi sembrerebbe inaudito; stento a crederlo: non vorrei che la realtà fosse fortemente stravolta per giustificare un rifiuto aprioristico di qualsiasi tentativo di innovazione (non sarebbe la prima volta da parte dei cosiddetti ‘duri e puri’). Le prove sono davvero portatrici di una concezione semplicistica e nozionistica (quiz) del sapere? Il documento del Mamiani, se non ti è arrivato, lo puoi trovare sul sito dell’Unità”.

Devo confessare che nel leggerla sono rimasta un po’ interdetta. Ho cercato subito il documento per capire meglio e dare una risposta al collega.

Scorrendo il Documento sono rimasta colpita dalle prime frasi: “No ai telequiz sugli studenti, no alla gerarchizzazione e alla discriminazione dei docenti. I professori del liceo Mamiani denunciano l’ultima trovata del governo e si appellano all’opinione pubblica”.

Ma di quali telequiz si parla, mi sono chiesta. Poi capisco che si sta parlando dei test Invalsi, denominati quiz e considerati: “Un metodo buono per il conseguimento della patente di guida, non per saperi complessi quali quelli impartiti dai veri esperti della Scuola, che sono (ovviamente) i Docenti […] una sorta di quiz, i quali, benché considerati negli anni Sessanta e Settanta la panacea della valutazione, in effetti lasciavano cadere l’alto valore del pluralismo delle competenze e delle capacità, e con essi i saperi analitico-critici: saperi che certo non si misurano su pacchetti quantitativi (punteggio quiz). Non sarà piuttosto l’uso ideologico del test a prevalere? Non si profila piuttosto un ingabbiamento all’interno di pacchetti di conoscenze (nozioni) che vanno tutte nell’indirizzo del pensiero unico, del libro unico? Dell’insegnante a una dimensione e dello studente ad una dimensione? La Scuola dà strumenti concettuali. Dà qualità nell’uso della ragione e nell’autonomia della ragione. Per questo l’articolo 33 della nostra Costituzione pone come non negoziabile libertà d’insegnamento e d’apprendimento”.

Il Documento prosegue mescolando tanti altri punti, in parte condivisibili, da cui si evince una reale situazione di disagio generata dalla politica dei tagli e dai continui attacchi alla scuola pubblica. Si teme innanzitutto che gli esiti delle prove Invalsi vengano utilizzati come criterio di valutazione delle scuole e dei docenti. Una preoccupazione questa legittima, visto che il Ministro Gelmini ha già tentato un’operazione simile con l’introduzione delle sperimentazioni nella scuole fortunatamente cadute nel vuoto.

Se tuttavia ciò accadesse si tradirebbe il mandato istituzionale dell’Invalsi, specificato nel Piano della performance Invalsi 2011-2013 (cap. 2, parr. 2 e 3), le cui competenze sono elencate all’art. 17 del Decreto Legislativo 213/2009. Inoltre si strumentalizzerebbero le prove e le stesse scuole per fini ideologici rispondenti a una visione classista della scuola.

Il compito dell’Invalsi consiste nell’offrire elementi di conoscenza sui risultati degli apprendimenti utili: 1. all’Amministrazione Scolastica a decidere interventi migliorativi e perequativi del funzionamento e dei risultati del sistema scolastico; 2. alle Istituzioni Scolastiche Autonome a stimolare la riflessione e il confronto con i livelli regionale e nazionale e a sviluppare azioni di miglioramento (Piano della performance Invalsi 2011-2013-cap. 2, parr. 2 e 3).

Diversamente si snaturerebbe la sua mission e conseguentemente la sua funzione nella scuola.

Altra questione è invece il duro attacco, fatto dal Documento, alle prove Invalsi, nel quale i colleghi “sparano nel mucchio, senza distinguo” accomunando problemi diversi, in nome della libertà di insegnamento e della cultura. “Non vorrei che la realtà fosse fortemente stravolta per giustificare un rifiuto aprioristico di qualsiasi tentativo di innovazione (non sarebbe la prima volta da parte dei cosiddetti ‘duri e puri’)”, scrive il collega Paolo Martini nella mail.

In effetti il tono denigratorio e le argomentazioni addotte suscitano perplessità e con molta probabilità sono stati dettati da pregiudiziali ideologiche e da scarsa informazione (pacchetti quantitativi, uso ideologico del test, ingabbiamento all’interno di un pacchetto di nozioni). Su alcuni termini ricorrenti nel Documento (enciclopedismo, pensiero unico, libro unico, omologazione) ci sarebbe molto da dire proprio per la scuola tradizionale (secondaria di I e II grado), dove vige un canone inamovibile, nonostante le Raccomandazioni europee del Consiglio di Europa, gli Assi culturali, le indicazioni nazionali, i mutamenti epocali (proliferazione di nuove conoscenze, innovazioni tecnologiche, nuovi linguaggi etc.) e le presenze sempre maggiori di soggetti appartenenti a etnie e culture altre (multiculturalismo).

Provo invece a riprendere il filo del discorso per correttezza di informazione, soffermandomi su alcuni punti.

1. L’Invalsi non propone telequiz o quiz divulgativi, ma somministra prove, abbastanza articolate, finalizzate ad accertare i livelli di competenza di lettura e di matematica nei vari ordini di scuole. Non rileva nozioni, quanto capacità d’uso delle stesse, come cioè l’alunno seleziona, fa interagire ed elabora le conoscenze per affrontare un compito cognitivo. Per l’ambito della lettura, di cui sono state individuate tre sottocompetenze (testuale, lessicale, grammaticale), accerta cosa sa fare l’alunno quando legge un testo con il proprio bagaglio culturale, quali operazioni compie, come risolve problemi e quali strategie mette in atto.

2. Rimanendo sempre nell’ambito della lettura, la literacy/competenza corrisponde a una capacità di livello alto di elaborare le informazioni scritte. Uno dei denominatori comuni a tutte le indagini è la richiesta di ragionare sul testo. Spesso gli studenti hanno difficoltà proprio a rispondere a domande che richiedono una ricostruzione complessiva del testo, una “interpretazione”; un’organizzazione logica entro e non oltre la frase; una capacità indiziaria e inferenziale; una messa in relazione tra informazioni esplicite contigue e non contigue oppure tra dati impliciti. Le domande particolarmente problematiche per i nostri studenti sono quelle che richiedono operazioni inferenziali, e più in generale compiti di riflessione/valutazione sul contenuto e sulla forma del testo. Ne consegue che le didattiche ricorrenti, “l’‘arte di insegnare’ una techne, come la chiamavano i Greci che educa ad essere padroni della propria mente” e le stesse scelte epistemologiche, dovrebbero andare in questa direzione e privilegiare un lavoro a scuola sull’attivazione di processi (cognitivi e affettivi), sullo sviluppo di capacità di ragionamento e sulla strutturazione di un pensiero critico. Un impegno che coinvolge l’intera didattica e chiama in causa il curricolo.

3. L’altro punto sollevato nel Documento è quello relativo al tipo di quesito presente nei test: V/F. e a risposta multipla. In verità la gamma dei quesiti è più ampia, include anche domande aperte con risposta univoca oppure con risposta breve o articolata.

Comunque l’obiettivo sotteso a tutti i quesiti, compresi quelli V/F e a risposta multipla, è quello di investigare i processi di lettura, definiti a livello nazionale e internazionale (individuare informazioni, integrare e interpretare, riflettere e valutare), e non tanto un pacchetto di nozioni o pacchetti quantitativi, come recita il Documento.

La verifica delle nozioni o dei contenuti è pratica diffusa soprattutto della scuola del programma e non del curricolo per competenze.

Infine per la correzione delle risposte si prevede una griglia suddivisa in ambiti di valutazione, risposta corretta e punteggio grezzo attribuito a ogni domanda, da cui dovrebbe discendere il voto.

È opportuno far notare che la trasparenza delle operazioni è una caratteristica delle prove. Tutti conoscono ciò che si valuta e come si valuta (processi di lettura, oggetti linguistici, tipo di compito richiesto, criterio di attribuzione dei punteggi, voto conseguente).

La procedura è chiara e rigorosa, ma soprattutto democratica. Varrebbe la pena di diffonderla nella scuola.

Mi rendo conto che le modalità proposte si discostano da quelle usuali. La stessa prova di lettura è stata per molte scuole una novità. Le verifiche non vertono difatti sulla comprensione scritta, ma sulla produzione scritta e in particolare sul tema, la cui correzione resta ancor oggi artigianale e fonte di interminabili discussioni e critiche. Ma qui si apre un altro capitolo su cui ritorneremo in un’altra occasione.

Va da sé che le rilevazioni Invalsi non rivestono un valore assoluto: le prove sono perfettibili come ogni prova e non costituiscono l’unico modo di valutare. Le forme di valutazione sono plurime (autovalutazione, portfolio, valutazione formativa etc.), come plurimi sono i metodi e i modelli culturali. Tuttavia rispetto alle rilevazioni scolastiche esse hanno un grado di maggiore attendibilità scientifica, poiché poggiano su fondamenti teorici di valenza nazionale ed internazionale.

Sicuramente richiedono qualche “ritocco”, come per esempio la prova sulle conoscenze grammaticali che esula, dal mio punto di vista, dalla filosofia delle indagini internazionali. Ma su questo siamo fiduciosi, poiché Ocse Pisa è ritenuto dall’Invalsi un valido punto di riferimento.

Per concludere si consiglia di usare le prove con intelligenza, non certo come forme di addestramento, ma come un’opportunità didattica, di affinamento e di revisione del proprio lavoro; di riflessione sulle modalità di apprendimento e di elaborazione di nuovi strumenti valutativi per formare teste pensanti.

Certamente non hanno niente a che vedere con i telequiz o con i quiz della patente

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insegnante di matematica di FRANCA., pubblicato il 30/03/2011

Grazie per la risposta, condivido le argomantazioni riguardo alla lettura perchè è una competenza trasversale così come condivido pienamente il fatto che la matematica sviluppi le abilità logiche, detto ciò non ho ancora capito perchè la responsabilità delle “figurette” che facciamo a livello europeo, e non solo, siano da imputare solo a due discipline. Mi piacerebbe essere confortata su questo punto. Nessuno dice mai che le condizioni scolastiche, in cui noi dobbiamo lavorare, sono notevolmente diverse rispetto a quelle delle altre nazioni con cui i nostri CAPI, presidi compresi,ci mettono sempre a connfronto. 

In risposta all’insegnante di matematica di M.P., pubblicato il 29/03/2011

Il motivo per cui le prove riguardano soltanto la literacy in lettura, in matematica e in scienze ( OCSE PISA) non è legato ad una concezione gerarchica delle discipline. Anche se occorre precisare che per OCSE PISA gli oggetti da indagare non sono prettamente disciplinari o comunque correlati  al curricolo scolastico. Quando si parla di lettura, ci si riferisce ad una competenza  trasversale da esercitare su qualsiasi tipo di testo, sia in formato cartaceo che elettronico, e in tutte quelle situazioni (personali, pubbliche, educative, lavorative) in cui la lettura riveste un ruolo importante. La lettura è intesa  non solo come “esercizio individuale, ma anche come attività sociale che plasma le interazioni fra individui ed è da esse plasmata” 

 Tuttavia  per queste prove sono stati individuati alcuni ambiti di indagine ( lettura, matematica e scienze), identificabili in determinati saperi, e ne sono stati esclusi altri. Il motivo credo che risieda nel fatto che i Quadri di riferimento teorici, relativi agli ambiti prescelti, sono condivisi dalla Comunità scientifica internazionale. Mentre per altri ambiti ci sarebbero dei problemi, basta pensare alla storia.

Altra questione è l’Invalsi che verifica le competenze legate ai  curricula scolastici. Ma anche nel caso nazionale il problema della condivisione resta. Comunque potremmo notare che la lingua straniera dovrebbe essere oggetto di rilevazione, visto che il Framework internazionale esiste da lungo tempo.

Se ciò non avviene è perché mancano, con molta probabilità, i fondi e non tanto perché le lingue straniere sono materie di serie B.  

Può darsi che in futuro la situazione cambi, ma su questo non sono affatto ottimista, visti i tagli e  lo scarso interesse a migliorare la qualità della scuola.

Dal mio punto di vista il problema non è quindi culturale.

La scrittura si apprende

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La scrittura si apprende

in Didattica e apprendimento

di Maria Piscitelli | del 23/03/2010 |commenta

La maggior parte dei giovani comunica in vari modi, anche per iscritto. Ma non è scrittura, si dice. Su questo punto sarebbe interessante aprire una discussione per svecchiare antiche credenze. Basterebbe rileggere Umberto Eco. Tuttavia è pur vero che bisogna imparare a scrivere anche secondo certe regole canoniche (lingua standard).



Che cosa significa imparare a scrivere? Probabilmente riusciremmo a capirlo meglio se rivisitassimo il nostro cammino di scrittura, in parte simile a quello di molti ragazzi. Potremmo rivederci bambini alle prese con le parole, mentre cerchiamo di dar forma a pensieri che volano via veloci (i pensierini di un tempo, ma anche di oggi?); ci rivedremmo un po’ cresciuti presi dallo scrivere temi su temi, talvolta sgomenti di fronte a frasi che non tornano, a idee che non ci sono o che si ripetono, non sapendo da dove iniziare. Timore, orrore della pagina bianca? Chissà? Ma in quest’excursus potremmo riscoprire momenti deliziosi di scrittura personale, privata; momenti in cui, trascinati dalla necessità di scrivere, ci siamo imbattuti nella magia delle parole, desiderando di metterle per iscritto in più modi. Parole vicine e lontane! Parole che fanno vivere il mondo. Il ricorso alla scrittura nasce proprio da questo “sentimento per la vita” (Maraini, 2000). Scriviamo per sfogarci e liberarci dal dolore oppure per fermare il tempo e ricordare; per necessità o per puro divertimento; per ragionare e fissare conoscenze oppure per scrutare il mondo o porci in rapporto con gli altri. Scrivere significa innanzitutto “dare un nome alle cose, e ciò ci forza a scendere nel profondo della realtà per poi uscirne, attribuendole qualcosa di nostro” (Ibidem). Il piacere di scrivere è sempre legato al piacere di esprimersi e comunicare (informazioni, emozioni, convinzioni, seduzioni) ed esso si coltiva. Tante sono quindi le spinte a scrivere e varie sono le forme di scrittura e le sue pratiche.

A scuola invece si impara a scrivere soprattutto con il tema. Se il ragazzo non sa fare il tema, si assegnano tanti temi, dimenticando che se non lo sa fare significa che non possiede determinate capacità scrittorie (logico-linguistiche-testuali etc.); capacità che si costruiscono con una didattica motivante e processuale. La disposizione a scrivere, sulla quale si appoggia gran parte dell’insegnamento non basta; come non basta limitarsi a proporre un’ampia, seppur interessante, rosa di letture, affiancate essenzialmente da fredde griglie di analisi e procedure tecniche che talvolta si acquisiscono meglio leggendo e producendo personalmente.

La scrittura si apprende e si apprende facendola vivere come un “atto creativo, come un qualcosa che ci consente di dare forma all’informe, sia esso privato e intimo o pubblico” (Ibidem). Essa richiede delle vere e proprie forme di apprendistato, che durano nel tempo. “Persino chi ha talento non impara in fretta l’arte del saper scrivere, anch’egli sperimenta che il più delle volte la scrittura è conquista; conquista vitale e sofferta” (Ibidem).

Fondamentale diventa prendere in esame questi aspetti, più che l’ignoranza dei nostri alunni, proponendo per la scrittura incontri differiti e in profondità; e questi ultimi sono tanto più felici quanto più l’alunno avverte l’urgenza e il piacere dello scrivere, rendendosi conto che sta sviluppando capacità scrittorie. Capacità che gradualmente si tradurranno in uno stile personale, in grado di comunicare emozioni estetiche ed etiche, pur nel rispetto della “norma”, tante volte violata con nonchalance dal mondo adulto. La scuola lo accompagnerà in questo processo creativo, supportandolo con letture differenziate (letterarie e non), esposizioni orali e uso consapevole di una varietà di parlati.


Per approfondire:

• Dacia Maraini, Amata scrittura, RCS, Milano, 2000.

I giovani non sanno scrivere: che fare?

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I giovani non sanno scrivere, che fare?

in Didattica e apprendimento

di Maria Piscitelli | del 21/01/2010 |2 commenti | commenta

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La scuola ha l’oneroso compito di insegnare a scrivere, non dimenticando mai che ogni ragazzo ha il suo percorso di scrittura, legato a storie e a sensibilità differenti. È soprattutto dentro questa realtà che dovremmo scavare per meglio capire perché i giovani non sanno scrivere.



Sempre più frequentemente appaiono sui giornali interviste a insigni studiosi o a personalità del mondo accademico che si lamentano delle scarse capacità scrittorie dei giovani. Se ne riportano strafalcioni e difficoltà espressive, ricercando cause e adducendo spiegazioni più o meno plausibili, che evidenziano tutte una preoccupante realtà: i giovani non sanno scrivere. È pur vero che dare risposte esaustive è impossibile, poiché la questione è spinosa e complessa e tanti sono i motivi per cui un ragazzo fatica a scrivere. Tuttavia questo non dovrebbe indurci a disegnare il giovane di oggi come una persona incapace di comunicare con altri linguaggi (non verbali, multimediali, artistici, musicali, teatrali etc.) e registri di lingua in fondo tutti legittimi e presenti nelle “Indicazioni nazionali” del I ciclo e nella definizione di “Asse dei linguaggi” del biennio della scuola secondaria di II grado.

Probabilmente più che demonizzare e amplificare questa situazione, sicuramente non rosea, ma inevitabile dato che viviamo nel mondo delle nuove Tecnologie e Linguaggi, dovremmo capire come mai la scuola non ottenga risultati, interrogandoci se insegna davvero a scrivere. E se lo fa come lo fa.

Dovremmo chiederci se insegna a scrivere attraverso una didattica motivante oppure mediante l’assegnazione di temi intorno ad argomenti su cui non vi è stata la giusta preparazione (vedi i temi di attualità). Dovremmo chiederci se di fronte a compiti di scrittura essa riesce a suscitare il piacere o almeno l’urgenza dello scrivere e se è consapevole che questa abilità si appoggia sull’abilità di lettura, sua gemella, e quindi occorre stimolare i ragazzi a leggere, coinvolgendoli in letture interessanti e accessibili. Non dimentichiamo che i ragazzi crescono in un mondo adulto, non particolarmente competente nella lettura (ovvero legge poco).

Ma per scrivere non basta leggere; quando si scrive si attinge a un repertorio linguistico sia scritto che orale. Ciò richiede un lavoro sull’oralità che tratti una varietà di parlati, non legati soltanto all’interrogazione, alla spiegazione oppure alla comunicazione quotidiana. Dovremmo indagare se la scuola adotta sistematicamente una didattica dell’oralità, attivando la pratica e lo studio di una pluralità di forme testuali orali.

È su questo versante che bisognerebbe confrontarci e discutere, evitando pericolosi riflussi nostalgici. La grammatica, antica amica di molti e più volte chiamata in causa per riparare tutti i mali, in questi casi purtroppo non aiuta e questo lo si sa da tempo, avendolo sperimentato sul campo. Se fosse vero il contrario e cioè che basta svolgere un ricco programma grammaticale o assumere approcci grammaticalisti per imparare a scrivere, dovremmo preoccuparci, visto che nella scuola media e nella scuola primaria questo già accade (nella scuola primaria si inizia ad affrontare l’analisi logica in IV-V, nella scuola media di I grado si studiano morfologia e sintassi per tre anni).

La grammatica serve invece a controllare e a migliorare la scrittura, a sciogliere un dubbio logico/linguistico; però prima bisogna saper scrivere, come sapevano scrivere gli alunni della scuola gentiliana. Allora aveva un senso svolgere un corposo programma grammaticale; la scuola era frequentata da chi era pronto per… (Vale la pena di aggiungere che la grammatica era necessaria al latino!).

Che si debbano poi conoscere alcuni fondamentali contenuti grammaticali è un altro discorso! Ma il ragionamento ci condurrebbe sul piano dei saperi essenziali e significativi, così fortemente auspicati nelle riforme passate della scuola e raramente nominati dagli intervistati.


Per approfondire:
• Il Dipartimento disciplinare di Lingua italiana del Circolo Didattico di Vinci (FI)
Progetto Bond

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Leggere, scrivere e…di MARIAROSA50, pubblicato il 03/02/2010La vexata quaestio della lettura e scrittura dei giovani nella scuola italiana e anche fuori dalla scuola ( ma anche dei non più giovani) appassiona tanti di noi, insegnanti e non, anzi soprattutto i ?non? che da ogni canale mediatico si profondono in ampie lamentazioni sull? incapacità di scrittura dei giovani studenti: i ragazzi non sanno scrivere, e, quando lo fanno, sono innumerevoli gli errori di tutti i tipi, il lessico non è appropriato, lo stile è pessimo, il linguaggio specifico inesistente. Come deve sapere scrivere un bambino dopo cinque anni di scuola primaria? E un adolescente al terzo anno delle medie? Ed infine un ragazzo alla fine del percorso liceale? Deve essere competente nella scrittura e o nelle scritture? Forse sarebbe bene farla questa distinzione. Le competenze in uscita richieste nelle indicazioni nazionali (Fioroni, 2007) alla voce ?asse dei linguaggi?, vengono enucleate molto dettagliatamente. Nel documento si parla di competenze che devono essere spese per una scrittura efficace in ambito scolastico, ma soprattutto in ambito non scolastico. E si enucleano i diversi ambiti su cui si deve concentrare l?insegnamento/apprendimento dell?italiano. In ciò è particolarmente significativa la specificazione degli ?ambiti? di letto/scrittura. Si parla di lettura e comprensione di testi continui ma anche non continui, di testi autentici e di tutte le forme in cui viene utilizzata la comunicazione verbale. Però, come si può osservare da parte degli addetti ai lavori, i docenti di italiano, specie al biennio della secondaria superiore, si ostinano a privilegiare i testi letterari o anche paraletterari. Ora, come giustamente afferma Maria Piscitelli, non si può far leggere un testo letterario ad un apprendente, che appunto perché tale, deve prima apprendere ad utilizzare la lingua attraverso tutti i passaggi di ordine pragmatico prima ancora che teorico. Questa semplice osservazione che è così naturale per chiunque apprenda una lingua straniera, risulta molto lontana dalla prassi di insegnamento dei docenti dell?italiano come lingua madre. Oggi i bambini e gli adolescenti utilizzano nella scrittura la lingua che ritengono più necessaria per comunicare tra loro, vale a dire quella degli sms, dei network, delle chat, dove, per la naturalezza con cui viene usata e la facilità con la quale viene compresa, passa per essere ?la lingua? d?uso e di scambio comunicativo. Apprendere quindi una lingua strutturata come quella dei testi letterari risulta quanto mai difficoltoso, senza una serie di passaggi intermedi che, attraverso testi comunicativi autentici, di uso pragmatico e comune, portino gradatamente verso la complessità dei linguaggi. Anche la riflessione sulla lingua non può prescindere da questo processo graduale e non può quindi essere cosa separata da questo. La grammatica deve diventare significativa per l?apprendente e tale diventa solo se egli ne comprende l?efficacia all?interno della sua prassi comunicativa. Da questo punto di vista le modalità teoriche, scisse dalla ?pratica dei testi? risultano incomprensibili per i nostri ragazzi che sono abituati a percepire e a recepire nozioni e informazioni solo in relazione a quanto è loro necessario nell?immediato. Maria Rosa Giannalia

di SIMONASACCHINI, pubblicato il 26/01/2010Chi sa scrivere?? Anche se insegnante (o meglio, ex insegnante da qualche mese), non so dire con sicurezza se i ragazzi sanno o non sanno scrivere. Però mi chiedo: sanno o non sanno scrivere rispetto a cosa? A chi? E poi: saper scrivere è un?arte? E? un dono naturale? E? un?abilità da acquisire? E se così è, come si insegna a scrivere? E, s?impara a scrivere solo a scuola? Dalle risposte dei rettori, professori, intellettuali si evince che il mondo giovanile è connotato da disortografia, povertà e genericità lessicale, da incertezze nell?articolazione corretta della sintassi. Non lo disconosciamo, ma crediamo che, prima di sciogliere geremiadi sui frequenti strafalcioni, grammaticali e sintattici dei giovani, sulle loro miserie lessicali, sarebbe più corretto chiederci, in primo luogo, se solo quelle competenze definiscano il ?saper scrivere? e, secondariamente, o meglio, contemporaneamente, chiederci se non sarebbe più utile allargare il campo di indagine ad un ?pubblico? più vasto. Sull?arte del ?saper scrivere? sono convinta che ognuno di noi in fatto di scrittura come di lettura – le gemelle, come le definisce Maria Piscitelli – abbia gusti diversi, personali, dettati dal proprio sentire, dalle proprie frequenze con la lettura, dal proprio ambiente socio-familiare-culturale e, certo non per ultimo, dal tipo di scuola frequentata e vissuta. C?è chi ama il bello stile, la perizia raffinata, chi l?immediatezza dei sentimenti slegata dai vincoli linguistici, dal rigore stilistico, dal rispetto delle forme e quindi apprezza l?uso sapientemente asintattico, la forma spezzata? Ma questa ?libertà? vale o non vale a scuola? A scuola ci si attiene ancora ad un unico imperituro modello di scrittura e di stile o sono incoraggiati altri modelli e si valorizzano anche altri stili? Quando i giovani ascoltano la radio e la televisione, seguono un dibattito, un programma di intrattenimento, un talk show, o quando leggono giornali e riviste, possono rintracciarvi validi modelli linguistici? uno stile efficace, strutture sintattiche ben articolate, chiarezza di espressione, correttezza ortografica? vi rintracciano modelli di scrittura e di parlato corretti? Già Calvino, nel noto testo Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (Garzanti, 1988) metteva in guardia contro la genericità del pensiero e dell?espressione linguistica, definita ?una peste del linguaggio? e notava che questa non investiva solamente l?uso stretto della lingua, ma anche molti altri circuiti della vita sociale come la burocrazia, la politica, i media: ?alle volte mi sembra che un?epidemia pestilenziale abbia colpito l?umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l?uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l?espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive??. Interessato ad indagare le possibilità di ?salute? della lingua, Calvino non si soffermava ad interrogarsi sulle origini di tale epidemia, limitandosi ad affermare tuttavia che esse si rintracciavano facilmente nella politica, nell?uniformità burocratica, nell?omegeneizzazione dei mass media, nella diffusione scolastica della media cultura. Il riferimento all?oggi è fin troppo facile, ma è un oggi che comprende tanti, parlanti e scriventi, e non solo i giovani. E non solo la scuola. Simona Sacchini

Non so scrivere!

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Non so scrivere!

in Didattica e apprendimento

di Maria Piscitelli | del 25/10/2010 |commenta

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Scrivere è un processo complesso che rimette in gioco conoscenze e altre abilità. Per attivarlo bisogna nutrirlo di letture, di affinamenti della parola e integrazioni anche con la lingua orale; occorre sostenerlo con attività le più varie possibili: pratiche di imitazione, manipolazione, rielaborazione, riscrittura e revisione dei testi che investono a tutto campo la didattica disciplinare.



“Non mi piace scrivere” mi ha detto poco tempo fa un ragazzo di sedici anni, durante un incontro con una prima classe dell’Istituto professionale. “Non mi piace, perché non so e non saprò mai scrivere. Me lo ripeteva sempre la mia insegnante delle medie. È inutile che provi. Non so neanche da dove iniziare. Non imparerò mai. Ormai è andata!”.

Lo diceva sorridendo, con naturale rassegnazione e forzata indifferenza, da cui traspariva una vena di amarezza. Quell’amarezza l’ho provata anch’io, colpita dalle sue parole “macigno”, di cui mi sono sentita responsabile. Mi sono sentita responsabile, perché consapevole che tutti possono imparare a scrivere, seppur a livelli differenziati; basta praticare una didattica della scrittura varia e motivante, che non sia quindi solo esercizio sterile e abitudinario oppure scrittura di temi. È pur vero che non è semplice, poiché scrivere è un processo complesso che rimette in gioco conoscenze e altre abilità (leggere, parlare, utilizzare strategie e tecniche). Per attivarlo bisogna nutrirlo di letture, di affinamenti della parola e integrazioni con la stessa lingua orale; occorre sostenerlo con attività le più varie possibili: pratiche di imitazione, manipolazione, rielaborazione, riscrittura e revisione dei testi che investono a tutto campo la didattica disciplinare.

Tuttavia una didattica della scrittura risulta efficace se finalizzata a un compito autentico condiviso, un compito significativo e profondo che attribuisce senso all’atto dello scrivere. E lo diventa ancor di più se inserita in un percorso di lavoro organico e processuale, i cui fili del discorso, siano essi emotivi o cognitivi, si intrecciano tra loro come una narrazione didattica del “fare lingua” (abilità, testualità, problematiche, dinamiche relazionali, cura della persona etc.). Mentre la scrittura spesso è affrontata come un atto isolato, talvolta addestrativo, tecnicistico, che trascura la relazione di scambio che richiama il lettore e si rivolge a una pluralità di destinatari possibili (autore o altri): destinatari individuali o collettivi, espliciti o impliciti. In ogni scrittura si ritrova la prospettiva del lettore, che rende forte il legame con la lettura. Gli stessi nostri alunni sono simultaneamente lettori di altri testi, da cui attingono contenuti, forme, strategie, effettuando imitazioni e trasformazioni.

Resta quindi centrale collegare le diverse attività scrittorie a una cultura del testo, facendo intravedere che, in ogni produzione scritta, esiste una relazione con altri prodotti, tramandati dalla comunità culturale. Una buona parte della scrittura, anche “immaginativa” e creativa, si forgia su materiali pre-esistenti, (gioco delle posizioni enunciative, forme del discorso, tematiche, generi). Ne consegue che sia particolarmente fruttuoso sviluppare una pedagogia dell’intertestualità, integrata a una dimensione critica e argomentativa, che porti poi a superare la semplice imitazione dei procedimenti per andare verso orizzonti nuovi e personalizzati di scrittura.

A tutto ciò fa naturalmente da sfondo la motivazione in quanto collante che cementa le diverse parti; è difatti la motivazione che crea condizioni stimolanti e suggestive capaci di risvegliare i sensi e sprigionare energie immaginative. È la motivazione, in particolare quella che nasce dal di dentro (interna), che porta a far vivere la scrittura, a desiderare e conoscere il bisogno dello scrivere, “come se il cuore si incidesse sulla pagina” (Maraini, 2000), spingendo a esplorare tematiche e modalità di scrittura, che dovrebbero essere il più possibile accattivanti ed emergenti, efficaci e trainanti.

Si tratta di una motivazione profonda che può condurre lo studente a scrivere con “gli occhi, le mani, gli orecchi e il naso”, impegnandolo a “ingaggiare quella lotta corpo a corpo con la parola”, che lo stimolerà a scrivere e riscrivere, a “lavorare sulle parole, ritrovandone la forza e la fisicità” (Ivi).

Nel campo dell’insegnamento tocca ai docenti escogitare alternative e soluzioni, creando narrazioni didattiche in grado di risvegliare il sopito desiderio dello scrivere, preparando al contempo il terreno per incontri “alti” con la cultura letteraria. È una grande sfida, lo sappiamo bene, ma la raccogliamo volentieri perché We can!


Per approfondire:
• D. Maraini, “Amata scrittura”, RCS, Milano, 2000.