Didattica della chimica e della fisica – 1

Leonardo Barsantini

            Le ricerche, riportate in letteratura, sulle conoscenze acquisite dagli studenti nelle discipline scientifiche, indicano un chiaro fallimento della attuale didattica delle scienze.

I libri di testo si presentano come manuali di tipo enciclopedico, costruiti sulla organizzazione del trattato universitario. Il materiale è presentato in modo assolutamente inadeguato per chi deve imparare.

Eccessiva quantità di materiale proposto, scelta degli argomenti senza tenere conto della maturazione psicologica degli studenti, tempi non adeguati, sottovalutazione dell’aspetto storico ed epistemologico della disciplina sono gli elementi che non permettono agli studenti di acquisire competenze.

La formazione universitaria degli insegnanti è tale da non lasciare spazio a una riflessione didattica che non sia quella che individua il sapere e la sua trasmissione con il sapere accademico specialistico. Il paradigma ancora dominante è quello di una trasmissione lineare di conoscenze che si accumulano con continuità e in modo dogmatico su conoscenze pregresse.

Gli insegnanti, proprio per la formazione che ricevono, sono ancorati a una visione della scienza lontana un secolo dalla riflessione epistemologica che si è sviluppata nel ‘900. L’immagine tradizionale della scienza gioca un ruolo rilevante nella costruzione dell’interazione docente – studente. Leggendo il primo capitolo di manuali scolastici, quello dedicato al metodo scientifico, si finisce per pensare che le semplici osservazioni permettano di costruire teorie; termini quali oggettività, verità, realtà non sono mai problematici. Ma questa visione ingenua della scienza incide negativamente nell’insegnamento scolastico. Non ci si deve stupire che molti siano portati a vedere la scienza come un pericolo per l’umanità rivolgendosi, poi, a “rituali” alternativi.

            E’ quindi necessario scegliere opportunamente gli argomenti da sviluppare in tempi adeguati senza trascurare le preconcezioni degli studenti. Ciò che si insegna non può essere troppo lontano da ciò che lo studente sa. Dice Darwin (1945): <<E’ tanto difficile non farsi un’opinione qualunque, come è difficile formarsi un giusto giudizio>>.

Le concezioni degli studenti

            In letteratura sono da tempo presenti ottimi testi che analizzano approfonditamente il ruolo delle concezioni degli studenti nell’apprendimento delle discipline scientifiche (Grimellini e altri (1991), Cavallini (1995)). Decine di migliaia di studenti, e anche adulti, sono stati sottoposti a test in molti paesi del mondo. Il risultato drammatico di queste ricerche è che al termine della scuola superiore gli studenti, anche quando hanno acquisito un certo numero di nozioni, hanno una conoscenza scientifica che non fa riferimento a quanto avrebbero dovuto imparare, ma piuttosto al senso comune. E’ qui il caso di analizzare, anche se sommariamente, alcune di queste ricerche per comprenderne l’importanza per la didattica.

            Per quanto riguarda l’ottica, gli studi condotti hanno messo in evidenza come, nella testa degli studenti, la luce emessa da una lampada sia diversa da quella emessa, ad esempio, da una candela. La luce della lampada ha, per molti studenti, la caratteristica di propagarsi fino ad incontrare un ostacolo, che è ciò che avviene, ma questo solo se la lampada è accesa di notte. Di giorno la luce della lampada, per la maggioranza degli studenti intervistati, tende a restare confinata attorno alla lampada stessa. Molti pensano che la luce di una candela anche di notte tenda a rimanere confinata attorno alla sorgente. Questa caratteristica è rafforzata per sorgenti di luce ancora più deboli.

            Gli studenti sono vincolati a una concezione che associa la propagazione della luce alla sorgente e a separare i fenomeni che avvengono in oscurità o in piena luce. Gli studenti, inoltre, distinguono fra la luce prodotta da sorgenti che hanno il compito di fare luce e sorgenti che pur emettendo luce, non sono state realizzate con lo scopo di illuminare e per le quali la luce è una sorta di alone che si concentra in uno spazio prossimo alla sorgente.

            Gli studi sulla propagazione della luce mostrano che molti studenti pensano che si possa vedere un raggio luminoso anche se non incide nell’occhio dell’osservatore. Questa concezione è confermata dai test relativi alla riflessione dai quali risulta che solo percentuali attorno al 20% di alunni applica correttamente la legge sulla riflessione, ad esempio per poter vedere un oggetto riflesso in uno specchio. Gli altri ritengono che sia sufficiente essere davanti allo specchio, o che basti essere dall’altra parte, in modo generico, dello specchio rispetto all’oggetto, o che valga una legge di riflessione con un angolo di 90° fra raggio incidente e raggio riflesso. Anche Piaget, studiando le condizioni che applicano i ragazzi per ottenere la riflessione da uno specchio, si era imbattuto in questi casi.

            Ricerche sono state condotte sugli specchi e sui colori, fornendo risultati analoghi a quelli visti in precedenza. I colori, poi, spesso sono ritenuti indipendenti dalla luce.

Gli insegnanti tradizionalmente operano una classificazione che vede l’ottica geometrica affrontata prima dei colori, considerando questi ultimi più difficili, ma in realtà questo modo di vedere l’insegnamento deve essere superato: è facile ciò che coincide o è vicino alle conoscenze di senso comune, è difficile ciò che è lontano e in contrasto con il senso comune. Un insegnamento di tipo tradizionale che non tenga conto delle conoscenze di senso comune, non  modifica le teorie ingenue degli studenti, e i tempi solitamente brevi, durante i quali si affrontano i vari argomenti, non correggono minimamente le preconcezioni degli studenti.  

            Vediamo anche quali sono le opinioni più comuni relative ai fenomeni termici. Gli studenti ritengono che le sorgenti classiche di calore siano le stufe, i forni, il fuoco, il sole. Il calore è confuso con l’aria o il vapore oppure si ritiene che esistano delle particelle di calore. I corpi di dimensioni maggiori hanno la capacità di accumulare maggiori quantità d’aria facilitando la propagazione del calore. Però per molti, la dimensione degli oggetti non è la caratteristica da prendere in considerazione; infatti, per alcuni studenti, i metalli, essendo compatti, non permettono l’accumulo di aria e quindi sono freddi. E’ spesso presente una distinzione fra calore caldo e calore freddo che colloca le due sensazioni su piani contrapposti. Non tutti i corpi, poi, sono ritenuti capaci di riscaldarsi.

            Per molti studenti la temperatura di un oggetto frazionato in più pezzi si divide fra le varie parti. Anche la temperatura di un corpo è messa in relazione con le sue dimensioni, così come accade per il calore. Alcuni ragazzi pensano che unendo due masse d’acqua, mantenute, ad esempio, una a 40°C e l’altra a 30°C, la temperatura finale sia pari a 70°C, altri a 10°C. Si fa fatica a comprendere che gli oggetti di una stanza all’equilibrio termico hanno tutti la stessa temperatura.

Il ghiaccio non può fornire calore e non è considerato una sorgente di calore per corpi a temperatura inferiore. Alcuni, pensando alla temperatura di solidificazione dell’acqua a 0°C, ritengono che quella sia l’unica temperatura del ghiaccio e 0°C sono considerati equivalenti a un calore nullo. Un cubetto di ghiaccio su una tavoletta di ferro si pensa che si sciolga più lentamente di uno su una tavoletta di legno.

E’ difficile capacitarsi del fatto che la temperatura dell’acqua in ebollizione resta costante. La conoscenza della costanza della temperatura all’ebollizione, non esclude, per molti studenti, che si possa raggiungere l’ebollizione con qualunque temperatura purché si aspetti un tempo sufficientemente lungo.

Per molti la temperatura che si misura con i termometri da esterno non è la stessa grandezza di quella misurata con i termometri da febbre, ed è presente la convinzione che nei termometri da febbre la temperatura misurata dipenda dal valore di partenza segnato dalla colonna di mercurio.

            Molti ragazzi ritengono che i recipienti di metallo, considerati più freddi, conservino il ghiaccio meglio di altri materiali. Per alcuni studenti, e anche per alcuni adulti, il ghiaccio avvolto in un maglione, si scioglie più velocemente. Non si riflette mai sul fatto che nelle sensazioni termiche anche il corpo prende parte all’interazione.

            Si può pensare che l’insegnamento tradizionale operi proprio per scalzare queste concezioni e per sostituirle con una nuova visione del mondo di tipo più scientifico, ma in realtà le cose non stanno così; un insegnamento di tipo tradizionale non scuote minimamente le preconcezioni degli studenti, anzi talvolta le rinforza. Posti di fronte a domande che potremmo definire “non scolastiche”, ciò non tradizionali, gli studenti tornano a fornire risposte di senso comune anche dopo aver affrontato l’argomento in oggetto.

            Gli esempi qui riportati sono soltanto un piccolo campione delle ricerche compiute, lavori analoghi si possono trovare sulla chimica o la biologia e sono stati condotti con studenti di molte nazioni con risultati sostanzialmente coincidenti. Nel progettare una didattica efficace queste ricerche non possono più essere trascurate se vogliamo che l’insegnamento delle discipline scientifiche abbia un significato.

            La scelta dei contenuti da trattare deve essere allora ripensata in una ottica completamente nuova e visto che il ragionamento degli studenti è influenzato dal contenuto preso in esame, le metodologie e i contenuti devono procedere di pari passo. L’istruzione deve favorire l’organizzazione delle conoscenze e l’elaborazione di strategie cognitive.

Le proposte didattiche, oltre che essere calibrate alla maturazione psicologica dei ragazzi, devono mirare al superamento delle preconcezioni degli studenti e devono, quindi, essere fondate sulla conoscenza delle idee dei ragazzi. Facendo riferimento ai concetti piagetiani di assimilazione e accomodamento possiamo affermare che vi è una stretta relazione fra nuove assimilazioni e struttura cognitiva. Gli alunni sono in grado di apprendere soltanto se non vi è uno scarto troppo grande fra ciò che sarà e ciò che è già stato assimilato. Non c’è crescita, sia quando ciò che si deve apprendere coincide con ciò che si è già appreso, sia quando, e questo è il caso dell’insegnamento delle scienze nella scuola, c’è troppo scarto fra il vecchio e il nuovo. Le idee dei ragazzi sono fondate sulle loro esperienze e non devono essere considerate una sorta di “fiera della castroneria”, piuttosto una metafora della loro visione del mondo.

Purtroppo si è diffuso un modello di insegnamento che ripropone, opportunamente banalizzato, il sapere universitario anche nelle scuole di base. In Italia, rispetto ad altri paesi, il quadro è aggravato dalla mancanza di una ricerca universitaria nel campo delle discipline scientifiche (sono presenti poche anche se significative eccezioni), e dalla formazione di insegnanti in funzione della ricerca o della professione, ma non per l’inserimento da professionisti nel mondo della scuola.

I libri di testo

            I testi scolastici hanno una parte di responsabilità riguardo al fallimento della didattica delle scienze. L’impostazione del libro di testo è basata tutta sulla disciplina piuttosto che sulla didattica. I sussidiari della scuola elementare sono una banalizzazione dei testi della scuola media, questi a loro volta sembrano derivare da quelli della superiore per semplificazione e infine i testi della superiore sono costruiti rispecchiando il manuale universitario. Purtroppo questi manuali sono lo strumento sul quale molti insegnanti impostano il loro lavoro.

            Ad esempio la trattazione del principio d’inerzia ripercorre le stesse tappe nel testo della scuola media, in quello della superiore e nel manuale universitario; oppure si scopre che la temperatura e il calore, in un sussidiario della scuola elementare, sono trattati in tre pagine e la combustione in dieci righe, la temperatura poi è definita come la misura del calore. Eppure quanto visto sulle concezioni degli studenti a proposito dei fenomeni termici induce a pensare che lo spazio da dedicare a questi argomenti debba essere molto maggiore, che abbia poco senso affrontare un concetto complesso come quello di calore senza prima aver riportato le sensazioni di caldo e freddo a una unica grandezza o senza prima aver acquisito dati con un termometro.

            Nei manuali della scuola media, come anche in quelli della scuola superiore sembra predominare l’enciclopedismo e il formalismo. E’ abbastanza comune iniziare il testo con un capitolo sul metodo scientifico, identificandolo banalmente con un improbabile metodo sperimentale fatto di osservazioni certe, scelta ovvia delle grandezza da osservare, ipotesi e verifica sperimentale che rendono l’esperimento di laboratorio una sorta di ricetta di cucina. Ma le cose sono ben diverse. Gli studenti, a causa delle loro preconcezioni, anche se osservano ciò che osserva l’insegnante non vedono le stesse cose. Le grandezze da considerare e quelle da scartare non sono le stesse per tutti, la costruzione di un concetto va ben al di là dei dati forniti dall’esperimento di laboratorio. Considerazioni sul metodo verranno riprese in seguito, comunque anche accettando il metodo proposto nel primo capitolo di molti libri di testo, si evidenzia una incoerenza fra quanto si afferma e la presentazione effettiva degli argomenti in modo dogmatico con qualche concessione, qua e là, a schede di laboratorio e a schede con brevi profili storici.

            La presentazione degli argomenti, anche quando non segue il filo tradizionale è comunque fortemente influenzata dalla trattazione universitaria classica. Nel caso della velocità, ad esempio, si assiste a una presentazione rapida della relazione che lega velocità, spazio e tempo per poi passare ad analizzare alcuni moti. Ma se vogliamo che la velocità sia compresa è necessario che la relazione sia il punto di arrivo di un percorso e non il punto di partenza. Deve essere lo studente, lavorando su distanze percorse e tempi impiegati, a comprendere l’importanza di definire una nuova grandezza che leghi assieme distanze e tempi in una definizione operativa. La presentazione della definizione di velocità è vista da molti studenti, che continuano a dare maggiore importanza al punto di arrivo o a un eventuale sorpasso, come un meccanismo per fare dei conti dati dei numeri.

            Molti studenti pensano alla forza come a una caratteristica che può essere espressa soltanto da esseri animati, animali o uomini, eppure quanti libri di testo affrontano l’argomento?

            Il libro di testo ha una importanza minore con gli studenti più piccoli. Addirittura nella scuola elementare questo potrebbe essere sostituito da un libro per l’insegnante con percorsi adeguati e sperimentati per ragazzi di quella fascia d’età. Gli studenti possono ricostruire il lavoro fatto in classe sul proprio quaderno per arrivare ad una sintesi condivisa che rappresenta un “capitolo” del loro libro di testo autocostruito.

            L’attenzione deve essere concentrata non su una scansione degli argomenti funzionale solo da un punto di vista disciplinare, ma su percorsi finalizzati a permettere la costruzione di competenze. Questi percorsi o sottopercorsi costruiti per ogni segmento di scolarità vanno intesi come i tasselli di un unico percorso che, partendo dalla scuola di base, sviluppi le conoscenze degli studenti su obiettivi definiti che si raggiungeranno al compimento del ciclo scolastico della scuola dell’obbligo.

Nell’immagine “ingenua” di scienza si è talvolta portati a vedere la scoperta di un fenomeno come un momento definitivo, di arrivo; possiamo però ribaltare questo punto di vista e considerare la scoperta come il punto di partenza per organizzare e sviluppare la conoscenza. Anche nello sviluppo di un concetto non si deve cadere nell’errore di sentirsi in dovere di “fare tutto”, al contrario, si devono porre le basi e procedere un passo alla volta, anno dopo anno.  

Si ha quasi l’impressione che il testo scolastico più che soddisfare le esigenze dello studente nell’incontro con la disciplina soddisfi la necessità di enciclopedismo e di formalismo degli esperti. E il vostro che tipo di manuale è?

La riflessione sulla scienza

La riflessione sulla disciplina si riduce spesso alla scelta di quali contenuti affrontare e quali trascurare. Una scelta è indubbiamente essenziale, ma se la scelta non è contemporaneamente anche una riflessione sulla struttura stessa della disciplina, probabilmente un argomento vale l’altro e quindi si può arrivare, come si arriva, a sviluppare la trattazione del radiocarbonio in un sussidiario della scuola elementare. Non che la sola riflessione sulla disciplina permetta di affrontare e risolvere il problema del cosa affrontare e del come affrontarlo, ma è sicuramente uno degli elementi necessari.

Di seguito sono presentate alcune considerazioni che possono rappresentare, pur con tutti i limiti, le difficoltà e i rischi che una simile operazione può comportare, un modo di porre attenzione alle discipline scientifiche che vada al di là della scelta dei contenuti.

Definizioni operative

Lo scopo che ci si prefigge, con un atteggiamento scientifico, è quello di mettere in evidenza, nella descrizione di un fenomeno, quali sono i fatti rilevanti rispetto a quelli che non lo sono. Questo contrasta con la visione del mondo del profano per il quale ciò che conta sono spesso eventi contingenti: si è molto più interessati a sapere quanto si impiegherà domani per andare da Firenze a Bologna, piuttosto che definire chiaramente alcune grandezze e conoscere una teoria cinematica.

Le grandezze fisiche sono definite descrivendo il procedimento utilizzato per misurarle, per mezzo di quella che viene detta una definizione operativa. Il termine definire può dare luogo a fraintendimenti, tant’è che nei libri di testo spesso si forniscono definizioni da dizionario più che definizioni operative. Si legge in un sussidiario della scuola elementare: “Temperatura: è la misura del calore”. Ovviamente questa definizione è errata, ma anche se fosse giusta non definirebbe proprio niente perché semplicemente “opera” sulle parole.

Le definizione operative hanno un forte aggancio con l’osservazione sperimentale; ad esempio definire operativamente la combustione richiede un lavoro approfondito di osservazione caratteristico di una scienza sperimentale, che fa concentrare l’attenzione sull’innesco, il residuo, il fumo, la velocità, l’emissione di luce, l’emissione di calore, scartando altri elementi che in quel contesto possono apparire inessenziali. Questo è ben diverso dall’affermare, semplicisticamente, che si verifica una combustione quando le sostanze bruciano. Dal punto di vista della didattica, si arriva alla definizione operativa quando si è costruito il concetto.

E’ vero che la definizione di velocità intesa come spazio percorso diviso tempo impiegato è la stessa sia che venga fornita in classe come punto di partenza sia che venga costruita al termine di un percorso, ma solo in questo secondo caso si può parlare di definizione operativa. Deve essere lo studente che “operando” su distanze, tempi, traiettorie, rappresentazioni grafiche, unità di misura e riflettendo anche sul significato di un rapporto, si costruisce il concetto di velocità abbandonando le proprie concezioni di senso comune.

 Le teorie

L’approccio operativo è fondamentale nella scuola di base ma si deve essere consci che non tutte le grandezze hanno un aggancio diretto con l’esperienza. E’ solo dopo aver lavorato operativamente in modo sperimentale – sperimentale nel senso che si diceva sopra, e non nel senso di andare in laboratorio per fare un esperimento – che si può passare a costruire una struttura teorica e non viceversa. Usando la metafora della rete proposta da Harl Gustav Hempel si può vedere una teoria scientifica come una rete composta da nodi collegati all’esperienza, e il resto della struttura con funzione teorica. I nodi devono quindi essere ben individuati prima di perdersi nelle maglie della rete.

E’ ovvio che le teorie svolgono un ruolo importante nella costruzione di una disciplina scientifica ma queste non possono essere il punto di partenza, quanto il punto d’arrivo. Spesso accade il contrario, la teoria atomica è posta, ad esempio, a fondamento della chimica già nella scuola elementare senza aver costruito una solida base osservativa su fenomeni macroscopici elementari.

Operativamente si può introdurre il concetto di forza per arrivare, tramite lo studio delle deformazioni, al dinamometro, e solo in seguito si affronterà il concetto di forza nei termini della dinamica. In seguito, qui, non significa di seguito, ma vuole indicare una precisa distanza temporale che implica il passaggio dalla scuola di base alla scuola secondaria.

Le teorie fanno uso di un linguaggio formale lontano da quello naturale; inoltre proprio la loro importanza, e talvolta anche la loro bellezza, è nella capacità di “comprimere” le informazioni in un quadro coerente. Ma questo è quanto di più lontano possa esserci dalla “testa” di un ragazzo. E’ vero che le teorie sono presentate, nei libri di testo o a lezione, in modo semiformale, ma questo non risolve il problema in quanto spinge a interpretare la parte formale in termini di senso comune.

Spesso gli studenti incontrano difficoltà nella comprensione, non solo del significato di singoli termini (ad esempio il termine lavoro ha significati diversi nella vita di tutti i giorni rispetto alla fisica), ma anche e molto più sottilmente per la confusione generata dai connettivi logici. Le ricerche hanno messo in evidenza che alcuni studenti interpretano un’espressione del tipo: “a quindi b”, come “a e b”. Problemi analoghi possono sorgere con: se … allora, non, o, alcuni, tutti.

Il luogo naturale per le definizioni operative è la scuola primaria, quello delle teorie, la scuola secondaria.

Oggetti macroscopici e microscopici

Gli oggetti macroscopici e quelli microscopici non possono essere trattati alla stessa stregua. I primi, infatti, hanno caratteristiche quali massa, carica, e forma contingenti, ma il loro comportamento è determinato con precisione dalle leggi fisiche. Gli altri, invece, hanno massa, carica, spin determinati e comportamenti, al contrario, descrivibili soltanto per mezzo di distribuzioni di probabilità. Gli oggetti microscopici possono anche avere la caratteristica di essere indistinguibili fra loro: due elettroni diversi sono a tutti gli effetti indistinguibili. Ciò non vale più per gli oggetti macroscopici, per i quali, accettando il postulato degli indiscernibili di Leibnitz, due oggetti che hanno esattamente le stesse proprietà, non possono che essere lo stesso oggetto. Al contrario di quello che succede con gli oggetti macroscopici, le particelle elementari, proprio per la loro indistinguibilità, non possono neppure essere caratterizzate con un nome proprio. Al massimo possiamo caratterizzare con dei nomi, non le particelle, ma le regioni che le contengono (sempre che, ad esempio nel caso di due particelle, le due regioni all’interno delle quali sono contenute siano abbastanza lontane da non dare origine ad una sovrapposizione, perché in quel caso le cose sono ancora più complesse).

Questa breve riflessione mostra quanto siano distanti i piani del mondo macroscopico e di quello microscopico, e la comprensione di quest’ultimo richiede una profonda concettualizzazione del primo: qui siamo ben lontani dai nodi della rete di Hempel. La definizione di particella è fortemente astratta. Lo studente, in mancanza di meglio, non può che riportare la descrizione del mondo microscopico a quella del mondo macroscopico travisandone completamente la natura.

Questo non significa che non si possano trattare argomenti di questo tipo con gli studenti della scuola primaria (diverso è il discorso con gli studenti della secondaria), ma si deve essere coscienti che affrontare tali argomenti non permette agli studenti di operare per crearsi dei concetti, ma al massimo di memorizzare delle informazioni. Ovviamente ciò fa venire meno il motivo per cui si insegna la scienza a scuola. Non che la trasmissione di informazioni sia sempre deprecabile, ad esempio per soddisfare la curiosità degli studenti o per catturare la loro attenzione, ma si deve essere coscienti che una cosa è dedicare una piccola parte del proprio tempo e per i motivi appena detti, a presentare certe nozioni, un’altra è impostare su tali argomenti l’anno scolastico. Si deve essere consapevoli del fatto che, mentre affrontare la combustione in un’ora in modo superficiale o affrontarla in uno o due mesi in modo operativo fa la sua differenza per lo sviluppo di competenze nel bambino, dedicare due ore o due mesi al mondo microscopico (radiocarbonio nella scuola elementare, partire dall’atomo per introdurre i fenomeni chimico-fisici, dedicare buona parte di un percorso di scienze nella scuola media per lavorare sull’energia nucleare) non fa nessuna differenza perché in ogni caso gli studenti, chiamati a lavorare su concetti troppo distanti e astratti, non potranno costruirsi una propria struttura interpretativa.

La fisica moderna

            Collegato a quanto appena detto è il problema della fisica moderna. L’insegnamento della fisica moderna può trarre grande giovamento dalla conoscenza storica del lavoro fatto dagli scienziati su alcune teorie del ‘900. Arons (1992) mette bene in evidenza come sia possibile introdurre soltanto alcuni elementi della prima fisica moderna, con gli studenti più grandi, e soltanto se si sono poste le basi opportune all’interno della fisica classica. Individuare una “linea storica”, come dice Arons, significa portare gli studenti a ragionare sui processi che determinano la creazione dei concetti. Nei libri di testo si presentano i risultati finali sui quali gli studenti non possono far altro che lavorare “di memoria”. La regola di quantizzazione del momento angolare, così com’è presentata è equivalente all’enunciazione di una formula magica (non c’è poi da stupirsi che la scienza sia talvolta messa sullo stesso piano di visioni del mondo “esoteriche”); non si tiene in nessun conto il percorso sviluppato da Bohr che fra le altre cose si pose il problema di trovare prove che indicassero che l’atomo di idrogeno è formato da un nucleo centrale attorno al quale ruota un solo elettrone.

            Arons racconta un aneddoto a proposito di un insegnante che aveva ricevuto, negli Stati Uniti, un encomio presidenziale per la sua didattica sulla fisica delle particelle elementari. Ma l’acquisizione di competenze attraverso lo studio delle particelle elementari, studio che è ben al di là delle capacità degli studenti di una scuola superiore, per Arons è addirittura meno utile di imparare a memoria le capitali degli stati americani. 

Le scoperte scientifiche

            Leggendo i libri di testo si ha l’impressione che le date che determinano le scoperte scientifiche siano il termine di un processo di ricerca e che da quel momento in poi si disponga di un nuovo concetto. In realtà, a ben guardare, è più probabile che la scoperta sia l’inizio di un processo destinato a evolversi nel tempo.

Se pensiamo, storicamente, a una particella possiamo percorrere una serie di tappe quali: parti molto piccole di oggetti macroscopici; le molecole della teoria cinetica; le molecole intese come aggregati di atomi; elettroni, protoni e neutroni come descritti dalle prime ricerche sulla radioattività; la comparsa di fotoni e neutrini; la creazione di particelle negli acceleratori di particelle; i quark fino ad arrivare alle più recenti teorie sulle super corde. Cosa si intende allora per particella? I quark, che non possono essere osservati singolarmente, possono essere considerate delle particelle? Ed inoltre possiamo affermare che l’elettrone cui pensano oggi i ricercatori sia lo stesso elettrone scoperto nel 1897 da J. J. Thomson? E di conseguenze, dobbiamo pensare alla scoperta dell’elettrone come a un atto definitivo che ha avuto il suo epilogo nel 1897, oppure a un processo che vede nella data del 1897, senza trascurare gli studi precedenti, un inizio per la nascita del concetto di elettrone?

Queste riflessioni valgono anche per la didattica. Sarebbe assurdo pensare di introdurre un concetto nella sua versione definitiva (quale poi?); è, al contrario, necessario permettere allo studente di costruire i propri concetti partendo da una visione del mondo più vicina a quella del vedere comune, di ogni giorno, per articolarla verso un maggior approfondimento e complessità, ma sempre passo dopo passo. Questo non significa, come qualcuno potrebbe intendere, che prima si fa la meccanica, poi la termodinamica, l’elettricità e il magnetismo e infine la fisica moderna, in una scansione da manuale.

In precedenza è stata messa in evidenza la difficoltà nel trattare il mondo microscopico. Questo vale per quel mondo astratto e formalizzato fuori dalla portata dei bambini. Niente vieta, ad esempio, al termine di un percorso sulle soluzioni nella scuola elementare, che i bambini possano formulare le loro ipotesi sul sale o sullo zucchero sciolto nell’acqua in termini particellari.

Il caso del movimento

            Il lavoro di J. Piaget (1975) sul movimento e la velocità permette di comprendere chiaramente come la definizione di velocità espressa per mezzo della relazione distanza percorsa fratto tempo impiegato sia insufficiente per lo studente, se non si chiarisce il ruolo di alcuni elementi, spesso trascurati nelle presentazioni tradizionali, quali la traiettoria, il sorpasso, i punti di partenza e di arrivo.

            Un percorso di introduzione al movimento deve far sì che lo studente possa focalizzare l’attenzione sulla distanza percorsa su una data traiettoria e sull’importanza della misurazione della distanza stessa. Si può quindi porre lo studente di fronte a situazioni diverse, che gli permettano di pensare al movimento in funzione delle distanze percorse e dei tempi impiegati; si possono introdurre i grafici spazio tempo in modo “concreto”, in modo, cioè, che la loro “costruzione” abbia un significato per gli studenti, cominciando anche a confrontare velocità diverse partendo dal concetto primitivo posseduto dagli studenti. Infine si può, con gli strumenti precedentemente sviluppati arrivare a una definizione di velocità, ma questa definizione non può essere il punto di partenza dello studio se non si vuole ridurre il tutto ad un banale addestramento su una formula. E d’altra parte questo percorso rappresenta soltanto una tappa conclusiva che apre la strada a nuovi approfondimenti e generalizzazioni che permetteranno di vedere in un’ottica nuova il concetto di velocità costruito in una prima fase. Processi di questo tipo richiedono tempi lunghi.

E la storia ci insegna quanto impegnativo sia stato lo sforzo di Galileo nello studio dei movimenti. Lo stesso Galileo, come è riportato da E. Grant (1983), utilizzò i concetti sviluppati dagli studi del Medioevo, e in particolare quelli del Merton College di Oxford, sulle intensioni e remissioni delle forme e delle qualità, cioè sulle velocità di variazione, ad esempio, del colore di un frutto con la maturazione. Ad esempio il moto uniforme veniva definito come: “l’attraversamento di distanze uguali in ogni intervallo uguale di tempo”. L’ogni elimina la possibilità che, all’interno di intervalli di uguali distanze e tempi, la velocità non sia uniforme. Queste sono proprio le definizioni verso le quali gli studenti dovrebbero essere condotti con lo studio del movimento.

Se queste difficoltà si incontrano sui concetti di base, attorno ai quali si può operare in una dimensione sperimentale anche in scuole dotate di pochi mezzi, ben più complessa è la faccenda quando si tratta di costruire concetti complessi quale quello d’inerzia. Soltanto se si opera su solide basi c’è la possibilità di introdurre gli studenti a operare su livelli più elevati, in caso contrario non esiste nessuna possibilità di riuscita. Le attività didattiche devono prendere in considerazione i preconcetti di senso comune assieme a prerequisiti specifici e le osservazioni sperimentali devono inserirsi in una rete di conoscenze e devono servire per formulare ipotesi o per far propri concetti operativi.

Oggetti e nomi

Abbiamo visto la difficoltà a caratterizzare con dei nomi le particelle per poterle riconoscere. Quando si attribuisce un nome si può distinguere, come ha proposto Gottlob Frege fra due significati, quello relativo all’estensione e quello relativo all’intensione. Le estensioni si riferiscono all’oggetto fisico, le intensioni al concetto associato all’oggetto fisico. Il nome termometro, come estensione, indica un ben preciso oggetto conosciuto da tutti; non altrettanto accade con l’intensione, cioè col concetto associato. Infatti, facendo riferimento alla misurazione di temperatura, quindi alle teorie sui fenomeni termici, il “termometro” dell’esperto è molto distante da quello del profano. Se non si tiene conto di questa distinzione il fraintendimento è totale.

Con il mondo microscopico le cose si complicano, perché in quel caso i nomi sono associati all’intensione, al concetto, e non all’estensione, cioè all’oggetto fisico. Ma le cose possono andare anche peggio costruendo una scienza di soli nomi all’interno della quale scompaiono gli oggetti e i relativi concetti. Come dice Galileo, a proposito della gravità: “Voi errate, signor Simplicio; voi dovevate dire che ciaschedun sa ch’ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del nome, ma dell’essenza della cosa: della quale essenza voi non sapete punto più di quello che voi sappiate dell’essenza del movente le stelle in giro…>>.

Galileo afferma: <<I nomi, e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza ai nomi, perché prima furono le cose, e poi i nomi>>.

La realtà

            Possiamo conoscere la realtà che ci circonda? Nei libri di testo è frequente trovare affermazioni del tipo: la scienza ci permette di conoscere la realtà che ci circonda. Ma qual è il significato di affermazioni di questo tipo? Mettendoci nella posizione dell’empirista ingenuo possiamo ritenere che i sensi ci diano una conoscenza certa della realtà. Ma questa posizione è poco sostenibile. La realtà, così come ci appare, è il frutto di una elaborazione personale. Lo studente non interpreta una prova sperimentale allo stesso modo dell’insegnante. Non tenere conto di questa distinzione, cioè non partire dalla posizione dello studente per realizzare un’opera di ricostruzione del mondo che avvicini lo studente all’insegnante significa fallire sicuramente.

Nella fisica i numeri ottenuti dalle misurazioni sono in relazione con le grandezze fisiche associate. Questo può dar luogo a un grave fraintendimento se si finisce per ritenere che quei numeri o quei simboli siano la realtà. Quando ciò accade si smette di lavorare sui concetti e si inizia l’addestramento con formule e numeri. Einstein  e Infeld (1965), affermano che: <<Per il detective il delitto è un fatto positivo ed il problema si pone semplicemente in questi termini: chi è l’uccisore? Lo scienziato invece deve, almeno in parte, commettere egli stesso il delitto e al contempo condurre egli stesso l’inchiesta>> E aggiungono: <<I libri di fisica sono pieni di complicate formule matematiche. Ma il pensiero e le idee e non le formule stanno all’origine di ogni teoria fisica>>.

Lo sviluppo storico della disciplina

In molti libri di testo la storia è utilizzata per introdurre un capitolo, per realizzare dei riquadri tipograficamente piacevoli o per inserire delle note contenenti alcune notizie storiche sui grandi scienziati. La didattica della disciplina, però, non è sviluppata alla luce di una riflessione sullo sviluppo storico. Ad esempio i gas e i liquidi sono trattati sullo stesso piano, anche se storicamente sappiamo che la concettualizzazione dei gas – o dell’aria – è risultata molto complessa. Analizziamo un po’ più in dettaglio lo sviluppo storico di alcuni concetti scientifici tenendo sempre come punto di riferimento la didattica.

La pressione atmosferica

            La pressione atmosferica viene normalmente introdotta con qualche riferimento a Torricelli e con la presentazione del barometro. Che il barometro sia uno degli strumenti fondamentali che ha permesso la rivoluzione scientifica del XVII secolo è innegabile, ma che con la presentazione del barometro si riesca a concettualizzare “l’aria o il vuoto” è un altro discorso.

            Se analizziamo più in dettaglio il processo storico che ha condotto allo studio dei gas ci accorgiamo che vi hanno preso parte scienziati del calibro di Galileo, Torricelli, Pascal, Boyle.

Già Galileo aveva affrontato i problemi relativi ai sifoni per tirare su acqua e al vuoto in un ambito che è quello della teoria dell’horror vacui; è però Torricelli, eseguendo le prime esperienze col barometro, a mettere in evidenza che l’altezza della colonna di mercurio, quattordici volte più denso dell’acqua, deve essere quattordici volte più bassa della colonna d’acqua. Inoltre lo scienziato sottolinea il fatto che lo spazio sopra il mercurio è vuoto e che la causa per l’innalzamento del mercurio è nell’aria esterna al barometro. Torricelli si esprime nel seguente modo in una lettera a Ricci del giugno del 1644: <<Noi viviamo al fondo di un pelago d’aria elementare, la quale per esperienze indubitate si sa che pesa, e tanto, che questa grossissima vicino alla sua terrena, pesa circa la quattrocentesima parte del peso dell’acqua. Questa forza che regge quell’argento vivo contro la sua naturalezza di ricadere giù, si è creduto fino adesso, che sia stata interna al vaso [barometro] …; ma io pretendo che la sia esterna, e che la forza venga di fuori.>>.

Ricci risponde ponendo delle obiezioni alle quali Torricelli è però in grado di ribattere. Ricci osserva che se è il peso dell’aria a determinare l’innalzamento della colonna di mercurio, tappando a tenuta il contenitore del mercurio, nel quale è immerso il tubo, questa spinta dovrebbe venire a cessare. Torricelli ribatte che se l’aria che resta all’interno è “del medesimo grado di condensazione” di quella esterna, il livello della colonna di mercurio resta invariato.

 Benché Torricelli avesse indicato la presenza del vuoto sopra la colonna di mercurio, il problema di cosa restava all’interno del tubo, sopra il liquido, per molti non era stato risolto.

Pascal, inserendosi a questo punto del dibattito, svolge un ruolo fondamentale nel chiarire la questione. Avendo la possibilità di utilizzare tubi di vetro molto lunghi realizza un esperimento che mette a confronto acqua e vino. All’epoca si riteneva che il vino avendo una maggiore quantità di “vapori”, dovesse salire meno in alto dell’acqua. In realtà l’esperimento, condotto nel porto di Rouen, utilizzando come sostegno l’albero di una nave, mostra che il vino sale più dell’acqua come c’era da aspettarsi in base al confronto fra le densità dei due liquidi. La tesi del vapore è sconfitta.

Pascal mostra anche che l’altezza della colonna di mercurio è sempre la stessa indipendentemente dallo spazio che si trova sopra mettendo così in crisi l’ipotesi, formulata da alcuni, di una bolla d’aria che sostiene il mercurio. Non disponendo di pompe a vuoto, Pascal esegue sempre nel 1648 un’esperienza ritenuta decisiva costatando che il livello della colonna di mercurio del barometro in cima al Puy de Dome è diminuito. E’ necessario mettere in evidenza che fa ormai parte del patrimonio delle conoscenze dell’epoca il fatto che la densità dell’aria vari con l’altezza: si usa quindi quest’ultimo risultato per interpretare la differente altezza della colonna di mercurio al variare della quota e non il contrario. Pascal, pur conoscendo i lavori di Torricelli, non farà mai riferimento a quest’ultimo attribuendosi il primato nella spiegazione dei fenomeni.

In questo dibattito si inseriscono proficuamente Otto von Guericke (1602 – 1686) e Robert Boyle (1627 – 1691). Benché pompe aspiranti siano già presenti fin dal XVI secolo, per merito di ingegneri rinascimentali, Guericke è in grado di realizzare le prime pompe per produrre il vuoto ed eseguire così ulteriori esperimenti.

Boyle, in particolare si trovò a sostenere una disputa col gesuita inglese Francis Hall, conosciuto come Linus (1595 – 1675), che lo condusse alla pubblicazione del saggio: A defence of the doctrine touching the spring and weight of the air, nel 1662. Linus, ancora aggrappato alla teoria aristotelica del vuoto, sosteneva che al disopra del mercurio non fosse presente il vuoto, ma un “funiculus” in grado di sostenere il mercurio stesso.

La teoria dell’horror vacui riceve un duro colpo dall’insieme dei fatti riportati fin qui. E’ pero evidente che un solo esperimento, per quanto significativo, non permette il cambiamento concettuale nella comunità scientifica. Si parla spesso di esprimenti cruciali, ma forse questi sono tali soltanto quando si è abbandonato il vecchio paradigma e si è accettato il nuovo.

Resta da chiedersi cosa ritenevano, tutti questi personaggi, fosse il vuoto. Paolo Rossi (1997), citando Dijksterhuis, afferma: <<E’ vero che la natura era stata liberata dall’horror vacui, ma è anche vero che quest’ultimo si era impossessato delle menti: “le tante teorie dell’etere, che occuperanno un posto di rilievo nella fisica ne sono la prova eloquente”.>>.

Questa breva trattazione sulla pressione atmosferica, mettendo in evidenza le difficoltà insite nella costruzione di un concetto, permette di puntualizzare l’inadeguatezza di trattazioni che banalizzano i concetti riportando soltanto i risultati finali. Ricerche condotte sulla pressione atmosferica hanno mostrato che molti studenti, anche universitari, pensano che l’aria eserciti una pressione solo quando c’è vento. A ciò si aggiunge una confusione fra gravità e pressione nel senso che, per molti, è il peso dell’atmosfera che ci schiaccia contro il suolo impedendoci di volare via, cioè è la pressione atmosferica la responsabile della gravità e non viceversa. Il vuoto poi, nel migliore dei casi, per molti è un vuoto pieno di aria, di polvere, di germi, di vapori sconosciuti.

Dice  T. Kuhn (1969): <<La presentazione manualistica presuppone che, fin dall’inizio dell’attività scientifica, gli scienziati abbiano rivolto i loro sforzi verso quegli argomenti particolari che sono incorporati negli odierni paradigmi. Uno dopo l’altro, in un processo spesso paragonato al porre un mattone sopra l’altro per formare un edificio, gli scienziati hanno aggiunto nuovi fatti, concetti, leggi e teorie al corpo di informazioni fornito dal manuale scientifico contemporaneo.

Ma questo non è il modo in cui si sviluppa la scienza.>>

E forse non è neppure il modo in cui si sviluppa la didattica della scienza.

I fenomeni elettrici e magnetici

            La necessità di rigore, termine spesso utilizzato quando si discute di insegnamento scientifico, non può significare l’obbligatorietà di presentare i diversi argomenti in una forma già ripulita e formalizzata, ma piuttosto l’esigenza di operare affinché lo studente venga portato su un terreno all’interno del quale sia in grado di muoversi anche con rigore logico. Troppo spesso ci si comporta come se (citando un’espressione ormai famosa) gli studenti che non conoscono niente di fisica o di chimica fossero in grado di ragionare come fisici o chimici. Non possiamo dare per scontato il ragionamento razionale nell’ambito delle discipline scientifiche, ma lavorare proprio per costruire la razionalità, tenendo presente che questa è un limite verso il quale si tende.

            William Gilbert, autore del De magnete magneticisque corporibus et de magno magnete Tellure physiologia nova, pubblicato nel 1600,  è stata una figura importante nello studio dei fenomeni magnetici perché cercò di riconoscere i fatti dalle superstizioni; all’epoca si pensava, come racconta il gesuita Niccolò Cabeo nel suo libro Philosophia magnetica del 1629 che: la polvere di un magnete potesse curare certe malattie, i magneti scacciassero le streghe, l’aglio avesse la capacità di indebolire la calamita, il magnete potesse riunire marito e moglie e potesse essere adoperato come filtro d’amore.

            Lo studio dei fenomeni elettrici non era facile, basti pensare alle difficoltà che può provocare l’umidità dell’aria, e anche Newton, nel 1675, mise in evidenza l’imprevedibilità nello sperimentare con le sostanze elettrizzate. Comunque Gilbert pose le basi per distinguere fra i fenomeni elettrici (all’epoca si riteneva che nelle interazioni elettriche fosse presente soltanto l’attrazione) e quelli magnetici e ipotizzò che la terra fosse un enorme magnete.

            D’altra parte lo stesso Gilbert riteneva che il magnetismo fosse l’anima della terra; parlava di simpatie e antipatie nella descrizione dei fenomeni osservati; parlando di attrazioni si esprimeva in termini di una “unione volontaria”, per cui il ferro e la magnetite si congiungevano assieme. Affermava che la calamita possedeva un’anima e che la bussola era “il dito di Dio”. Per Gilbert, insomma, la materia era viva e capace di recepire gli stimoli che gli giungevano.

            Alcuni studiosi, come il gesuita Athanasius Kircher, professore di matematica, fisica e lingue orientali al Collegio Gregoriano di Roma, mescolavano assieme magia e ricerca sui fenomeni naturali. La linea che divideva la magia dalla scienza non era così ben definita. Contemporaneamente, però, altri ricercatori, quali Lorenzo Magalotti (1637 – 1712) segretario dell’Accademia del Cimento, mettendo in evidenza un atteggiamento più moderno, puntualizzavano quanto fosse difficile sperimentare e la necessità di un condotta prudente nell’interpretare i nuovi fenomeni.

            Questi pensatori non sempre erano in accordo fra loro; ad esempio Cabeo, quasi trent’anni dopo le idee pubblicate da Gilbert, rifiutava l’idea che la terra fosse un magnete. Johannes Kepler, nell’Astronomia Nova del 1609, sosteneva la natura magnetica del Sole e individuava in una forza magnetica la causa che produceva il moto dei pianeti attorno al Sole. Kircher non era d’accordo con tale ipotesi perché riteneva che se il Sole fosse stato capace di generare una forza magnetica tanto intensa da trattenere i pianeti nelle loro orbite allora gli aghi delle bussole avrebbero dovuto puntare verso il Sole. Kircher obiettava anche a Gilbert che se un piccolo magnete ha abbastanza forza da attirare oggetti di ferro, la terra, molto più grande del magnete, dovrebbe attirare al suolo ferri di cavallo, pentole, armature e altri oggetti metallici; poiché questo non avviene la terra non può essere un magnete.

Come si vede i concetti in formazione sono impastati e sporchi e sono necessari lunghi periodi di riflessione e di sperimentazione per ripulirli e ciò vale anche per gli studenti. Ovviamente non si propone di ripercorrere tutte le tappe della storia della scienza, ma concentrandosi su pochi concetti fondamentali e tenendo conto di questi insegnamenti, di presentare agli studenti percorsi coerenti e in continuità fra loro affinché possano arrivare a costruire una conoscenza organizzata, che sia padroneggiata, di cui si è consapevoli e che permetta di affrontare il nuovo.

Queste due riflessioni storiche non vanno intese come proposte di studio per gli studenti (anche se ciò è in parte possibile per studenti più grandi che frequentano istituti ad indirizzo scientifico, auspicabile per chi frequenta facoltà scientifiche e obbligatorio per chi vuole fare l’insegnante), ma piuttosto come elemento di riflessione, da parte degli insegnanti, per la costruzione di percorsi didattici. Le difficoltà che hanno incontrato i grandi scienziati del passato sono, con le dovute proporzioni, le difficoltà di tanti studenti ancorati a una visione basata sul senso comune. Se vogliamo dare risalto alla costruzione dei concetti non si possono non tenere in considerazione conoscenze di tipo storico. Il docente non deve trasformarsi in uno storico della scienza, ma senza queste competenze non è possibile formulare proposte didattiche significative, ma soltanto fare del nozionismo e dell’addestramento. Presentare una disciplina scientifica, anche senza far riferimento a fatti storici, senza avere presente una dimensione diacronica piuttosto che sincronica della scienza, significa non permettere agli studenti la costruzione di concetti significativi. D’altra parte la progettazione di percorsi specifici configura delle competenze specifiche anche negli insegnanti: non si formano competenze negli studenti, se non sono presenti competenze negli insegnanti che vadano al di là della conoscenza, anche buona, della disciplina.